Sgombriamo ogni possibile equivoco: ciò che in queste ultime
settimane, mesi, anni, viene detto e scritto a proposito di Cesare
Battisti, del delitto Torregiani, dei Proletari Armati per il
Comunismo, dei servizi segreti implicati, degli Stati coinvolti fra
asilo politico e richiesta di estradizione, non rappresentano altro che
dei fondali scenici con il compito di distrarre un pubblico – in
verità alquanto assente e disinteressato – da quanto sta
accadendo dietro le quinte; quinte tutt'altro che sgombre da macerie di
una stagione di lotte e di conflitti quali sono stati la fine degli
anni '70 e l'inizio degli anni '80.
Pertanto rimane per noi del tutto ininfluente partecipare al sondaggio
mediatico se Battisti debba o meno venire estradato in Italia in base
ai presunti crimini commessi, così come siamo freddi rispetto
alle febbre che ha investito chi in questi ultimi tempi ha protestato
contro l'asilo politico concesso dal ministro brasiliano della
Giustizia, Tarso Genro, al fuggiasco.
Al contempo, tuttavia, ci sembra necessario sottolineare – in questa
vicenda da vaurien – alcuni elementi che contraddistinguono le
strumentalizzazioni attuate dal potere giudiziario e politico al fine
di mettere a tacere e liquidare qualsiasi opposizione sociale che oggi
come ieri ha sempre rivendicato l'appartenenza ad un movimento
radicalmente antagonista al sistema di dominio da Prima, Seconda
e...Ultima Repubblica.
Siamo infatti convinti che il "caso Battisti" rappresenti il paradigma
di un processo storico-giudiziario avvenuto in Italia con l'obiettivo
di cancellare l'impegno, la partecipazione, la condivisione di percorsi
di lotta e di socializzazione di migliaia e migliaia di persone in anni
in cui la politica non era affarismo, e la volontà di cambiare
la società partiva dalla convinta necessità di rovesciare
i meccanismi istituzionali di cooptazione alla gestione del potere.
Non per nulla non fu mai data una risposta politica ai cosiddetti "anni
di piombo", affidando alla Magistratura (in particolar modo quella
democratica, che – a tempo debito – avrà modo di presentare il
conto) il compito di disciplinare entro il codice di procedura penale
le tensioni sociali scaturite dalla conflittualità di classe,
affrontata dall'apparato di controllo dello Stato (è bene non
dimenticarlo) con stragi, golpe e compromessi di potere fra le gang
politiche di maggioranza ed opposizione.
Certo: fu allora versato molto sangue, furono uccise molte persone e
furono completamente distrutte migliaia di vite; ma il verdetto di
completa assoluzione, di totale estraneità e di limpida
onestà e trasparenza con cui l'intera classe politica vuole
ammantarsi, ricorrendo nuovamente alla Magistratura al fine di
giudicare semplicemente "criminali" i fatti che accaddero in quegli
anni, reca con sé il marchio dell'infamia.
Quella stessa infamia che fu regalata ad ampie mani a chi dapprima
introdusse la "legge Cossiga" e la "legge sui pentiti", e da chi
successivamente sfruttò queste leggi per riscrivere la propria
storia e la storia di un Paese che normale non si è mai voluto
che fosse.
Non sappiamo se chi è rimasto esterno ai fatti e ha potuto
osservare dal di fuori dell'Italia ciò che accadeva al suo
interno in quegli anni, abbia effettivamente potuto comprendere le
tante, troppe, anomalie processuali che hanno condotto a sentenze
sommatorie e vendicative; certo è che non un solo Pubblico
Ministero, un sostituto procuratore, un giudice, avvalendosi della
collaborazione di un pentito o di un dissociato per smantellare le
organizzazioni armate, potrà mai confessare di esser stato
l'esecutore di una giustizia di classe e non popolare, quasi che la
voglia di far scattar le manette attorno ai polsi di centinaia e
centinaia di imputati non compensasse la voglia di coloro che,
richiamandosi alla giustizia proletaria, eseguiva condanne a morte
nelle strade, nei negozi, nelle "prigioni del popolo".
Quei tempi, purtroppo, non sono ancora passati. Soprattutto
perché ora la voglia di vendetta fa prudere le mani a chi dal
nostalgico saluto romano in camicia nera è passato al
doppiopetto delle parate militari. E non solo a lui...
gianfranco marelli