2 morti e 6 feriti. No, non è l'esito di un qualche attacco
terroristico o di qualche bombardamento "intelligente" ma dell'ennesima
strage sul lavoro.
E' accaduto il 17 novembre a Sasso Marconi (BO) alla Marconigomme. I
due lavoratori, secondo il responsabile del personale, stavano
lavorando a una mescola di gomma al miscelatore quando all'improvviso
la macchina è esplosa provocando un intenso incendio. Invano i
compagni di lavoro hanno tentato di spegnere il fuoco e di salvare i
due operai, che sono morti davanti ai loro occhi. Sei invece i feriti:
per aver aspirato i fumi bollenti o per l'impatto dell'esplosione.
Questi i fatti.
Poi c'è il teatrino dei politici di tutti gli schieramenti che
fanno a gara ad esprimere cordoglio ai familiari, a fare minuti di
silenzio salvo poi scrivere leggi (di cui si parla in questo numero)
che tolgono le sanzioni per gli imprenditori inadempienti sulle norme
di sicurezza sul lavoro, allo strapparsi le vesti per "la tragica
fatalità". Tragica fatalità. Tragica fatalità
è quando, ad esempio, un vulcano erutta e sommerge con le ceneri
e i lapilli una città. Ma quando si muore mentre si lavora, di
fretta e senza sicurezza per non perdere il ritmo, non è tragica
fatalità: è omicidio. E' l'omicidio della logica del
profitto e del capitale avvallato e difeso dallo Stato. Ed è
sistematico. Dall'inizio dell'anno si contano un migliaio di morti,
decine di migliaia di invalidi e centinaia di migliaia di infortuni.
Non un'anomalia del sistema di produzione capitalistico ma un effetto
intrinseco delle logiche di sfruttamento.
Jacopo
Tra i tanti commenti e reazioni alla scontata sentenza di Genova, la
testata più sorprendente è senz'altro risultata
l'Unità, il quotidiano fondato da Gramsci buonanima, da poco
nella sua nuova veste pubblicizzata dal fondoschiena della
neo-direttrice.
L'Unità, infatti, sull'edizione di sabato 15 novembre, è
riuscita a fornire ben tre diverse letture della sentenza contro i
poliziotti responsabili della mattanza alla Diaz e attorno all'ormai
immancabile quanto tendenzioso teorema sugli infiltrati e il Black
Bloc, ormai divenuto il capro espiatorio di ogni contraddizione.
A pag. 10, è stato riportato uno stralcio del comunicato della
Fnsi, la Federazione della Stampa, in cui si afferma: "nessun black
bloc venne arrestato, né è stato chiarito il ruolo degli
agenti provocatori nel corteo", insinuando che si trattasse degli
stessi soggetti e, comunque, spostando l'attenzione sulle impunite
violenze poliziesche e dalla loro criminale regia governativa.
A pag. 11, in un articolo firmato C.Fus, si sostiene: "Sette anni e
mezzo dopo il sangue di Genova è stato cancellato. La morte di
Carlo Giuliani archiviata con qualche scusa. Su circa 500 black bloc
che per tre giorni hanno devastato, saccheggiato e provocato ne sono
stati condannati 24 con pene tra i 5 mesi e gli 11 anni…".
Tesi questa faziosa e persino errata; infatti si ritiene (cosa
indimostrata anche in fase processuale) che i 24 manifestanti
condannati facessero parte del Blocco Nero e che le loro condanne siano
state lievi al punto da essere messe sullo stesso piano di quelle
farsesche nei confronti delle forze di polizia; eppure una compagna
anarchica ha avuto una condanna a ben 11 anni! Tra l'altro, va
ricordato che i dimostranti prima di essere processati hanno subito
lunghe detenzioni, diversamente dai poliziotti inquisiti. Inoltre
vengono evocati tre giorni di scontri, quando in realtà questi
avvennero solo il venerdì e il sabato.
Infine, a pag. 34, è comparsa invece una lettera di Giuliano
Giuliani, il padre di Carlo, che più equilibratamente rivendica
il diritto alla resistenza: "Che fosse resistenza lo ha detto
esplicitamente il tribunale che ha emesso la sentenza contro
venticinque manifestanti, distinguendo fortemente le posizioni di
ciascuno e riconoscendo che «l'arbitrarietà delle condotte
dei pubblici ufficiali costituisce causa di giustificazione delle
condotte di resistenza ascrivibili ai privati»".
Chissà se qualche redattore ha letto quanto pubblicato sul suo stesso giornale.
Anti
Tre cortei hanno attraversato una Milano fredda e un po' innevata.
Tre cortei che raccoglievano scuole delle diverse zone centrali e
periferiche della città. Molti genitori, molti bambini, tanti
(anche se non quanti ne speravamo) insegnanti ed alcuni studenti
universitari. Due cortei composti da 2 mila persone circa e uno da 4
mila. Quindi, Milano ha visto scendere in piazza, dopo un mese
dall'imponente corteo del 30 ottobre, 8 mila persone determinate a non
farsi scoraggiare dalla prepotenza e arroganza del governo. Un numero
di persone significativo, ma purtroppo, bisogna dirlo, un po' sotto le
aspettative.
Questa giornata di mobilitazione era stata pensata e preparata dai
tanti comitati sorti spontaneamente quest'anno nelle scuole, proprio
per poter coinvolgere la società civile, i genitori e tutte
quelle persone che non erano scese in piazza il 30 ottobre.
È vero che la volta scorsa il corteo si era gonfiato a dismisura
per la partecipazione massiccia degli studenti medi ed universitari, ma
c'è anche da dire che lo sciopero aveva visto un livello di
adesione impressionante nelle scuole.
Cosa significa tutto ciò?
Scervellarsi su possibili scenari futuri dell'Onda Anomala, versione
lavoratrice, è difficile e forse anche un po' inutile. Ma il
prossimo sciopero generale del 12 dicembre, che coinvolge anche la
scuola sarà sicuramente un decisivo banco di prova. Vedremo se i
comitati, prima ancora dei vari sindacati, riusciranno a trascinarsi
dietro il grosso dei colleghi.
Questo è un compito irrinunciabile. E noi anarchici, a partire
dai comitati scolastici, dovremmo spingere per lo sciopero, l'azione
diretta e la partecipazione unitaria di tutti, restituendo la fiducia
nelle nostre forze, affinché riesca la giornata di lotta.
Riccardo B
La manifestazione nazionale femminista e lesbica del 22 novembre,
autorganizzata a Roma dalla rete delle Sommosse, a distanza di un anno
da quella del 24 novembre 2007, ha affermato
«l'incompatibilità, l'inconciliabilità con ogni
aspetto, economico, politico, sociale, culturale, ideologico di questo
sistema». Meno numerosa di quella del 2007, la mobilitazione ha
coinvolto però un numero maggiore di collettivi e realtà
di base: dalle studentesse dell'Onda alle operaie metalmeccaniche,
dalle donne dei sindacati di base e del Tavolo 4 (vedi
femminismorivoluzionario.blogspot.com) ai gruppi femministi e lesbici
di tantissime città.
La molteplicità delle realtà provenienti da tutta la
penisola ha dimostrato che questo movimento non solo è stato in
grado di allargarsi, ma che, a distanza di un anno, ha saputo produrre
analisi e pratiche di lotta. Lo stanno a dimostrare le centinaia di
volantini, fogli, fanzine, riviste, adesivi e striscioni, sintesi del
lavoro politico territoriale svolto dai collettivi femministi e
lesbici, ma anche da molte singole impegnate nelle mobilitazioni
antirazziste, antifasciste e anticlericali. Un lavoro di indagine, di
analisi, di autonarrazione, di testimonianza delle lotte:
dall'occupazione di case – come quella di Action/A, portata avanti da
donne migranti – alla creazione di consultori autogestiti, dalle
pratiche di sorellanza con le migranti all'impegno al fianco delle sex
workers, dal boicottaggio di catene di negozi d'abbigliamento alla
denuncia del crescere degli "obbiettori di coscienza" sulla 194.
La violenza sessuale sulle donne è stata denunciata nella
maggior parte degli slogan, come pure la discriminazione e il doppio
sfruttamento che le donne subiscono sia sul posto di lavoro, sia
nell'ambito sempre più segregante della famiglia, ma anche nella
società "civile" dove la donna, quando è rappresentata,
appare sempre più ridotta a oggetto sessuale. Lesbiche e
femministe hanno gridato forte: «Noi la crisi non la
paghiamo», ponendosi al fianco di tutte le donne che lottano
contro il ritorno dell'oscurantismo e del più greve
autoritarismo patriarcale, consapevoli che occorre ritornare
protagoniste delle lotte sociali. Non a caso le donne sono spesso le
animatrici delle lotte attuali. Sono state le maestre dell'Iqbal Masih
di Roma a dare il via alla protesta sul decreto Gelmini. Analogamente,
le donne dell'Alitalia sono state le prime a denunciare l'accordo
vergognoso sottoscritto da Cgil-Cisl-Uil con la Cai, discriminatorio
verso le donne perché «chi fa lavoro di cura non deve
essere assunto». Di fatto, le donne oggi pagano il prezzo
più alto in termini di licenziamenti, precarizzazione,
discriminazione salariale, sfruttamento, tagli dei servizi sociali. Ed
è proprio questa disparità economica che le rende
soggetti più deboli, dipendenti dagli uomini, esposte a ricatti
e violenze. Come hanno scritto le compagne di Maragridaforte:
«Violenze legittimate e incoraggiate da governi e sindaci
sceriffi che vogliono imporre modelli di comportamento normalizzanti in
nome del "decoro" e della "dignità"...».
La manifestazione ha lanciato un messaggio chiaro: è necessario
resistere, creare socialità e solidarietà, realizzare
momenti di lotta, superare le varie divergenze senza annullarle,
traducendo in pratica gli obbiettivi comuni. Le donne non torneranno a
casa perché indecorose e libere!
Cassandre felsinee
Una giornata movimentata all'ombra della Mole. Il luogo simbolo di
Torino da qualche anno ospita il museo del Cinema. Pochi metri
più in là c'è il Massimo, dove si svolgono parte
delle proiezioni del Torino film festival.
Sono le sei di sera del 26 novembre. Mentre un gruppo di antirazzisti,
aperto lo striscione "Fuori i militari dai quartieri", volantina di
fronte all'ingresso del Cinema Massimo, altri antirazzisti raggiungono
in ascensore la terrazza panoramica della Mole e vi fissano saldamente
uno striscione di 30 metri su cui campeggia la scritta "Via l'esercito
dalla città". Gli esponenti della GTT – l'azienda che gestisce
il trasporto pubblico nonché l'ascensore del Museo – bloccano
l'ascensore, sequestrando quattro antirazzisti sulla terrazza.
Mentre i guardiani della GTT – gli stessi che ogni giorno collaborano
su tram e autobus alle retate contro gli immigrati senza carte –
tentano inutilmente di farsi consegnare le chiavi dei lucchetti che
serrano lo striscione, un antirazzista se la fila alla chetichella
dalle scale di sicurezza. Una ventina di minuti più tardi si
esibirà nel salto dalla terrazza del primo piano sotto gli occhi
esterrefatti dei guardiani del Museo che lo indicano allibiti con il
dito.
Al loro arrivo sulla scena i carabinieri tentano invano di strappare
dalle mani di due antirazzisti lo striscione aperto in strada: si
dovranno poi accontentare di identificarli.
I tre "striscionisti" rimasti sulla terrazza vengono trattenuti
lì dalla Digos sopraggiunta nel frattempo, mentre sotto i loro
compagni entrano nell'atrio del Museo, chiedendo a gran voce il loro
dissequestro. Alla fine i tre saranno rilasciati e lo striscione sulla
Mole portato via da un corpulento maresciallo.
R. Em.
Quello di via Cottolengo è uno dei tanti mercati rionali
della nostra città, un mercato domenicale dove vendono e
comprano e si incontrano gli abitanti della popolosa zona di Porta
Palazzo.
Da lungo tempo media, partiti xenofobi e comitati "spontanei" ne
invocano la chiusura. Dicono che il mercato è abusivo,
incontrollabile.
A partire dall'inizio di ottobre, quando le autorità hanno fatto
schierare duecento uomini armati per impedirne lo svolgimento,
ambulanti, antirazzisti e semplici frequentatori del mercato sfidano
ogni domenica l'esercito e la polizia per riconquistare metro per metro
la strada.
La domenica 23 novembre, i cosiddetti "comitati spontanei" - un pugno
di razzisti, tra cui molti commercianti, che si attribuisce ogni giorno
il diritto di parlare a nome di interi quartieri – hanno organizzato,
proprio in via Cottolengo, una festa per ringraziare le truppe di
occupazione per il lavoro che hanno svolto fino a quel giorno.
Pensavano di farcela. Fino alle 10 del mattino. Poi sono arrivate le
prime bancarelle degli antirazzisti e qualche abusivo di lungo corso
del balôn. Le note della Samba Clown Army, naso rosso, mimetica e
sciarpette rosa, scaldano l'ambiente. Si tracciano a pennello i limiti
del campo di calcio all'Alpino mentre i clown scatenano un ritmo
indiavolato. Poi partono le prime sfide al pallone. Una mostra con le
foto delle vittime del razzismo di Stato e di popolo, portata da
antirazzisti di Milano, mette sotto gli occhi di tutti la ferocia del
nostro vivere quotidiano. La Digos minaccia alcuni abusivi stranieri
per indurli a non unirsi alla festa all'alpino. Ma intorno a
mezzogiorno arrivano i primi banchi, seguiti a ruota da molti altri: il
mercato si ingrossa fin più del solito.
Così, pochi razzisti, chiusi dietro un imponente schieramento di
polizia e carabinieri, hanno celebrato il loro triste rito militarista,
mentre – complici una partita di pallone e la scatenata satira
antimilitarista della Samba Clown Army – decine di banchi abusivi hanno
animato il mercato nel bel mezzo di piazza della Repubblica.
La domenica successiva, mentre la polizia pattugliava una spettrale via
Cottolengo, lo spiazzo tra il Palafuksas e la fermata del 3, nel mezzo
di piazza della Repubblica, veniva riempito dalle bancarelle degli
abusivi. Al loro arrivo gli antirazzisti non hanno fatto altro che
aprire a loro volta i loro banchetti di libri e volantini.
Un altro punto a favore di chi si batte per strappare piccoli spazi di libertà.
La partita continua domenica prossima.
R. Em.