Con la nuova stagione concertativa operata da Governo, sindacati di
Stato e Confindustria è sempre più evidente l'intenzione
di ricreare, attraverso una "nuovo" modello contrattuale, le "antiche"
gabbie salariali.
Non più, come storicamente e tristemente conosciute, solo a
livello territoriale, ma anche attraverso l'osannata contrattazione di
secondo livello anche a dimensione aziendale.
Questa operazione è soprattutto volta, a fronte di accresciuti
profitti, ad un ulteriore consolidamento della distribuzione dei
redditi esistente, al contenimento dei salari e ad un aumento dello
sfruttamento soprattutto grazie agli straordinari e alla loro
"fantomatica" detassazione.
Da oltre una decina d'anni le retribuzioni del lavoro dipendente sono
costantemente sotto il livello dell'inflazione "reale" e non di quella
"programmata" con la conseguenza costante di una vertiginosa riduzione
del potere di acquisto dei salari.
Tale dinamica, come era facile prevedere, ha una notevole ricaduta sui
cosiddetti livelli generalizzati dei consumi e di conseguenza anche
sugli indici generali di crescita economica.
Le conseguenze dirette della politica concertativa operata dai
sindacati di Stato (C.G.I.L – C.I.S.L. – U.I.L. con l'aggiunta della
"destrorsa" U.G.L.) che ha imposto ai lavoratori un drastico
contenimento dei salari e la cancellazione di strumenti di adeguamento
dei salari al costo della vita, ora è sotto gi occhi di tutti e
non solo nelle tasche di chi vive solo del proprio lavoro salariato.
La svolta liberista operata dai governi di destra come di sinistra ha
portato ad una forte accelarazione nei processi di privatizzazione dei
servizi di pubblica utilità, ne ha aumentato i costi a fronte di
un innalzamento del prelievo fiscale e, cosa assai grave, ha operato un
inarrestabile smantellamento della previdenza pubblica.
Questo a fronte dell'aumento di profitti ed incentivi "pubblici"
(leggasi soldi dei lavoratori) alle imprese creando un divario sempre
più ampio tra rendita da profitto in confronto a salari,
stipendi e pensioni.
L'ultima soluzione del problema prospettata da parte del governo e del
padronato prevede che una crescita dei salari possa avvenire solo a
fronte di un aumento della produttività. Dal momento che essa
è estremamente differenziata il governo riterrebbe
necessario:
1. modificare gli equilibri tra contrattazione
nazionale ed aziendale o locale, privilegiando sostanzialmente la
seconda.
2. Favoire un nuovo patto tra imprese e lavoratori per aumentare la produttività.
È a dir poco sconcertante come nessuno abbia almeno
l'onestà intellettuale di riconoscere al mondo del lavoro
salariato la notevole produttività già realizzata dal
1993 e soprattutto non ci si spiega perché mai ad una ulteriore
elevazione dei tassi di produttività debba necessariamente
coincidere un'ulteriore compressione dei salari e dell'occupazione.
Ma l'imbroglio è, come si suol dire, a monte.
Infatti gli indicatori della produttività che si usano contro i
lavoratori sono poco adatti a misurare i risultati dell'utilizzo del
lavoro poiché esaminano solo la produttività del lavoro e
non quella totale dei fattori produttivi.
La produttività ristagna se il PIL cresce poco, se non
c'è innovazione tecnologica (la moderazione salariale rende
più competitivo il lavoro rispetto agli investimenti) e se
la struttura industriale è costituita da piccole aziende e da
settori marginali.
In Italia infatti:
1. La stragrande maggioranza delle imprese è di piccole dimensioni.
2. Un apparato produttivo caratterizzato dalle
piccole dimensioni è tendenzialmente meno produttivo di uno
contraddistinto dalle grandi dimensioni.
3. In un apparato produttivo che si terziarizza e in
cui aumenta il peso delle classi dimensionali minori si realizza un
livello decrescente della produttività del lavoro.
Dalle tabelle sopra riportate (fonte C.U.B.) risulta che sono le grandi
imprese a generare i livelli più alti della produttività
del lavoro ( 156%).
In tabella sono riportati i rapporti percentuali tra la
produttività di ciascuna classe dimensionale nel settore
indicato e la produttività media realizzata nell'economia nel
2002 (pari a € 37.3 per addetto e 38,8 nel 2004).
Emerge chiaramente la relazione crescente che lega la produttività alla dimensione.
Per l'intera economia, la produttività nelle micro-imprese
(quelle caratterizzate da un numero di addetti compreso tra 1 e 9)
era poco più del 70% della produttività media
dell'economia nel 2002 ed è meno del 69% nel 2004.
La produttività nelle grandi imprese (oltre 250 addetti) era il 152,5% ed è diventata il 156,1% nel 2004.
Si nota anche che la produttività delle micro-imprese non
è molto dissimile da settore a settore mentre le grandi imprese
più produttive sono chiaramente nell'industria in senso
stretto.
Le aziende con oltre 250 addetti del settore industriale hanno
realizzato nel 2004 una produttività doppia rispetto alla media
dell'intera economia.
Le caratteristiche del modello produttivo italiano così per come
si è andato conformandosi negli anni non favoriscono la crescita
della competitività.
Nel confronto europeo, le imprese italiane sono di dimensioni
ridotte, specializzate in settori a basso valore aggiunto e adottano in
molti casi modelli di organizzazione basati sulla conduzione familiare:
in queste imprese l'innovazione e la produttività sono
comparativamente più basse e una redditività sufficiente
è conseguita grazie a un costo del lavoro relativamente
inferiore.
La soluzione della drammatica, attuale questione salariale non
può essere affrontata con un nuovo patto sociale questa volta
incentrato sulla produttività.
Tale soluzione, così per come si prospetta all'orizzonte,
servirebbe solo a stabilizzare le quote distributive così come
finora determinate.
Al mondo del lavoro salariato non serve un nuovo scambio con la
controparte padronale ma una reale redistribuzione del reddito
prodotto.
Paolo Masala