Umanità Nova, n.5 dell'8 febbraio 2009, anno 89

La parabola reazionaria vaticana


Credo che sia impossibile stabilire, attenendosi ai soli documenti conciliari, la portata innovativa del Vaticano II o, meglio, il suo tentativo di innovazione.
E questo al di là delle dichiarazioni sull'importanza del popolo di dio (quando il Vaticano I sembrava accorgersi solo della figura del pontefice) e dell'apertura interreligiosa ed ecumenica, che comunque hanno un valore notevole e testimoniano della presenza, nel '62-65, di una categoria praticamente estinta: quella dei cardinali progressisti.
Eppure, se i documenti del Concilio sono significativi, è il clima che si respirava nella chiesa del tempo che non può essere più minimamente compreso oggi, guardando il cattolicesimo contemporaneo: l'impegno sociale e l'apertura alle teologie del Sud del Mondo, un aggregazionismo cattolico meno controllato dall'alto, l'esperienza del dissenso che cominciava a prendere piede traducendosi spesso in prese di posizione radicali e in aperto contrasto con la chiesa romana, il dialogo con il mondo.
Il mondo cattolico del tempo tentava di sperimentare la scelta sociale e solidale, anche alla luce di un recente passato di vergognosa complicità con le dittature fasciste che avevano seminato morte e distruzione in Europa e non solo.
La chiesa cattolica del Concilio Vaticano I, infatti, dopo il momento di isolazionismo politico dovuto al "non expedit", aveva appoggiato apertamente Mussolini e Franco (fino alla fine dei suoi giorni) e, almeno fino al 1936, lo stesso Hitler, visto come campione dell'antibolscevismo.
La chiesa che negli anni '60 dava vita al Concilio non poteva, quindi, piacere a tutti; non ai vecchi laici clerico-fascisti, che videro nel Concilio la prova del fatto che Giovanni XXIII apriva ai "comunisti", né ai tanti vescovi filofascisti o collaborazionisti, che tanto a proprio agio si erano trovati negli anni dei regimi europei.
Con i regimi fascisti gran parte della gerarchia cattolica aveva condiviso l'orrore per ogni forma di modernismo, per l'emancipazione della donna, per la forza dei movimenti sociali che, smascherando le narrazioni sottese alla salvaguardia delle modalità politico-economiche di gestione del potere, mettevano in discussione lo stesso potere ecclesiastico.
Sposando le ragioni dei regimi totalitari di destra, la chiesa cattolica si schierava con chi prometteva la sopravvivenza del vecchio mondo morale, della superstizione e dell'ingiustizia sociale; gli stessi nazisti, piuttosto che dell'antico mondo germanico, vagheggiato da una minoranza di pseudo-intellettuali dediti al delirio runico, sembravano accontentarsi di un più popolare Sacro Romano Impero in cui, prima o poi, la stessa chiesa avrebbe avuto garantiti tutti quei privilegi che in Italia le venivano riconosciuti con maggior facilità.
Il Concilio Vaticano II, nell'aprire al mondo, non pensava certo di giustificare l'esperienza del socialismo reale, come sostenuto dai reazionari di oggi e di allora, ma intendeva soltanto riconoscere le ragioni della modernità, con cui un papa meno buonista e prevedibile di quello che si vorrebbe far credere, aveva capito che, pena la possibilità stessa della chiesa di essere capita dalla società in rapido cambiamento, bisognava fare i conti.
Benedetto XVI governa la chiesa in un momento in cui l'aria che tira è ben altra e sa di decisa reazione al progressismo degli anni '70. Il papa conosce bene la palude culturale e politica di questi tempi, avendo contribuito, negli anni in cui ha diretto la Congregazione per la dottrina della fede, a distruggere qualsiasi forma di autonomia e libertà di ricerca dei teologici cattolici e dei movimenti laici più progressisti. Adesso, in un clima di aperta restaurazione, egli prova a ricucire con l'estrema destra lefevriana. Nella chiesa si apre oggi ai reazionari, come il Concilio aveva aperto ai progressisti, ma, ironia della storia, a questi reazionari si chiede di riconoscere un Concilio nel quale il papa è il primo a non credere e del quale ha contribuito a uccidere lo spirito.
Se il paradosso è evidente, ciò nondimeno la diplomazia ha le sue regole e il superamento dello scisma lefevriano sta creando al pontefice non pochi problemi.
Già nella primavera dello scorso anno la segreteria di stato vaticana aveva pubblicato una dichiarazione in risposta alle critiche arrivate da esponenti del mondo ebraico che giudicavano insufficiente la modifica voluta dal papa alla vecchia preghiera del Venerdì santo contenuta nel messale tridentino, liberalizzato proprio per andare incontro ai tradizionalisti.
In quell'occasione la curia romana era stata costretta a ribadire la propria fedeltà alla dichiarazione conciliare Nostra Aetate, definita "una pietra miliare sulla via della riconciliazione dei cristiani verso il popolo ebraico". In effetti era stato proprio il Concilio ad esporre «i princìpi fondamentali che hanno sostenuto e sostengono anche oggi le relazioni fraterne di stima, di dialogo, di amore, di solidarietà e di collaborazione fra cattolici ed ebrei» in onore del "vincolo del tutto particolare con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato alla stirpe di Abramo". La curia, in nome di questo vincolo, afferma di respingere "ogni atteggiamento di disprezzo e di discriminazione verso gli ebrei, ripudiando con fermezza qualunque forma di antisemitismo".
Eppure di quell'antisemitismo i vescovi lefevriani, cui oggi viene revocata la scomunica, non possono che essere campioni, perché guardano a quella tradizione cattolica che, tra un pogrom e l'altro, ha sempre ritenuto gli ebrei assassini di Cristo e perfidi infedeli.
La difficoltà della svolta a destra della curia romana si evidenzia non solo perché nelle parole del vescovo antisemita Williamson riecheggiano pregiudizi che fino a sessant'anni fa la maggioranza dei buoni cattolici avrebbero sostenuto senza nessun problema morale, ma anche perché le esternazioni del vescovo "nazista", grondanti sacra tradizione, arrivano poco dopo l'ennesima empasse della diplomazia vaticana a seguito della guerra scatenata dallo stato di Israele nei confronti del popolo palestinese di cui, tradizionalmente, il Vaticano ha sempre preso le difese, arrivando più volte ai ferri corti con Israele.
Comprendere le ragioni dei palestinesi, in una guerra in cui lo stato di Israele agisce contro un popolo praticamente inerme attraverso azioni di spietata e malriuscita chirurgia militare, in sé non è certo sbagliato, ma il problema che si presenta al Vaticano è quello di diventare un facile bersaglio della propaganda filo-sionista nel momento in cui l'opposizione all'imperialismo di un governo viene bollata di antisemitismo. E la chiesa romana, da questo punto di vista, ha molti scheletri nel proprio armadio.
Se poi ci si mette anche Williamson che, proprio nel momento in cui viene riabilitato, ritiene di dover esternare la propria propaganda negazionista e, quindi, filo-nazista, allora per il povero Benedetto sono veramente guai.
Da qui la corsa a sconfessare il vescovo criminale e il balletto informativo teso ad uno scopo: tracciare un solco netto tra le posizioni di Williamson e quelle della confraternita dei lefevriani. Si tratta di distinguere tra tradizionalismo e nazismo, tra messa in latino e il criminale negazionismo di un vescovo… Fare distinguo fra cose che in sé sembrano diverse, ma che affondano le proprie radici nello stesso humus culturale.
Perché il problema non è quello di asportare, come fosse un tumore, l'oscena visione del mondo dell'ennesimo vescovo delinquente, da un corpo sociale (l'estrema destra cattolica) fondamentalmente sano. Il problema di Ratzinger non sta nel circoscrivere le esternazioni dell'ennesimo pazzo farneticante in casa cattolica, ma nel rendersi conto che dietro le messe in latino, la riaffermazione dell'extra ecclesia nulla salus, la negazione del dialogo interreligioso (Ratisbona) ed ecumenico e, soprattutto, la condanna in blocco delle morali contemporanee, interpretate sic et simpliciter come relativismo, c'è il ritorno in grande stile di una cultura unica dominante che dell'antisemitismo e dei fascismi è sempre madre, anche se ipocritamente se ne finge vittima.
Dal discorso in occasione della "missa pro eligendo pontifice" in poi, Benedetto XVI non ha perso occasione per ricordarci quanto le morali umaniste moderne gli siano invise. Il papa non capisce che la possibilità di ragionare con la propria testa, fuori e contro le miopi ottiche religiose, non è relativismo, ma una conquista sempre precaria della contemporaneità. Le parole del pontefice, invece, riecheggiano il tempo in cui la morale era narrazione di potere che scendeva dall'alto sulle coscienze imbavagliate, sottomesse, forgiate nell'irrazionalità pre-scientifica delle teologie.
Di questi ultimi giorni il richiamo del papa alla REALTA' del peccato originale, il dogma fondante l'esistenza della chiesa stessa, dogma che giustificherebbe l'incarnazione di Cristo e il suo futuro ritorno. Ebbene, il dogma del peccato originale è quanto di più assurdo una religione possa partorire, un tentativo puerile e irrazionale di giustificare il problema del male senza accollarlo al proprio dio onnipotente.
Una chiesa che si regge su una visione infantile della vita e del mondo ha tutto da temere da un'umanità emancipata, che non ha bisogno di favole per affrontare la vita e per questo l'alleanza con i lefevriani si inserisce in un progetto che fa della modernità il nemico da annientare. A questo punto la posta in gioco per il pastore tedesco è la sopravvivenza delle farneticazioni teologiche nel mondo attuale. Questa è la battaglia che Roma sta combattendo con ogni mezzo necessario e in funzione della quale arruola truppe d'assalto il cui ruolo nella chiesa è quello di ribadire ancora la necessaria sudditanza dell'uomo all'irrazionalità e, quindi, al potere, in nome di una tradizione che si fonda sulla pietà popolare e il rispetto sacro delle gerarchie, riferimento morale indiscusso di un popolo di dio ridotto nuovamente al solo ascolto dei dogmi.
L'alleanza con i lefevriani è l'ennesima tappa del cammino che la chiesa sta compiendo per recuperare definitivamente il proprio ruolo al fianco dei poteri forti, di cui, storicamente, è sempre stata collega e complice. Quella del Vaticano II è stata solo la breve parentesi di una riforma mancata e, per quanto in fondo timide e tentennati fossero le sue proposte, oggi, alla luce del mutato clima culturale e politico, hanno il fascino di una vera e propria stagione rivoluzionaria. La scelta di Benedetto XVI è quindi chiara: il papa sta con i criptofascisti, con i tradizionalisti, con i nemici della libertà e della modernità, in nome della guerra alla razionalità e alla libertà di coscienza moderna, in nome dell'irrazionalità teologica e del potere clericale centralista e autoritario, cioè del brodo di cultura di tutte le dittature, di tutti i regimi criminali.

Paolo Iervese

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