Chi legge questo giornale sa che non abbiamo mai nutrito illusioni
sul cambio della guardia alla presidenza degli Stati Uniti (vedi UN del
14 settembre 2008 ) e, senza neanche aspettare troppo, la politica di
Obama per l'Afghanistan sta confermando i peggiori timori.
Comunque va osservato che, in realtà, le linee della politica
estera del nuovo presidente, erano state dichiarate in maniera certo
non ambigua dallo stesso Obama durante la sua campagna elettorale,
prospettando un trasferimento di truppe dal teatro irakeno alla fornace
afgana e applicando la dottrina Petraeus (dal nome del generale, a capo
del Central command dell'area) usata in Irak, ossia attaccare e intanto
trattare.
Ecco le testuali parole del futuro presidente: "Le nostre forze armate
sono sempre più sotto sforzo, la situazione in Afghanistan si
è deteriorata […] Mettere fine alla guerra [in Irak] è
fondamentale per raggiungere i nostri obbiettivi strategici più
generali, a cominciare dall'Afghanistan e dal Pakistan, dove i talebani
sono in ripresa e dove Al Queda può contare su un rifugio
sicuro. […] non avremo risorse sufficienti per portare a termine il
lavoro in Afghanistan fino a quando non ridurremo il nostro impegno in
Irak. Se sarò Presidente, porterò avanti una nuova
strategia e comincerò rafforzando il nostro impegno in
Afghanistan con almeno altre due Brigate da combattimento.
Laggiù servono più soldati, più elicotteri,
più intelligence e più assistenza non militare per
portare a termine la missione".
Sulla base di questo programma che qualcuno ha persino definito
pacifista, l'elettorato statunitense ha dato il suo mandato al
democratico Obama, "per portare a termine il lavoro in Afghanistan",
nonostante gli oltre mille soldati Usa-Nato che vi sono ufficialmente
morti, di cui circa la metà statunitensi, in otto anni di guerra.
A fine gennaio, a confermare tale indirizzo è stato il
vicepresidente Joe Biden, anch'egli del tutto esplicito; ecco alcuni
cruciali passaggi dell'intervista, in cui ancora una volta la guerra
viene presentata come un lavoro da terminare.
- Lei ha detto però che le cose in Afghanistan andranno peggio prima di andare meglio.
«È vero».
- Che cosa intendeva dire?
«Quello che è successo è stato causato – non voglio
dire da negligenza – ma dal fallimento nel fornire risorse economiche
politiche e militari sufficienti, e dal fallimento nel raggiungere una
politica coerente con gli alleati, economicamente, politicamente e
militarmente. La situazione si è deteriorata di molto. I
talebani controllano una notevole parte del Paese, anche in zone che
prima non controllavano.
E questo è il punto uno.
Punto due. Il 95 per cento della produzione mondiale di oppio viene
dall'Afghanistan. Abbiamo bisogno di addestrare la polizia locale, la
polizia nazionale, forze su cui abbiamo puntato fortemente in Iraq e
anche in Bosnia.
Ma la corruzione è diffusa, dilagante. Alcuni dei nostri alleati
che dovevano addestrare queste forze non l'hanno fatto. Insomma,
abbiamo ereditato il caos»
- E come se ne esce?
«Prima di tutto dovremo riguadagnare terreno dove l'abbiamo
perso. Per questo abbiamo bisogno di altri soldati. Moltiplicheremo gli
sforzi nell'addestramento della polizia e dell'esercito afghano.
Ciò significa che impegneremo il nemico molto di più, da
adesso in avanti».
- E vi aspettate maggiori perdite?
«Non lo dico volentieri, ma penso che sarà così. Ci
sarà un'escalation. Il comandante in Afghanistan mi ha detto:
"Joe, porteremo a termine il lavoro, ma dovremo affrontare il nemico
molto più a fondo».
Il tono ricorda John Wayne, ma non è un film western. In questi
giorni, alla vigilia della prevedibile offensiva di primavera,
sarà comunicata l'entità dei rinforzi inviati dalla nuova
amministrazione Usa in Afghanistan (sino a 30.000 soldati, secondo il
capo degli Stati maggiori riuniti, Mike Mullen).
L'amministrazione statunitense ha chiesto anche un maggiore impegno
allo stato italiano sui vari teatri internazionali e, soprattutto, in
Afghanistan, così come annunciato dall'ambasciatore Ronald
Spogli alla fine del suo mandato a Roma.
In aggiunta ai 2800 militari italiani già operativi in
Afghanistan, secondo alcune indiscrezioni giornalistiche inglesi, il
governo italiano potrebbe decidere l'invio di ulteriori 800 soldati. Il
ministro La Russa ha smentito, ma il premier ha virilmente assicurato
che: "Noi non ci tireremo indietro".
I governi cambiano, le guerre continuano.
U.F.