Umanità Nova, n.5 dell'8 febbraio 2009, anno 89

Il caso Battisti e le giustizie vendicative


Sgombriamo ogni possibile equivoco: ciò che in queste ultime settimane, mesi, anni, viene detto e scritto a proposito di Cesare Battisti, del delitto Torregiani, dei Proletari Armati per il Comunismo, dei servizi segreti implicati, degli Stati coinvolti fra asilo politico e richiesta di estradizione, non rappresentano altro che dei fondali scenici con il compito di distrarre un pubblico – in verità alquanto assente e disinteressato – da quanto sta accadendo dietro le quinte; quinte tutt'altro che sgombre da macerie di una stagione di lotte e di conflitti quali sono stati la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80.
Pertanto rimane per noi del tutto ininfluente partecipare al sondaggio mediatico se Battisti debba o meno venire estradato in Italia in base ai presunti crimini commessi, così come siamo freddi rispetto alle febbre che ha investito chi in questi ultimi tempi ha protestato contro l'asilo politico concesso dal ministro brasiliano della Giustizia, Tarso Genro, al fuggiasco.
Al contempo, tuttavia, ci sembra necessario sottolineare – in questa vicenda da vaurien – alcuni elementi che contraddistinguono le strumentalizzazioni attuate dal potere giudiziario e politico al fine di mettere a tacere e liquidare qualsiasi opposizione sociale che oggi come ieri ha sempre rivendicato l'appartenenza ad un movimento radicalmente antagonista al sistema di dominio da Prima, Seconda e...Ultima Repubblica.
Siamo infatti convinti che il "caso Battisti" rappresenti il paradigma di un processo storico-giudiziario avvenuto in Italia con l'obiettivo di cancellare l'impegno, la partecipazione, la condivisione di percorsi di lotta e di socializzazione di migliaia e migliaia di persone in anni in cui la politica non era affarismo, e la volontà di cambiare la società partiva dalla convinta necessità di rovesciare i meccanismi istituzionali di cooptazione alla gestione del potere.
Non per nulla non fu mai data una risposta politica ai cosiddetti "anni di piombo", affidando alla Magistratura (in particolar modo quella democratica, che – a tempo debito – avrà modo di presentare il conto) il compito di disciplinare entro il codice di procedura penale le tensioni sociali scaturite dalla conflittualità di classe, affrontata dall'apparato di controllo dello Stato (è bene non dimenticarlo) con stragi, golpe e compromessi di potere fra le gang politiche di maggioranza ed opposizione.
Certo: fu allora versato molto sangue, furono uccise molte persone e furono completamente distrutte migliaia di vite; ma il verdetto di completa assoluzione, di totale estraneità e di limpida onestà e trasparenza con cui l'intera classe politica vuole ammantarsi, ricorrendo nuovamente alla Magistratura al fine di giudicare semplicemente "criminali" i fatti che accaddero in quegli anni, reca con sé il marchio dell'infamia.
Quella stessa infamia che fu regalata ad ampie mani a chi dapprima introdusse la "legge Cossiga" e la "legge sui pentiti", e da chi successivamente sfruttò queste leggi per riscrivere la propria storia e la storia di un Paese che normale non si è mai voluto che fosse.
Non sappiamo se chi è rimasto esterno ai fatti e ha potuto osservare dal di fuori dell'Italia ciò che accadeva al suo interno in quegli anni, abbia effettivamente potuto comprendere le tante, troppe, anomalie processuali che hanno condotto a sentenze sommatorie e vendicative; certo è che non un solo Pubblico Ministero, un sostituto procuratore, un giudice, avvalendosi della collaborazione di un pentito o di un dissociato per smantellare le organizzazioni armate, potrà mai confessare di esser stato l'esecutore di una giustizia di classe e non popolare, quasi che la voglia di far scattar le manette attorno ai polsi di centinaia e centinaia di imputati non compensasse la voglia di coloro che, richiamandosi alla giustizia proletaria, eseguiva condanne a morte nelle strade, nei negozi, nelle "prigioni del popolo".
Quei tempi, purtroppo, non sono ancora passati. Soprattutto perché ora la voglia di vendetta fa prudere le mani a chi dal nostalgico saluto romano in camicia nera è passato al doppiopetto delle parate militari. E non solo a lui...

gianfranco marelli

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