Può sembrare singolare essere ancora qui a riparlare di
quanto è avvenuto ormai quarant'anni fa. Soprattutto
perché oggi – il tempo passa – lo facciamo principalmente per
quanti dovevano ancora nascere, e per i quali, quindi, quegli
avvenimenti potrebbero sembrare appartenenti a un'altra epoca, a
un'epoca remota.
Eppure la data del 12 dicembre 1969, la bomba di Piazza Fontana, la
morte di Pinelli, il "mostro" Valpreda sbattuto in prima pagina...,
tutto questo non ha perso nulla non solo della drammaticità di
allora, ma neppure dell'importanza che ebbe, e avrebbe poi avuto, per
la storia del nostro paese.
Tale data, infatti, fu un discrimine fra ciò che era stata
l'Italia fino a quel giorno, e ciò che sarebbe stato dopo. In
pratica una cesura definitiva e senza ritorno fra l'Italia del boom e
di una dialettica sociale che aveva, sì, i suoi morti, ma morti
comunque riconducibili – non vorrei essere frainteso – a quelle
"normali" dinamiche degli scontri di piazza che si conoscevano dai
tempi di Crispi, e l'Italia che cominciava ad affrontare una dimensione
"post moderna", nella quale si aprivano spazi di conflittualità
fino ad allora, sostanzialmente, sconosciuti.
È stato detto da più parti che il 12 dicembre fu la fine,
se mai c'era stata, dell'innocenza, e che da allora lo scontro di
classe e la lotta antistatale vennero ad assumere, per il decennio che
seguì, caratteristiche completamente nuove. E in sostanza tale
lettura mi pare più che legittima. Perché in effetti da
quel momento, dopo quella dimostrazione così drammatica del
grado di criminalità a cui poteva giungere il potere per
affermare il proprio jus governandi, si cominciò a pensare che
tutto fosse possibile e che qualsiasi risposta, anche la più
radicale, trovasse una giustificazione nell'offesa ricevuta. Lo Stato,
con i suoi servi fascisti, aveva dichiarato guerra a chi ne metteva in
discussione i postulati, e i movimenti, che stavano oggettivamente
cercando di "modernizzare" il paese inseguendo nuove forme di
rappresentanza, risposero nei termini che sappiamo.
Ricordo molto bene quei giorni, vissuti in una Bologna plumbea dove si
doveva diffidare persino della propria ombra. E di ombre, sotto i
portici bolognesi, se ne addensavano tante. Ma poi, inevitabilmente,
quel diffidare iniziale non solo di una realtà difficilmente
decifrabile ma anche delle fresche certezze che si erano appena formate
in tanti compagni come me, si trasformò in breve in una
sostanziale diffidenza nei confronti delle verità ufficiali. E
non solo di quella "verità" che cercava di addebitare le bombe
del 12 dicembre ai mostri anarchici, ma anche di tutte le altre che il
potere era abituato a sfornare giorno dopo giorno, e fino ad allora con
buoni risultati. Oggi questa diffidenza può sembrare la cosa
più ovvia di questo mondo, ma allora non lo era affatto
perché il sistema dell'informazione, anche se abbastanza
"primitivo" – può sembrare incredibile, ma esisteva un solo
canale televisivo – teneva ancora efficacemente banco. E fu allora,
soprattutto dopo la grottesca montatura sul "suicidio" di Giuseppe
Pinelli, che ebbe inizio quell'attività di controinformazione
che avrebbe prodotto il famoso libro La strage di Stato, che fu un po'
la madre di tutta la controinformazione a venire, e che avrebbe poi
investito tutti i settori e le realtà di lotta e di intervento.
Quel certosino, capillare, sempre meno sotterraneo e sempre più
dirompente lavoro di controinformazione, fece sì che la strage
di piazza Fontana si trasformasse in un esplosivo e clamoroso autogol.
Un autogol che, almeno nel breve periodo, fu evidente a tutti, non
più ai soliti rumorosi contestatori, ma all'intera
società. Il tentativo di criminalizzare il movimento anarchico
in un primo tempo, e successivamente tutta la magmatica area che
lottava contro lo Stato, divenne la criminalizzazione dell'apparato
statale e del potere. La "strage è di Stato" non fu più
solo lo slogan di una minoranza, agguerrita fin che si vuole ma pur
sempre una minoranza, ma fu la definizione più ovvia con la
quale tutti, perfino magistrati e politici, indicavano la strage
milanese. La consapevolezza dell'intrinseca criminalità del
potere era diventata patrimonio collettivo dell'intero paese.
Messo sulla difensiva, come raramente gli era accaduto, lo Stato
cercò di reagire. Se andiamo a vedere i tempi, vedremo che gli
anni immediatamente successivi al 1969 furono quelli dell'attacco
nostro e della difficoltosa difesa sua: una classe politica screditata,
le istituzioni e i suoi strumenti di controllo e di repressione
infangati, il movimento di opposizione forte di un consenso diffuso
anche là dove, per consuetudine, l'impermeabilità al
dissenso era sempre stata inossidabile. Ma poi, superata la confusione
iniziale, il potere riprese il gioco nelle sue mani, ben determinato a
ribaltare la situazione. E per farlo, ancora una volta, non andò
affatto per il sottile: quel decennio che nonostante tutto fu – non
dobbiamo scordarlo - un decennio di gioia e di liberazione collettiva,
vide anche compiersi una strategia che non intendeva lasciare nulla al
caso.
E fu così la stagione delle stragi, compiute dai fascisti
ammaestrati da Servizi che venivano ipocritamente definiti "deviati",
ma che di deviato non avevano proprio nulla.
E ci furono l'Italicus, e Brescia, Peteano e Reggio Calabria, e il macello di Bologna.
Ma fu anche la stagione che vide, come speculare risposta alla
criminalità del potere, l'irrompere della lotta armata e dei
suoi apprendisti stregoni sul palcoscenico della lotta di classe, e se
il potere non dovette mai pagare il fio (basti guardare le risultanze
di tutti, ma proprio tutti, i processi per le stragi di quegli anni),
l'aver accettato di misurarsi solo e soltanto sul piano della violenza
"istituzionalizzata" portò al suicidio collettivo di un'intera
classe di militanti. Un suicidio che, al di là delle tragedie
umane individuali e collettive, rappresentò anche la brutale
sconfitta di quella "ipotesi di lavoro" autoritaria e verticistica che
aveva preteso di rappresentare al suo interno, e solo al suo interno,
la comune volontà di ribellione.
Ancora una volta la fregola egemonica della "avanguardia del
proletariato militante" si scontrava, e collideva, con il desiderio di
liberazione comune a quella generazione. Ancora una volta un elitario
progetto di potere, perché tale era quello espresso dalla lotta
armata, vanificava fino ad annullare la potenzialità sovversiva
delle masse popolari.
Lo scontro sociale, che dopo gli anni dell'entusiasmo e dell'attacco,
trovava già difficoltà ad esprimersi nelle fabbriche,
nelle scuole e nei luoghi di lavoro, veniva ridotto, e banalizzato,
nella spettacolare rappresentazione del conflitto armato.
Fu quello il tranello teso a quella parte della sinistra apparentemente
più agguerrita, fu quello lo strumento cardine con il quale lo
Stato poté riprendere finalmente, dopo la batosta dei primi anni
settanta, la sua funzione: quella della presunta difesa del cittadino e
della civile convivenza nel rispetto della legalità e delle sue
regole.
Restituendo così ai suoi strumenti repressivi vergognosamente
squalificati la dignità di ruolo e di funzione che tornava a
legittimarli.
Davvero un bel risultato!
E oggi cosa resta di quella mobilitazione, di quell'impegno civile,
sociale e militante grazie al quale si scardinò un progetto
repressivo e liberticida? Cosa resta dell'assassinio di Pinelli, che
permise di prendere consapevolezza di ciò che stava succedendo?
E cosa resta di quella battaglia di libertà condotta anche in
nome di Valpreda, che avrebbe poi preso, perché da lì
nacque, il nome di garantismo? Verrebbe da dire poco, e verrebbe anche
da guardare con sconsolata consapevolezza alla realtà che ci
circonda.
Eppure, con l'aiuto dell'ottimismo della ragione, dobbiamo continuare a
guardare in avanti e pensare alla straordinaria e inaspettata forza che
quel possente movimento di lotta e di opinione seppe esprimere.
Ed è pensando a quella, che continuiamo a ricordare, e a parlare di quei giorni.
Massimo Ortalli