L'ultimo scorcio del 2008 si è caratterizzato per uno
straordinario afflusso di immigrati giunti via mare sulle coste
italiane dell'isola di Lampedusa. Alla fine di dicembre, infatti, erano
arrivate circa 1.700 persone in seguito ad alcuni sbarchi
particolarmente massicci: una situazione che ha riacceso la polemica
politica con il solito corollario di accuse incrociate tra governo e
opposizione sulla presunta inefficienza dell'esecutivo nella gestione
(leggasi: repressione) del fenomeno migratorio.
Il Partito democratico, per bocca del cosiddetto ministro-ombra
Minniti, ha stigmatizzato l'incapacità del governo nell'arginare
"l'immigrazione clandestina" denunciando la mancata applicazione degli
accordi bilaterali tra Italia e Libia per il pattugliamento delle coste
e, quindi, la prevenzione "alla fonte" del flusso di immigrati diretti
nel nostro paese. Da parte sua, il vero ministro dell'interno Maroni ha
subito annunciato la "soluzione finale" per contrastare gli sbarchi:
niente più smistamenti di immigrati da Lampedusa ai veri centri
di identificazione italiani ma rimpatri immediati (leggasi:
deportazioni) nei paesi d'origine.
Questa linea dura, già adottata in passato dal precedente
governo Berlusconi (quando al Viminale sedeva Pisanu) e a suo tempo
sanzionata da una sentenza della Corte europea di Strasburgo, è
stata poi ritoccata dal ministro Maroni solo pochi giorni fa. A suo
dire, i rimpatri saranno sì effettuati direttamente da
Lampedusa, ma solo dopo le operazioni di identificazione che
richiederebbero poche settimane o due mesi al massimo. Nel frattempo,
alla fine di gennaio dovrebbe trovare applicazione definitiva l'accordo
con la Libia per il pattugliamento delle coste del paese africano che
porrà fine al "fenomeno degli sbarchi entro la stagione
turistica e Lampedusa tornerà a essere conosciuta come una delle
più belle isole del Mediterraneo e non come la porta d'ingresso
dei clandestini in Europa". Tutti contenti? Macché. La reazione
degli isolani è stata piuttosto dura: la principale obiezione
della gente del posto è che trattenendo più a lungo gli
immigrati il sovraffollamento del locale campo di detenzione possa
avere delle ripercussioni negative sull'immagine turistica dell'isola
siciliana, per non parlare poi dei costi di mantenimento di ogni
immigrato detenuto. A farsi interpreti di queste infami preoccupazioni,
i soliti noti: la locale esponente leghista (!) Angela Maraventano, il
leader di Federalberghi Giandamiano Lombardo e il sindaco Bernardino De
Rubeis che, molto chiaramente, ha detto: "Vogliamo stare qui in pace ma
senza essere disturbati nel nostro quieto vivere".
Peccato che il quieto vivere sia davvero un lusso per pochi
privilegiati in un mondo devastato dalla miseria, dalle guerre e dalla
mancanza di futuro. Con buona pace del governo, dell'opposizione e dei
padroncini di Lampedusa, l'emigrazione su vasta scala dai paesi del Sud
del mondo è un dato oggettivo che non può essere
considerato un fenomeno arginabile o temporaneo. Almeno fin quando
continueranno a scoppiare conflitti devastanti come, ad esempio, la
recente guerra in Palestina.
Com'è possibile sperare che le persone rinuncino a concedersi
nuove opportunità di vita tentando il tutto per tutto in una
traversata del Canale di Sicilia a bordo di improbabili imbarcazioni
piene all'inverosimile? Basti pensare che, negli ultimi mesi, la
maggior parte delle persone giunte a Lampedusa provengono dalla
Somalia, dal Congo e dalla Nigeria: tutte aree martoriate da conflitti
più o meno recenti e da una generale arretratezza economica
ormai intollerabile. In questo senso, la volontà del governo di
rispedire al mittente questa massa di disperati dimostra un totale
disinteresse per le sorti di chi sarà costretto a tornare in
paesi in cui si rischia quotidianamente di morire. Senza dimenticare
che, il più delle volte, gli immigrati vengono "rimpatriati" – a
prescindere dalla loro nazionalità – in Libia o in Egitto dove
il trattamento riservato ai "clandestini" nelle locali galere è
a dir poco spietato proprio in virtù dei famosi accordi
bilaterali coi paesi occidentali.
Mentre politici e padroni discutono e speculano sulla pelle dei
disgraziati, gli immigrati continuano a esprimere un livello di
conflitto tanto disperato quanto vitale. Proprio a dicembre, diversi
centri di detenzione italiani sono stati teatro di rivolte e proteste
significative. A metà dicembre, gli immigrati reclusi nel centro
di identificazione ed espulsione di Trapani hanno indetto uno sciopero
della fame per protestare contro l'invivibilità della struttura.
A Cassibile (Siracusa), durante un violento tentativo di fuga di massa
dal centro di trattenimento, quattro immigrati sarebbero riusciti a
scappare anche se il bilancio di feriti e arrestati è stato
pesante. A Gradisca d'Isonzo (Gorizia) otto immigrati sono riusciti a
fuggire dalla sezione del centro di identificazione e espulsione: tre
fughe in due settimane. A Elmas (Cagliari), una quarantina di immigrati
ha dato del filo da torcere alle forze dell'ordine che sorvegliano il
centro di detenzione con una rivolta in cui sono rimasti contusi
diversi agenti e molte suppellettili della struttura sono andate
distrutte. A Bari, la notte di Natale, dieci immigrati sono riusciti a
scappare dopo una sommossa in cui sono rimasti lievemente feriti alcuni
poliziotti e militari del Battaglione San Marco che presidiano il
centro di identificazione ed espulsione.
Questi sono solo gli ultimi episodi della quotidiana resistenza degli
oppressi alle ingiustizie di un sistema fondato sull'esclusione sociale
e sul razzismo istituzionalizzato di una Fortezza Europa alle cui porte
sono morti, nell'anno appena concluso, 1502 immigrati che tentavano –
parafrasando il sindaco di Lampedusa – di conquistarsi l'universale
diritto al "quieto vivere".
TAZ
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