Che i Cpt siano dei lager in cui si finisce perché lo stato
non riconosce a uomini e donne migranti il diritto di vivere in un
determinato territorio, lo sappiamo bene. E sappiamo anche che il ruolo
di queste strutture concentrazionarie è, sempre più
chiaramente, quello di gestire e calmierare le 'eccedenze' di forza
lavoro altamente sfruttabile, costituendo un continuo ricatto anche nei
confronti di chi, pur in possesso di un permesso di soggiorno, se ne
potrebbe vedere negato il rinnovo con i più svariati pretesti.
Il legame tra Cpt – oggi chiamati Centri di identificazione ed
espulsione – e sfruttamento della manodopera migrante, nonché
tra Cpt e controllo dell'esercito lavorativo di riserva del capitale
è, dunque, lampante da che vennero creati, con la legge
Turco-Napolitano nel 1998. Proprio quel Napolitano, presidente della
repubblica "fondata sul lavoro", quindi sullo sfruttamento e, oggi,
anche su queste strutture, quello stesso Napolitano che lancia moniti
sulla sicurezza sul lavoro e ne piange i morti stabilendone un "limite
intollerabile", come se esistesse un limite "tollerabile" alla morte
per sfruttamento.
Ma oggi i Cpt stanno anche diventando gli universi concentrazionari di
migranti che esercitano il lavoro "più vecchio del mondo" – la
prostituzione – quel lavoro che, sebbene non riconosciuto e anzi
ritenuto "illegale", soddisfa le voglie sessuali di 9 milioni di maschi
in Italia. E' così che, nel giugno scorso, Preziosa è
finita dalla strada in questura e da lì al Cpt milanese di via
Corelli. Puttana, trans e pure nera: una vera e propria dannata della
terra, una reietta delle tante a cui le forze dell'ordine si sentono in
diritto di chiedere prestazioni gratuite sulla strada col ricatto,
quanto di massacrarla di botte se, nel Cpt, osa rispondere agli insulti
razzisti di un poliziotto. Una "disonorata" non ha nulla da difendere,
no? E invece Preziosa ha molto da difendere. La propria dignità
innanzitutto, che è la dignità di una discendente degli
schiavi deportati, cresciuta in una famiglia povera e numerosa in uno
dei sobborghi brasiliani e venuta in Italia, come tant* altr* migranti,
per sostenere economicamente la famiglia. Esattamente come donne e
uomini italiani hanno fatto nei secoli scorsi, dimenticandosene in
fretta. Ma Preziosa non dimentica la propria storia né, tanto
meno, le botte prese quella notte del 10 luglio scorso, quando sei
poliziotti, con l'ispettore che stava a guardare, la massacravano
nell'unica stanza senza telecamere del Cpt. Aveva osato rispondere a
uno di loro, non aveva subito gli insulti. E la Croce Rossa, connivente
e complice, non voleva nemmeno portarla al pronto soccorso. C'è
voluta una "vibrante protesta" di tutto il reparto trans, presto
sfociata anche all'esterno, perché si decidessero a chiamare,
dopo ore, un'ambulanza.
La vicenda doveva venire insabbiata, e il giorno seguente Preziosa
venne mandata fuori dal Cpt con un decreto d'espulsione. Costringerla a
partire perché non raccontasse e non denunciasse:
modalità tipica di chi gestisce i Cpt. E invece Preziosa ha
scelto di rimanere e di denunciare. La sua testimonianza sta facendo
emergere i volti e quindi i nomi dei responsabili.
Sappiamo bene che responsabili sono innanzitutto coloro che hanno
voluto i Cpt, così come coloro che non si battono perché
vengano definitivamente chiusi. Sappiamo bene anche che lo Stato non
processa se stesso se non per apparenza e scaricando tutto su qualche
capro espiatorio di minore importanza. Non c'era bisogno della sentenza
sulla Diaz per averne ulteriore conferma.
Ciò non toglie che la scelta di Preziosa vada sostenuta e che
vada sostenuto il suo diritto di rimanere in Italia per seguire il
processo – sempre ammesso che venga fatto. Ad oggi Preziosa è
qui come "clandestina", col rischio di venire presa e processata per
direttissima in quanto non ha rispettato il decreto di espulsione
né le è stato dato un permesso di soggiorno per "motivi
di giustizia". Anche questo è uno dei volti dell'Italia "della
sicurezza e dello sfruttamento", contro cui la lotta va condivisa ed
estesa.
Comitato Antirazzista Milanese