Anche a Roma, così come in diverse città d'Italia, sta
continuando l'esperimento governativo di militarizzazione e
fascistizzazione della società. Le pattuglie miste e presidii
stabili sono diventati uno spettacolo ormai noto per gli abitanti: dai
luoghi di interesse governativo alle zone periferiche, la loro presenza
è sempre visibile e riconoscibile dalle mitraglie tenute sul
petto, dalla mimetica o dal camioncino. Non sembra esagerato vedere in
questa operazione una vera e propria azione di guerra, innanzitutto
mediatica. Il problema d'immagine è sempre stato molto sentito
dall'entourage politico ed è quindi da escludere
l'involontarietà di far apparire per un anno le città del
"Belpaese" come quelle di vari stati sudamericani. L'intenzione si
direbbe quella di spingere l'acceleratore sulla paura irrazionale
sempre più diffusa in Italia. Un paranoico timore del nulla, a
giudicare dalle statistiche sui delitti (in costante
diminuzione), ma che nonostante tutto resta tenace, espresso
focosamente da una classe media e che suona ormai come una persistente
volontà di erigere a sacro bene le proprietà accumulate e
difenderle da chiunque le possa minacciare, politicamente o
materialmente parlando.
La rassicurazione che auspica questa minoranza agiata, ma anche
elementi delle classi inferiori raccattate con il mito del
"selfmademan", quando non direttamente col voto di scambio, è
quella dell'iper-controllo, dello Stato onnipresente. Alemanno ha
infatti avuto modo di dichiarare, durante la conferenza stampa di
bilancio sull'Esercito, che per "fronteggiare l'emergenza sicurezza"
verranno installati ulteriori mezzi di ripresa video sulle strade,
nonché aumentata la presenza di uomini già massicciamente
impiegati.
Una Roma divisa, insomma. I privilegiati sono chiusi nei loro attici
centrali, ben contenti di vedere l'ambasciata dove lavorano presidiata
(ma i punti di "interesse nazionali" sembrano limitarsi ad ambasciate e
discariche).
La popolazione, invece, guarda con giusto sospetto chi mette il naso
anche nelle borsette prima di entrare in metro o dà un
"supporto" alla Polizia inviso persino alla stessa, come questa ha
fatto sapere attraverso i propri organi sindacali. Ma sono per ora in
molti a dirsi soddisfatti e a confermare un trend di
reazionarietà dalle nostre parti come in tutta Italia: da cosa
potrà mai derivare questo masochistico desiderio di vedersi
sempre osservato?
Un indizio si potrebbe cercare nella diffidenza per cui nelle
città è naturale temere anche il vicino, il più
prossimo rappresentante della categoria "sconosciuti" con cui si
è abituati a vivere nell'universo frammentato
dell'umanità che abita una ormai gigantesca metropoli.
Ciò non può che peggiorare se l'unica finestra sul mondo
si riduce ad essere lo schermo televisivo con la costante
disinformazione e manomissione psicologica che esercita sugli individui
ormai persi nella acriticità passiva. In questi agglomerati
conoscersi e comunicare sembra sempre più una sfida. Una sfida
che va combattuta se si vuole incidere profondamente sulle dinamiche
generatrici di questa onnipresente paura.
L'altra guerra che viene combattuta è quella contro il dissenso,
di cui i militari sono lo spauracchio ultimo. Diventa di conseguenza
simbolico il fatto che il governo li dispieghi fra le strade: dalla
metropolitana alla piazza il passo è breve e stabilire un
precedente è sicuramente comodo.
Ma dopo le recenti dichiarazioni di Cossiga su infiltrazioni e
manganellate, dette da chi sulle piazze ci portò i carri armati,
sembra che il clima autoritario che si vuole creare trovi un numero
sempre maggiore di oppositori e di dissenzienti.
Gianfranco Stassi