Ho seguito con interesse la discussione che si è sviluppata
tra Massimiliano Ilari (1) e Cosimo Scarinzi (2) a proposito delle
"sorti" del sindacalismo di base. Siccome sono in rapporti
collaborativi (3) (peraltro assolutamente buoni) con entrambi non
vorrei cadere nel rischio di un intervento mediatorio che poco direbbe
di interessante. Per come è stato impostato il dibattito (USI
sì, USI no, all'assemblea smeraldina) c'è comunque poco
da dire. Personalmente penso che avremmo dovuto (come Unione Sindacale)
essere presenti, al di là del mancato invito, e intervenire, se
non altro per rimarcare il carattere passabilmente spontaneo (passatemi
il termine) della spinta iniziale che ha portato all'assemblea e per
criticarne i successivi esiti verticisti. D'altro canto se fossimo
stati coinvolti nel processo di indizione ufficiale ritengo che avremmo
dovuto, coerentemente alla nostra prassi e ai nostri principi,
declinare l'invito.
Detto questo, proporrei di affrontare la questione delle "magnifiche
sorti progressive" del sindacalismo di base con un taglio assolutamente
diverso, che poi è quello riassunto nel titolo.
Nella sostanza: oggi, i sindacati di base, nel loro complesso, hanno
mantenuto fede alle dichiarazioni di principio che avevano ispirato la
loro nascita? Possiamo ancora parlare di sindacalismo di "base"?
La mia risposta è no e non si tratta di un giudizio ispirato a
considerazioni etico-politiche, ma di una semplice disamina dei fatti
che può anche prescindere da un giudizio di merito sulla
liceità di evidenti e ripetute "derive". Non penso, infatti, sia
una sconvolgente novità per nessuno che, ad esempio la CUB (ma
non solo), nel corso degli anni ha abbandonato molti dei presupposti
ideali che ne avevano informato la costituzione, per arrivare ad una
forma organizzativa notevolmente strutturata, alimentata anche dalla
fornitura – più o meno professionale – di "servizi" ai
lavoratori. Si è posta, cioè, su di un piano diverso
rispetto alle premesse che, se non ricordo male, all'inizio degli anni
'90 erano quelle del recupero, se non della riscoperta di un
"sindacalismo di classe, radicale, autorganizzato", per citare la
definizione di Cosimo. Il classismo se n'è ghiuto (napoletano
maccheronico), l'autorganizzazione sta arrepusà (idem) e la
radicalità si è spalmata su alcune specifiche
rivendicazioni sparendo dal quadro generale del programma. Detto in
termini meno crudi, i sindacati di base – per un complesso di ragioni
che sarebbe interessante analizzare, alcune ovvie, altre meno – non
hanno decollato, non hanno avuto l'auspicato démarrage, si sono
realisticamente adattati ad un quadro non favorevole. Da metà
circa anni '90 ad oggi, il rapporto di forza tra sindacati di base e
sindacati di Stato, non è significativamente cambiato.
Minoritari erano allora, minoritari (nonostante una relativa crescita)
sono rimasti. Per di più, per sopravvivere (ovvero mantenere
sedi, distacchi e funzionari) hanno dovuto rapportarsi con l'angusto
quadro delle relazioni industriali (che ovviamente supporta solo
l'aspetto concertativo), con le forche caudine del riconoscimento della
rappresentatività ufficiale e col letto di Procuste delle
normative anti-sciopero. Tutto ciò, unito alla sostanziale
mancanza di grandi e generalizzati movimenti di lotta in grado di
mettere in discussione le "compatibilità", non poteva che
produrre un processo involutivo che alcuni sintetizzano (secondo me in
modo un po' sbrigativo) come "burocratizzazione".
Sbaglierò, ma mi sembra si sia trattato di una sorta di percorso
obbligato dal quale (anche con la discutibile prassi del "senno del
poi") era, ed è, difficile uscire. Almeno senza rimettere in
discussione alcuni cardini diventati via via centrali nell'esperienza,
come quello che vorrei definire della "utilità residua". Mi
spiego meglio: se l'obiettivo era (ed è) quello di garantire la
difesa di strati sociali e di gruppi di lavoratori – discretamente
disgustati dalle pratiche corporative dei "sindacati di bandiera" – in
modo tecnicamente efficace, accettando da parte di questi una delega,
se non in bianco, abbastanza ampia, allora sì, il percorso era
(ed è) in larga misura necessitato e la divaricazione crescente
tra prassi e principi ci stava (ci sta). E ci sta pure l'efficientismo
organizzativo, la formazione di un funzionariato preparato – distaccato
dal lavoro o stipendiato – in grado di occuparsi a tempo pieno di
questioni normative e giuridiche complesse. Da questo punto di vista la
tanto vituperata RdB offre un esempio di funzionalità di tutto
rispetto.
E' evidente tuttavia che, stanti le lecite preoccupazioni per la
funzionalità dell'organizzazione sindacale, il discrimine tra
"apparato utile per i lavoratori" e "apparato indirizzato a mantenere
l'apparato", sottile di per sé, non poteva che diventare ancora
più labile e l'utilità per i lavoratori relativamente
sempre più residuale. Le ragioni sono abbastanza semplici:
un'organizzazione di modeste dimensioni – sottoposta al molteplice
attacco di padronato, governi e grandi sindacati concertativi – deve
spendere (e lo dovrà sempre più) molte delle sue risorse
semplicemente per continuare ad esistere (quantomeno nella forma che ha
deciso di darsi).
Detto questo e "giustificato" il giustificabile, non posso fare a meno
di porre alcuni interrogativi: fermo restando che (continuando il trend
attuale): a) i sindacati di base non possono uscire dalla loro
condizione minoritaria; b) i livelli medio-alti della contrattazione
sono e saranno loro sempre più preclusi; c) la condizione
ottimale (per cause direi "genetiche") e il "brodo di coltura" del
sindacalismo dal basso sono stati gli ambiti locali ed aziendali
collegati spesso in modo reticolare; che scopo ha – anche semplicemente
in termini di funzionalità – la centralizzazione indiscutibile e
progressiva dei loro apparati organizzativi? La risposta che più
comunemente viene data è che un certo grado di accentramento
decisionale è necessario per dare risposte immediate (tipo
sciopero generale) in situazioni di pesante attacco alla working class
o di particolare gravità. Risposte quindi di tipo politico e non
meramente sindacale. Ma se ciò è vero allora è
sintomo di alcune cose: a) il distacco tra i progetti dei gruppi
dirigenti e il corpo militante e/o iscritto; b) la consapevolezza di
questo distacco da parte dei primi; c) la sua interpretazione come
delega in bianco; d) la conseguente noncuranza verso le istanze della
base, qualunque esse siano.
Il secondo interrogativo, connesso al primo, riguarda la tendenza a
produrre piattaforme rivendicative (a livello nazionale) dettagliate e
con richieste quantificate come se veramente ci fosse la minima
possibilità di sedere ad un tavolo di contrattazione dove
veramente si tratta, si media, si ottiene… Perché dunque dare
una dimensione rivendicativa a parole d'ordine di carattere generale
che attengono il campo d'azione dei sindacati concertativi? Se la
risposta è "per esemplificare" mi pare che trapeli una profonda
sfiducia nelle capacità critiche e di comprensione dei
lavoratori iscritti, che poco fa sperare; se la risposta è "per
un gioco al rialzo che catturi masse crescenti di lavoratori", allora
siamo di fronte ad una profonda incomprensione delle dinamiche sociali
e di classe di questa fase, ad una mitizzazione del proprio ruolo, ad
un delirio di potenza, che fanno sperare ancora meno.
Concludo (rendendomi conto di aver trattato solo la pars destruens
della questione) riassumendo lapidariamente le considerazioni fin qui
fatte: il sindacalismo di base, così come è interpretato
e rappresentato dai sindacati esistenti, non c'è più.
Siamo di fronte a ibridi, abbastanza inquietanti, che dalla discrasia
tra principi e contingenze materiali traggono non la spinta al
superamento della contraddizione, ma bensì il vegetare in una
condizione decisamente schizofrenica.
Spero di essere confutato dai compagni, ma soprattutto dai fatti.
W. Kerwal
1 "Dove va il sindacalismo di base? (e gli anarchici?)" in UN n.36 del 2008.
2 "Dove va il sindacalismo di base?" in UN n.40 del 2008.
3 Col primo in ambito di militanza sindacale USI, col secondo nella redazione di Collegamenti Wobbly