Da più parti si afferma che la crisi sta portando alla fine
del capitalismo. È un errore. Il capitalismo sta solo tornando
ad essere protezionista, dopo una fase di liberismo cominciata negli
anni '80 del secolo scorso. L'intervento degli Stati e una certa aria
di socialdemocrazia che c'è in giro saranno anche preferibili al
liberismo, tuttavia non rappresentano un'alternativa al capitalismo, ma
solo uno dei suoi volti. Viviamo un paradosso: siamo nel bel mezzo del
collasso di un modello capitalista, ma l'unica alternativa al
capitalismo è … il capitalismo!
Durante la Grande Depressione, negli anni '30 del secolo scorso, il
capitalismo si confrontava con il totalitarismo sovietico e, come si
è poi visto in Spagna, con un movimento anarchico dotato di uno
spessore tale da essere in grado di gestire efficacemente una economia
di guerra durante la fase rivoluzionaria.
Oggi non vi è nulla di tutto ciò. Sono passati appena 17
anni (ieri dal punto di vista storico) dal crollo dell'Unione Sovietica
e del cosiddetto socialismo reale. Un fallimento che molti, per
nostalgia o per mancanza di fantasia, tendono ad ignorare. In giro per
il mondo non si incontra nulla di diverso dal capitalismo: il comunismo
cinese non è altro che capitalismo (nella versione più
autoritaria) sotto stretto controllo statale, Cuba è un sistema
economico agonizzante che fatica a resistere all'ammaliante richiamo
del vicino nordamericano, il Venezuela di Chavez assomiglia ad una
versione soft del fascismo sociale italiano. Stupisce la
velleità dei marxisti di rappresentarsi come i depositari di un
modello alternativo: veramente qualcuno pensa che la Corea del Nord sia
il paradiso dei lavoratori?
Il momento è molto delicato. È proprio nelle crisi che
proposte, in condizioni "normali" neanche prese in considerazione,
possono acquisire credibilità. Questo vale anche per idee
reazionarie: il legame tra l'ascesa al potere di Hitler e Stalin e la
Grande Depressione è ben noto. Oggi la situazione non è
stabilizzata e i grandi cambiamenti devono ancora arrivare.
La maggiore economia mondiale è stata l'epicentro della crisi e
dovrà rivedere dalle radici il suo funzionamento. Però,
la vittoria di Obama apre nuove prospettive per gli Stati Uniti. La
principale criticità che il futuro presidente dovrà
affrontare è il ritiro delle truppe dai teatri di guerra, in
particolare dall'Iraq. Questo è indispensabile per disporre
delle risorse economiche necessarie a finanziare l'ambizioso piano di
rifondazione previsto nel suo programma elettorale. Gli Stati Uniti
potrebbero stupirci con un rilancio di un nuovo modello di sviluppo,
sempre capitalistico. Per esempio, perché la nuova
amministrazione intende investire massicciamente nello sviluppo di
fonti energetiche alternative? Per rendere gli Usa non più
dipendenti dal petrolio straniero, alla faccia delle petromonarchie
arabe e della Russia! L'idea è: non siamo riusciti a conquistare
il petrolio iracheno? Ebbene, ne faremo a meno! Sta nascendo un neo
protezionismo americano.
La contrazione del mercato statunitense avrà importanti
conseguenze sui paesi esportatori. D'ora in avanti le importazioni
americane ridurranno il loro sostegno alle economie degli altri paesi.
Questo è un guaio, perché fino a ieri tutto il mondo
esportava negli Usa.
I danni peggiori saranno a carico dei produttori di materie prime e di
petrolio. Tuttavia, anche la Cina sarà colpita dalla riduzione
dei consumi Usa. Perciò il governo di Pechino vuole far crescere
i consumi interni. Si calcola che se il prodotto interno lordo cinese
cresce meno del 7 – 8% non si riesce a creare occupazione per le
migliaia di contadini che ogni giorno si riversano nelle città
alla ricerca di un lavoro. Ecco perché è stato lanciato
un piano di lavori pubblici (ponti, strade, ferrovie) destinato a
creare nuovi posti di lavoro. Questo però non risolverà
il problema delle imprese esportatrici di scarpe, gadget, prodotti
tessili, elettronica di consumo, etc. Ci si chiede quindi: per chi
produrranno le migliaia di fabbriche cinesi? È una brutta
domanda. La risposta è che si comincia a chiuderle, le
fabbriche, come sta avvenendo nel settore dei giocattoli.
L'Europa dovrà decidere cosa vuole fare in futuro.
Riuscirà a mantenere una certa unità di azione o si
frantumerà? Gli interventi a sostegno delle banche in
difficoltà hanno mostrato che, di fronte all'emergenza, ogni
Stato è intervenuto come poteva per salvaguardare i propri
istituti di credito. Suona male.
In questo contesto sarebbero necessarie ricette economiche e assetti
sociali più sostenibili. Certo, sappiamo che l'alternativa
libertaria sarebbe in grado di ripristinare un quadro sociale
più equo e quindi anche economicamente più solido. Il
problema è che siamo deboli e facciamo fatica a presentare le
nostre tesi.
Occorre comunque aprire un dibattito sulle misure da attuare fin da
subito per uscire dalla crisi e in questo contesto fare sentire la
nostra voce. Questo sconquasso apre un raggio di azione per chi non
è coinvolto nel fallimento dell'attuale modello economico e
sociale. Approfittiamone per proporre le nostre soluzioni e aumentare
il peso del nostro movimento.
Toni