Vincent Delecroix, "La scarpa sul tetto", excelsior 1881, Milano 2008, pp. 264
Cosa c'è di più ridicolo di una scarpa abbandonata sul
tetto? Forse quanto i surrealisti – all'inizio degli anni '20 – avevano
cercato di dimostrare ponendo un ombrello sopra un tavolo di una sala
operatoria? Del resto qualsiasi oggetto quotidiano collocato in un
ambito non usuale suscita stupore, poiché distrae, distoglie
dall'apatica normalità di una vita avara di sorprese. Basta
tutto ciò per poter scrivere un romanzo in grado di reggere la
banalità di un intreccio narrativo senza pretese, sebbene colmo
di fantastiche immaginazioni oniriche?
Sì, se l'autore è Vincent Delecroix, giovane scrittore e
filosofo parigino, pressoché sconosciuto in Italia nonostante la
fama in Francia gli arrida e i suoi libri – tutti editi da Gallimard –
siano fra i lavori più apprezzati e stimati oltralpe. Spontaneo,
dunque, chiedersi come mai in un paese esterofilo come l'Italia –
almeno per quanto riguarda la letteratura e l'arte – il libro di
Delecroix non abbia trovato una casa editrice major e si sia lasciato
al "passa parola" dei lettori la diffusione dell'opera, sebbene lo
stile accattivante non privo di grazia poetica avrebbe potuto tradurlo
in un'operazione editoriale/commerciale di tutto rispetto. Non che
questo minimamente ci turbi; semplicemente conferma la
mediocrità che sovrasta il mondo culturale nostrano, così
attento a far uso della stupidità dei pochi, offendendo
l'intelligenza dei più, per tracciare sentieri aridi e senza
sbocchi.
Logico supporre che un romanzo capace di stimolare la fantasia dei
lettori senza produrre "effetti speciali", né utilizzare la
formula delle "3 S" (soldi, sangue, sperma), sia destinato a percorrere
strade differenti e poco battute dalla critica ufficiale, ma foriere di
incontri avventurosi e inusuali come quello d'imbattersi in una scarpa
sul tetto e sul bisogno di offrirne una spiegazione plausibile, al
punto da sacrificare "un oggetto su cui scaricare l'infelicità e
il ridicolo del mondo" (p. 259). Perché Vincent Delecroix –
filosofo di matrice kierkegaardiana – pone al centro del suo libro la
riflessione dell'uomo nei riguardi della scelta consapevole di
affermare in un gesto la possibilità di stupirsi della vita.
Così i dieci capitoli che costellano l'opera, sono ben
più che l'artificio letterario per tenere unite differenti
storie aventi fra loro in comune "la scarpa sul tetto", quanto
piuttosto la capacità di descrivere la comunanza di una vita
quotidiana fra persone abitanti di uno stabile alla periferia di Parigi
che all'improvviso sono turbate da un oggetto fuori posto, da
interrogarsi se il posto che hanno assegnato alla propria vita a sua
volta non appaia strano, casuale, ma soprattutto banale.
Attraverso un caleidoscopio di esistenze trascorse sotto lo stesso
stabile (una famiglia borghese con una figlia turbata da incubi
notturni; un'anziana signora accudita da un nipote premuroso ma
alquanto distratto; un romanziere ipocondriaco accudito da un cane
coscienzioso e saggio; un anchorman televisivo travolto da crisi
esistenziale; una donna affranta da un amore straniero osteggiato dalla
polizia; un artista affermato alla ricerca ultima di una spiegazione
alla sua opera; un giovane disperato per un amore fiabesco e
inconcludente), l'intreccio narrativo dell'opera acquista uno spessore
nuovo, determinato non tanto dal fondersi delle singole storie in un
minimo comune multiplo che descrive come mai una scarpa è potuta
finire sopra il tetto, ma piuttosto dall'apertura che ciascuna
particolare esistenza assume nello spiegare la scelta che l'ha condotta
a relazionarsi con la scarpa sul tetto, e di contro con le altrui
esistenze.
In questo modo l'autore è riuscito a realizzare un mosaico
narrativo le cui singole tessere rappresentano vere e proprie miniature
di ambiti particolari di vita quotidiana la cui regolarità
è sorpresa dall'imprevisto e ridicolo apparire di un oggetto
fuori posto, assunto a metafora di un'esistenza sempre più alla
ricerca di un quid che riesca a stupirla, affinché finalmente
sia possibile ricominciare a vivere.
gianfranco marelli