Umanità Nova, n.3 del 25 gennaio 2009, anno 89

E se stavolta Keynes non funzionasse?


La crisi finanziaria si è sviluppata attraverso un nefasto effetto domino. Lo scoppio della bolla immobiliare e l'emergere delle insolvenze della clientela subprime prima ha messo in ginocchio le banche d'affari, che avevano acquistato a piene mani i titoli legati ai prestiti subprime, poi ha coinvolto la banche commerciali (quelle che operano tramite sportelli), colpite dalla crisi di liquidità registrata nel mercato interbancario. Successivamente la tempesta ha investito le compagnie di assicurazioni le cui polizze coprivano il rischio di default delle obbligazioni bancarie e che, inoltre, detenevano i cosiddetti titoli "tossici". Adesso è arrivato il turno delle imprese industriali, penalizzate dal razionamento del credito da parte delle banche e alle prese con il calo dei consumi. Infine, ci sono i disoccupati, che aumenteranno molto nei prossimi mesi, e a cui bisogna garantire un reddito per sopravvivere.
Vi sono stati diversi economisti e commentatori sostenitori dell'angelo sterminatore del mercato: lasciate che le banche insolventi falliscano! Secondo loro, chi non era in grado di reggere l'esame del mercato avrebbe dovuto scomparire, lasciando il campo agli operatori più efficienti. Chi suggeriva tale proposta non aveva capito che siamo di fronte ad una crisi di sistema. Infatti, la prima ed unica applicazione di tale ricetta, il fallimento di Lehman Brothers alla metà di settembre, ha generato un cataclisma che ha portato il sistema finanziario mondiale sull'orlo del collasso finale.
Dopo questa elettrizzante esperienza, non è rimasto spazio ad alcun dubbio: lo Stato deve intervenire per salvare le banche a rischio. Così si è fatto.
Poi, come abbiamo visto, lo Stato si è dovuto adoperare per togliere le castagne dal fuoco anche a qualche compagnia di assicurazione. Adesso si stanno definendo gli interventi pubblici per tenere in piedi l'industria automobilistica, poi si faranno avanti le imprese di elettronica di consumo, i fabbricanti di giocattoli, i produttori di formaggi (non è uno scherzo, il governo italiano ha stanziato 50 milioni per acquistare 100 mila forme di parmigiano reggiano da distribuire agli indigenti). Arriveranno anche i gioiellieri e i venditori di vongole? Nel frattempo aumenterà il numero dei disoccupati che, in Italia, godono di un basso livello di tutela sociale. Tutti si rivolgeranno allo Stato per chiedere aiuti, sostegni, incentivi, tutele.
La ricetta keynesiana suggerisce, in questi casi, di ricorrere al cosiddetto deficit spending. Ossia lo Stato emette titoli di debito pubblico e con le risorse così raccolte sostiene l'economia. Negli anni '30, anche se in maniera non entusiasmante, aveva funzionato. Funzionerà anche adesso?
Non è detto. Il livello dell'indebitamento pubblico nei paesi sviluppati è piuttosto elevato. Se poi, come sarebbe corretto fare, sommiamo al debito pubblico anche quello privato arriviamo ovunque a valori molto superiori al prodotto interno lordo. Insomma, il denaro, quello vero, comincia a scarseggiare. Inoltre, a differenza del periodo della Grande Depressione, i processi di globalizzazione hanno determinato la totale apertura delle frontiere ai flussi finanziari. Se qualsiasi piccolo risparmiatore italiano può acquistare un titolo pubblico americano o tedesco, immaginiamo come si comporteranno i detentori di grandi capitali finanziari. Gli Stati più deboli potrebbero faticare a trovare creditori per il proprio debito. Già oggi il Btp italiano deve offrire un rendimento più elevato del suo cugino tedesco (il Bund) perché i mercati ritengono il governo italiano più esposto al rischio di insolvenza.
Questo vuol dire che, almeno in alcuni paesi, lo Stato non solo potrebbe non riuscire a raccogliere il denaro necessario per attuare gli interventi pubblici di sostegno all'economia, ma potrebbe addirittura rischiare di fallire. Non è un'ipotesi accademica. Oggi, sono a rischio paesi come l'Islanda, l'Ungheria, la Romania, l'Argentina. Ultimamente è andato in default l'Ecuador. Si tratta di paesi piccoli o marginali? Certo, però il credit default swap sul Tesoro Usa, ossia il costo per assicurarsi contro l'insolvenza degli Stati Uniti, è al suo massimo storico. Sintomo che è messa in dubbio la solidità anche del principale governo del mondo.
Ecco perché in questa crisi la strumentazione teorizzata da Keynes potrebbe non essere risolutiva. Gli Stati hanno salvato l'economia, ma adesso, chi salverà gli Stati?
Vi sono due possibili vie d'uscita interne al sistema. La prima, la più semplice, consisterebbe nel lasciare intervenire chi ha denaro "vero", ossia i paesi che hanno accumulato enormi riserve valutarie grazie alle loro esportazioni, di petrolio o di manufatti,. Spesso questi Stati agiscono per mezzo di fondi sovrani, entità governative che gestiscono smisurati stock finanziari. Loro potrebbero acquistare banche, assicurazioni, grandi imprese industriali, immettendo denaro fresco nel sistema economico. Però, per i paesi occidentali, questo significherebbe lasciarsi colonizzare da potenze straniere. Questa soluzione è stata bloccata per motivi geopolitici.
La seconda via d'uscita è quella di aumentare le risorse a disposizione degli Stati che hanno difficoltà a ricorrere al deficit spending. Significa, in definitiva, più tasse. Davanti a questa prospettiva, sorge spontanea una domanda: chi pagherà?

Toni


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