La crisi finanziaria si è sviluppata attraverso un nefasto
effetto domino. Lo scoppio della bolla immobiliare e l'emergere delle
insolvenze della clientela subprime prima ha messo in ginocchio le
banche d'affari, che avevano acquistato a piene mani i titoli legati ai
prestiti subprime, poi ha coinvolto la banche commerciali (quelle che
operano tramite sportelli), colpite dalla crisi di liquidità
registrata nel mercato interbancario. Successivamente la tempesta ha
investito le compagnie di assicurazioni le cui polizze coprivano il
rischio di default delle obbligazioni bancarie e che, inoltre,
detenevano i cosiddetti titoli "tossici". Adesso è arrivato il
turno delle imprese industriali, penalizzate dal razionamento del
credito da parte delle banche e alle prese con il calo dei consumi.
Infine, ci sono i disoccupati, che aumenteranno molto nei prossimi
mesi, e a cui bisogna garantire un reddito per sopravvivere.
Vi sono stati diversi economisti e commentatori sostenitori dell'angelo
sterminatore del mercato: lasciate che le banche insolventi falliscano!
Secondo loro, chi non era in grado di reggere l'esame del mercato
avrebbe dovuto scomparire, lasciando il campo agli operatori più
efficienti. Chi suggeriva tale proposta non aveva capito che siamo di
fronte ad una crisi di sistema. Infatti, la prima ed unica applicazione
di tale ricetta, il fallimento di Lehman Brothers alla metà di
settembre, ha generato un cataclisma che ha portato il sistema
finanziario mondiale sull'orlo del collasso finale.
Dopo questa elettrizzante esperienza, non è rimasto spazio ad
alcun dubbio: lo Stato deve intervenire per salvare le banche a
rischio. Così si è fatto.
Poi, come abbiamo visto, lo Stato si è dovuto adoperare per
togliere le castagne dal fuoco anche a qualche compagnia di
assicurazione. Adesso si stanno definendo gli interventi pubblici per
tenere in piedi l'industria automobilistica, poi si faranno avanti le
imprese di elettronica di consumo, i fabbricanti di giocattoli, i
produttori di formaggi (non è uno scherzo, il governo italiano
ha stanziato 50 milioni per acquistare 100 mila forme di parmigiano
reggiano da distribuire agli indigenti). Arriveranno anche i
gioiellieri e i venditori di vongole? Nel frattempo aumenterà il
numero dei disoccupati che, in Italia, godono di un basso livello di
tutela sociale. Tutti si rivolgeranno allo Stato per chiedere aiuti,
sostegni, incentivi, tutele.
La ricetta keynesiana suggerisce, in questi casi, di ricorrere al
cosiddetto deficit spending. Ossia lo Stato emette titoli di debito
pubblico e con le risorse così raccolte sostiene l'economia.
Negli anni '30, anche se in maniera non entusiasmante, aveva
funzionato. Funzionerà anche adesso?
Non è detto. Il livello dell'indebitamento pubblico nei paesi
sviluppati è piuttosto elevato. Se poi, come sarebbe corretto
fare, sommiamo al debito pubblico anche quello privato arriviamo
ovunque a valori molto superiori al prodotto interno lordo. Insomma, il
denaro, quello vero, comincia a scarseggiare. Inoltre, a differenza del
periodo della Grande Depressione, i processi di globalizzazione hanno
determinato la totale apertura delle frontiere ai flussi finanziari. Se
qualsiasi piccolo risparmiatore italiano può acquistare un
titolo pubblico americano o tedesco, immaginiamo come si comporteranno
i detentori di grandi capitali finanziari. Gli Stati più deboli
potrebbero faticare a trovare creditori per il proprio debito.
Già oggi il Btp italiano deve offrire un rendimento più
elevato del suo cugino tedesco (il Bund) perché i mercati
ritengono il governo italiano più esposto al rischio di
insolvenza.
Questo vuol dire che, almeno in alcuni paesi, lo Stato non solo
potrebbe non riuscire a raccogliere il denaro necessario per attuare
gli interventi pubblici di sostegno all'economia, ma potrebbe
addirittura rischiare di fallire. Non è un'ipotesi accademica.
Oggi, sono a rischio paesi come l'Islanda, l'Ungheria, la Romania,
l'Argentina. Ultimamente è andato in default l'Ecuador. Si
tratta di paesi piccoli o marginali? Certo, però il credit
default swap sul Tesoro Usa, ossia il costo per assicurarsi contro
l'insolvenza degli Stati Uniti, è al suo massimo storico.
Sintomo che è messa in dubbio la solidità anche del
principale governo del mondo.
Ecco perché in questa crisi la strumentazione teorizzata da
Keynes potrebbe non essere risolutiva. Gli Stati hanno salvato
l'economia, ma adesso, chi salverà gli Stati?
Vi sono due possibili vie d'uscita interne al sistema. La prima, la
più semplice, consisterebbe nel lasciare intervenire chi ha
denaro "vero", ossia i paesi che hanno accumulato enormi riserve
valutarie grazie alle loro esportazioni, di petrolio o di manufatti,.
Spesso questi Stati agiscono per mezzo di fondi sovrani, entità
governative che gestiscono smisurati stock finanziari. Loro potrebbero
acquistare banche, assicurazioni, grandi imprese industriali,
immettendo denaro fresco nel sistema economico. Però, per i
paesi occidentali, questo significherebbe lasciarsi colonizzare da
potenze straniere. Questa soluzione è stata bloccata per motivi
geopolitici.
La seconda via d'uscita è quella di aumentare le risorse a
disposizione degli Stati che hanno difficoltà a ricorrere al
deficit spending. Significa, in definitiva, più tasse. Davanti a
questa prospettiva, sorge spontanea una domanda: chi pagherà?
Toni