Credo che sia impossibile stabilire, attenendosi ai soli documenti
conciliari, la portata innovativa del Vaticano II o, meglio, il suo
tentativo di innovazione.
E questo al di là delle dichiarazioni sull'importanza del popolo
di dio (quando il Vaticano I sembrava accorgersi solo della figura del
pontefice) e dell'apertura interreligiosa ed ecumenica, che comunque
hanno un valore notevole e testimoniano della presenza, nel '62-65, di
una categoria praticamente estinta: quella dei cardinali progressisti.
Eppure, se i documenti del Concilio sono significativi, è il
clima che si respirava nella chiesa del tempo che non può essere
più minimamente compreso oggi, guardando il cattolicesimo
contemporaneo: l'impegno sociale e l'apertura alle teologie del Sud del
Mondo, un aggregazionismo cattolico meno controllato dall'alto,
l'esperienza del dissenso che cominciava a prendere piede traducendosi
spesso in prese di posizione radicali e in aperto contrasto con la
chiesa romana, il dialogo con il mondo.
Il mondo cattolico del tempo tentava di sperimentare la scelta sociale
e solidale, anche alla luce di un recente passato di vergognosa
complicità con le dittature fasciste che avevano seminato morte
e distruzione in Europa e non solo.
La chiesa cattolica del Concilio Vaticano I, infatti, dopo il momento
di isolazionismo politico dovuto al "non expedit", aveva appoggiato
apertamente Mussolini e Franco (fino alla fine dei suoi giorni) e,
almeno fino al 1936, lo stesso Hitler, visto come campione
dell'antibolscevismo.
La chiesa che negli anni '60 dava vita al Concilio non poteva, quindi,
piacere a tutti; non ai vecchi laici clerico-fascisti, che videro nel
Concilio la prova del fatto che Giovanni XXIII apriva ai "comunisti",
né ai tanti vescovi filofascisti o collaborazionisti, che tanto
a proprio agio si erano trovati negli anni dei regimi europei.
Con i regimi fascisti gran parte della gerarchia cattolica aveva
condiviso l'orrore per ogni forma di modernismo, per l'emancipazione
della donna, per la forza dei movimenti sociali che, smascherando le
narrazioni sottese alla salvaguardia delle modalità
politico-economiche di gestione del potere, mettevano in discussione lo
stesso potere ecclesiastico.
Sposando le ragioni dei regimi totalitari di destra, la chiesa
cattolica si schierava con chi prometteva la sopravvivenza del vecchio
mondo morale, della superstizione e dell'ingiustizia sociale; gli
stessi nazisti, piuttosto che dell'antico mondo germanico, vagheggiato
da una minoranza di pseudo-intellettuali dediti al delirio runico,
sembravano accontentarsi di un più popolare Sacro Romano Impero
in cui, prima o poi, la stessa chiesa avrebbe avuto garantiti tutti
quei privilegi che in Italia le venivano riconosciuti con maggior
facilità.
Il Concilio Vaticano II, nell'aprire al mondo, non pensava certo di
giustificare l'esperienza del socialismo reale, come sostenuto dai
reazionari di oggi e di allora, ma intendeva soltanto riconoscere le
ragioni della modernità, con cui un papa meno buonista e
prevedibile di quello che si vorrebbe far credere, aveva capito che,
pena la possibilità stessa della chiesa di essere capita dalla
società in rapido cambiamento, bisognava fare i conti.
Benedetto XVI governa la chiesa in un momento in cui l'aria che tira
è ben altra e sa di decisa reazione al progressismo degli anni
'70. Il papa conosce bene la palude culturale e politica di questi
tempi, avendo contribuito, negli anni in cui ha diretto la
Congregazione per la dottrina della fede, a distruggere qualsiasi forma
di autonomia e libertà di ricerca dei teologici cattolici e dei
movimenti laici più progressisti. Adesso, in un clima di aperta
restaurazione, egli prova a ricucire con l'estrema destra lefevriana.
Nella chiesa si apre oggi ai reazionari, come il Concilio aveva aperto
ai progressisti, ma, ironia della storia, a questi reazionari si chiede
di riconoscere un Concilio nel quale il papa è il primo a non
credere e del quale ha contribuito a uccidere lo spirito.
Se il paradosso è evidente, ciò nondimeno la diplomazia
ha le sue regole e il superamento dello scisma lefevriano sta creando
al pontefice non pochi problemi.
Già nella primavera dello scorso anno la segreteria di stato
vaticana aveva pubblicato una dichiarazione in risposta alle critiche
arrivate da esponenti del mondo ebraico che giudicavano insufficiente
la modifica voluta dal papa alla vecchia preghiera del Venerdì
santo contenuta nel messale tridentino, liberalizzato proprio per
andare incontro ai tradizionalisti.
In quell'occasione la curia romana era stata costretta a ribadire la
propria fedeltà alla dichiarazione conciliare Nostra Aetate,
definita "una pietra miliare sulla via della riconciliazione dei
cristiani verso il popolo ebraico". In effetti era stato proprio il
Concilio ad esporre «i princìpi fondamentali che hanno
sostenuto e sostengono anche oggi le relazioni fraterne di stima, di
dialogo, di amore, di solidarietà e di collaborazione fra
cattolici ed ebrei» in onore del "vincolo del tutto particolare
con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato
alla stirpe di Abramo". La curia, in nome di questo vincolo, afferma di
respingere "ogni atteggiamento di disprezzo e di discriminazione verso
gli ebrei, ripudiando con fermezza qualunque forma di antisemitismo".
Eppure di quell'antisemitismo i vescovi lefevriani, cui oggi viene
revocata la scomunica, non possono che essere campioni, perché
guardano a quella tradizione cattolica che, tra un pogrom e l'altro, ha
sempre ritenuto gli ebrei assassini di Cristo e perfidi infedeli.
La difficoltà della svolta a destra della curia romana si
evidenzia non solo perché nelle parole del vescovo antisemita
Williamson riecheggiano pregiudizi che fino a sessant'anni fa la
maggioranza dei buoni cattolici avrebbero sostenuto senza nessun
problema morale, ma anche perché le esternazioni del vescovo
"nazista", grondanti sacra tradizione, arrivano poco dopo l'ennesima
empasse della diplomazia vaticana a seguito della guerra scatenata
dallo stato di Israele nei confronti del popolo palestinese di cui,
tradizionalmente, il Vaticano ha sempre preso le difese, arrivando
più volte ai ferri corti con Israele.
Comprendere le ragioni dei palestinesi, in una guerra in cui lo stato
di Israele agisce contro un popolo praticamente inerme attraverso
azioni di spietata e malriuscita chirurgia militare, in sé non
è certo sbagliato, ma il problema che si presenta al Vaticano
è quello di diventare un facile bersaglio della propaganda
filo-sionista nel momento in cui l'opposizione all'imperialismo di un
governo viene bollata di antisemitismo. E la chiesa romana, da questo
punto di vista, ha molti scheletri nel proprio armadio.
Se poi ci si mette anche Williamson che, proprio nel momento in cui
viene riabilitato, ritiene di dover esternare la propria propaganda
negazionista e, quindi, filo-nazista, allora per il povero Benedetto
sono veramente guai.
Da qui la corsa a sconfessare il vescovo criminale e il balletto
informativo teso ad uno scopo: tracciare un solco netto tra le
posizioni di Williamson e quelle della confraternita dei lefevriani. Si
tratta di distinguere tra tradizionalismo e nazismo, tra messa in
latino e il criminale negazionismo di un vescovo… Fare distinguo fra
cose che in sé sembrano diverse, ma che affondano le proprie
radici nello stesso humus culturale.
Perché il problema non è quello di asportare, come fosse
un tumore, l'oscena visione del mondo dell'ennesimo vescovo
delinquente, da un corpo sociale (l'estrema destra cattolica)
fondamentalmente sano. Il problema di Ratzinger non sta nel
circoscrivere le esternazioni dell'ennesimo pazzo farneticante in casa
cattolica, ma nel rendersi conto che dietro le messe in latino, la
riaffermazione dell'extra ecclesia nulla salus, la negazione del
dialogo interreligioso (Ratisbona) ed ecumenico e, soprattutto, la
condanna in blocco delle morali contemporanee, interpretate sic et
simpliciter come relativismo, c'è il ritorno in grande stile di
una cultura unica dominante che dell'antisemitismo e dei fascismi
è sempre madre, anche se ipocritamente se ne finge vittima.
Dal discorso in occasione della "missa pro eligendo pontifice" in poi,
Benedetto XVI non ha perso occasione per ricordarci quanto le morali
umaniste moderne gli siano invise. Il papa non capisce che la
possibilità di ragionare con la propria testa, fuori e contro le
miopi ottiche religiose, non è relativismo, ma una conquista
sempre precaria della contemporaneità. Le parole del pontefice,
invece, riecheggiano il tempo in cui la morale era narrazione di potere
che scendeva dall'alto sulle coscienze imbavagliate, sottomesse,
forgiate nell'irrazionalità pre-scientifica delle teologie.
Di questi ultimi giorni il richiamo del papa alla REALTA' del peccato
originale, il dogma fondante l'esistenza della chiesa stessa, dogma che
giustificherebbe l'incarnazione di Cristo e il suo futuro ritorno.
Ebbene, il dogma del peccato originale è quanto di più
assurdo una religione possa partorire, un tentativo puerile e
irrazionale di giustificare il problema del male senza accollarlo al
proprio dio onnipotente.
Una chiesa che si regge su una visione infantile della vita e del mondo
ha tutto da temere da un'umanità emancipata, che non ha bisogno
di favole per affrontare la vita e per questo l'alleanza con i
lefevriani si inserisce in un progetto che fa della modernità il
nemico da annientare. A questo punto la posta in gioco per il pastore
tedesco è la sopravvivenza delle farneticazioni teologiche nel
mondo attuale. Questa è la battaglia che Roma sta combattendo
con ogni mezzo necessario e in funzione della quale arruola truppe
d'assalto il cui ruolo nella chiesa è quello di ribadire ancora
la necessaria sudditanza dell'uomo all'irrazionalità e, quindi,
al potere, in nome di una tradizione che si fonda sulla pietà
popolare e il rispetto sacro delle gerarchie, riferimento morale
indiscusso di un popolo di dio ridotto nuovamente al solo ascolto dei
dogmi.
L'alleanza con i lefevriani è l'ennesima tappa del cammino che
la chiesa sta compiendo per recuperare definitivamente il proprio ruolo
al fianco dei poteri forti, di cui, storicamente, è sempre stata
collega e complice. Quella del Vaticano II è stata solo la breve
parentesi di una riforma mancata e, per quanto in fondo timide e
tentennati fossero le sue proposte, oggi, alla luce del mutato clima
culturale e politico, hanno il fascino di una vera e propria stagione
rivoluzionaria. La scelta di Benedetto XVI è quindi chiara: il
papa sta con i criptofascisti, con i tradizionalisti, con i nemici
della libertà e della modernità, in nome della guerra
alla razionalità e alla libertà di coscienza moderna, in
nome dell'irrazionalità teologica e del potere clericale
centralista e autoritario, cioè del brodo di cultura di tutte le
dittature, di tutti i regimi criminali.
Paolo Iervese