Umanità Nova, n.2 del 18 gennaio 2009, anno 89

Materiali per il dibattito. Ma esiste ancora?


Ho seguito con interesse la discussione che si è sviluppata tra Massimiliano Ilari (1) e Cosimo Scarinzi (2) a proposito delle "sorti" del sindacalismo di base. Siccome sono in rapporti collaborativi (3) (peraltro assolutamente buoni) con entrambi non vorrei cadere nel rischio di un intervento mediatorio che poco direbbe di interessante. Per come è stato impostato il dibattito (USI sì, USI no, all'assemblea smeraldina) c'è comunque poco da dire. Personalmente penso che avremmo dovuto (come Unione Sindacale) essere presenti, al di là del mancato invito, e intervenire, se non altro per rimarcare il carattere passabilmente spontaneo (passatemi il termine) della spinta iniziale che ha portato all'assemblea e per criticarne i successivi esiti verticisti. D'altro canto se fossimo stati coinvolti nel processo di indizione ufficiale ritengo che avremmo dovuto, coerentemente alla nostra prassi e ai nostri principi, declinare l'invito.
Detto questo, proporrei di affrontare la questione delle "magnifiche sorti progressive" del sindacalismo di base con un taglio assolutamente diverso, che poi è quello riassunto nel titolo.
Nella sostanza: oggi, i sindacati di base, nel loro complesso, hanno mantenuto fede alle dichiarazioni di principio che avevano ispirato la loro nascita? Possiamo ancora parlare di sindacalismo di "base"?
La mia risposta è no e non si tratta di un giudizio ispirato a considerazioni etico-politiche, ma di una semplice disamina dei fatti che può anche prescindere da un giudizio di merito sulla liceità di evidenti e ripetute "derive". Non penso, infatti, sia una sconvolgente novità per nessuno che, ad esempio la CUB (ma non solo), nel corso degli anni ha abbandonato molti dei presupposti ideali che ne avevano informato la costituzione, per arrivare ad una forma organizzativa notevolmente strutturata, alimentata anche dalla fornitura – più o meno professionale – di "servizi" ai lavoratori. Si è posta, cioè, su di un piano diverso rispetto alle premesse che, se non ricordo male, all'inizio degli anni '90 erano quelle del recupero, se non della riscoperta di un "sindacalismo di classe, radicale, autorganizzato", per citare la definizione di Cosimo. Il classismo se n'è ghiuto (napoletano maccheronico), l'autorganizzazione sta arrepusà (idem) e la radicalità si è spalmata su alcune specifiche rivendicazioni sparendo dal quadro generale del programma. Detto in termini meno crudi, i sindacati di base – per un complesso di ragioni che sarebbe interessante analizzare, alcune ovvie, altre meno – non hanno decollato, non hanno avuto l'auspicato démarrage, si sono realisticamente adattati ad un quadro non favorevole. Da metà circa anni '90 ad oggi, il rapporto di forza tra sindacati di base e sindacati di Stato, non è significativamente cambiato. Minoritari erano allora, minoritari (nonostante una relativa crescita) sono rimasti. Per di più, per sopravvivere (ovvero mantenere sedi, distacchi e funzionari) hanno dovuto rapportarsi con l'angusto quadro delle relazioni industriali (che ovviamente supporta solo l'aspetto concertativo), con le forche caudine del riconoscimento della rappresentatività ufficiale e col letto di Procuste delle normative anti-sciopero. Tutto ciò, unito alla sostanziale mancanza di grandi e generalizzati movimenti di lotta in grado di mettere in discussione le "compatibilità", non poteva che produrre un processo involutivo che alcuni sintetizzano (secondo me in modo un po' sbrigativo) come "burocratizzazione".
Sbaglierò, ma mi sembra si sia trattato di una sorta di percorso obbligato dal quale (anche con la discutibile prassi del "senno del poi") era, ed è, difficile uscire. Almeno senza rimettere in discussione alcuni cardini diventati via via centrali nell'esperienza, come quello che vorrei definire della "utilità residua". Mi spiego meglio: se l'obiettivo era (ed è) quello di garantire la difesa di strati sociali e di gruppi di lavoratori – discretamente disgustati dalle pratiche corporative dei "sindacati di bandiera" – in modo tecnicamente efficace, accettando da parte di questi una delega, se non in bianco, abbastanza ampia, allora sì, il percorso era (ed è) in larga misura necessitato e la divaricazione crescente tra prassi e principi ci stava (ci sta). E ci sta pure l'efficientismo organizzativo, la formazione di un funzionariato preparato – distaccato dal lavoro o stipendiato – in grado di occuparsi a tempo pieno di questioni normative e giuridiche complesse. Da questo punto di vista la tanto vituperata RdB offre un esempio di funzionalità di tutto rispetto.
E' evidente tuttavia che, stanti le lecite preoccupazioni per la funzionalità dell'organizzazione sindacale, il discrimine tra "apparato utile per i lavoratori" e "apparato indirizzato a mantenere l'apparato", sottile di per sé, non poteva che diventare ancora più labile e l'utilità per i lavoratori relativamente sempre più residuale. Le ragioni sono abbastanza semplici: un'organizzazione di modeste dimensioni – sottoposta al molteplice attacco di padronato, governi e grandi sindacati concertativi – deve spendere (e lo dovrà sempre più) molte delle sue risorse semplicemente per continuare ad esistere (quantomeno nella forma che ha deciso di darsi).
Detto questo e "giustificato" il giustificabile, non posso fare a meno di porre alcuni interrogativi: fermo restando che (continuando il trend attuale): a) i sindacati di base non possono uscire dalla loro condizione minoritaria; b) i livelli medio-alti della contrattazione sono e saranno loro sempre più preclusi; c) la condizione ottimale (per cause direi "genetiche") e il "brodo di coltura" del sindacalismo dal basso sono stati gli ambiti locali ed aziendali collegati spesso in modo reticolare; che scopo ha – anche semplicemente in termini di funzionalità – la centralizzazione indiscutibile e progressiva dei loro apparati organizzativi? La risposta che più comunemente viene data è che un certo grado di accentramento decisionale è necessario per dare risposte immediate (tipo sciopero generale) in situazioni di pesante attacco alla working class o di particolare gravità. Risposte quindi di tipo politico e non meramente sindacale. Ma se ciò è vero allora è sintomo di alcune cose: a) il distacco tra i progetti dei gruppi dirigenti e il corpo militante e/o iscritto; b) la consapevolezza di questo distacco da parte dei primi; c) la sua interpretazione come delega in bianco; d) la conseguente noncuranza verso le istanze della base, qualunque esse siano.
Il secondo interrogativo, connesso al primo, riguarda la tendenza a produrre piattaforme rivendicative (a livello nazionale) dettagliate e con richieste quantificate come se veramente ci fosse la minima possibilità di sedere ad un tavolo di contrattazione dove veramente si tratta, si media, si ottiene… Perché dunque dare una dimensione rivendicativa a parole d'ordine di carattere generale che attengono il campo d'azione dei sindacati concertativi? Se la risposta è "per esemplificare" mi pare che trapeli una profonda sfiducia nelle capacità critiche e di comprensione dei lavoratori iscritti, che poco fa sperare; se la risposta è "per un gioco al rialzo che catturi masse crescenti di lavoratori", allora siamo di fronte ad una profonda incomprensione delle dinamiche sociali e di classe di questa fase, ad una mitizzazione del proprio ruolo, ad un delirio di potenza, che fanno sperare ancora meno.
Concludo (rendendomi conto di aver trattato solo la pars destruens della questione) riassumendo lapidariamente le considerazioni fin qui fatte: il sindacalismo di base, così come è interpretato e rappresentato dai sindacati esistenti, non c'è più. Siamo di fronte a ibridi, abbastanza inquietanti, che dalla discrasia tra principi e contingenze materiali traggono non la spinta al superamento della contraddizione, ma bensì il vegetare in una condizione decisamente schizofrenica.
Spero di essere confutato dai compagni, ma soprattutto dai fatti.

W. Kerwal

1 "Dove va il sindacalismo di base? (e gli anarchici?)" in UN n.36 del 2008.
2 "Dove va il sindacalismo di base?" in UN n.40 del 2008.
3 Col primo in ambito di militanza sindacale USI, col secondo nella redazione di Collegamenti Wobbly


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