Quarant'anni sono tanti. Eppure quel 12 dicembre 1969 pesa ancora. E
altrettanto pesa quella notte del 15 dicembre nella questura di Milano.
Una strage con 17 morti alla Banca nazionale dell'agricoltura e il volo
da una finestra del quarto piano di Giuseppe Pinelli sono una fase
cruciale nella storia di questo paese, l'Italia. E ha ragione Adriano
Sofri che inizia il suo ultimo libro scrivendo: «Forse l'Italia
non sarà mai un paese normale. Forse è il paese in cui
tutto diventa normale».
Sì, purtroppo, tutto diventa normale e quella strage e quella
morte sono due dei tanti misteri: nessuno ha messo la bomba nella
banca, nessuno ha causato la morte dell'anarchico Pinelli.
Questo libro, La notte che Pinelli (Sellerio, Palermo, 2009),
assume quarant'anni dopo quei fatti una valenza importante
perché nella meticolosa, puntigliosa, metodica ricostruzione dei
fatti si trasforma in un atto d'accusa che non lascia vie d'uscita a
poliziotti (Antonino Allegra, Luigi Calabresi, Vito Panessa, Pietro
Mucilli, Carlo Mainardi, Giuseppe Caracuta), carabinieri (Savino
Lograno), questori (Marcello Guida), giudici (Giovanni Caizzi, Antonio
Amati, Gerardo D'Ambrosio), uomini dei servizi segreti (Federico
Umberto D'Amato, Elvio Catenacci).
Sia chiaro, Sofri non fa accuse generiche: mette a confronto le
numerose contraddizioni in cui cadono tutti questi personaggi e quindi
ne fa emergere i falsi clamorosi che però vengono ignorati o
volutamente sottovalutati.
Un libro puntiglioso e per questo importante. I poliziotti che erano in
quel quarto piano della questura di Milano subito dopo la caduta di
Pinelli dicono cose che poi vengono modificate e poi ancora modificate.
Ma nessuno ne tiene conto... nessuno di quelli che dovrebbero
ricercare, per dovere istituzionale, la verità dei fatti.
Dal processo che vede Pio Baldelli, direttore responsabile di Lotta
continua, querelato da Calabresi, fino alla sentenza del 1975 di
D'Ambrosio assistiamo a «ipocrisie statali». Ipocrisie
statali chiuse definitivamente con D'Ambrosio (oggi senatore del
Partito democratico, allora vicino al Partito comunista) che sostiene:
l'anarchico è caduto per un «malore attivo». Una
sentenza, ricordiamo l'anno, tipica da «compromesso
storico»: Pci e Dc si stavano avvicinando e non bisognava mettere
in difficoltà i notabili democristiani. Una sentenza che ignora
o minimizza (e Sofri ricostruisce con precisione quegli avvenimenti)
una girandola di versioni che farebbe pensare a una commedia satirica
degli equivoci, se non fosse per la drammaticità dei fatti.
Eppure è questa la verità processuale, la verità dello stato italiano.
«Quanto a un malore, dovrebbe essere così attivo da far
compiere al corpo colpito non solo una "improvvisa alterazione del
centro di equilibrio", ma anche il gesto di spalancare l'anta
socchiusa. Non è solo attivo, questo malore, è
attivissimo», commenta Sofri sulla ricostruzione di D'Ambrosio
sul volo di Pinelli.
Quarant'anni sono tanti. La gente dimentica. I falsi di chi è
stato e sta al potere diventano delle
«quasiverità». Perché siamo di fronte a cose
che «gridano vendetta»: perfino quelli riconosciuti
colpevoli della strage di piazza Fontana (Giovanni Ventura e Franco
Freda) non possono essere condannati perché definitivamente
assolti da altri tribunali.
Ma qui si apre un discorso per uscire dalla logica corrente: non ci si
deve fermare alla verità processuale, dopo quarant'anni
servirebbe a qualcuno e a qualcosa che due neonazisti invecchiati
vadano in carcere? Servirebbe a qualcosa che un ricchissimo emigrante
in Giappone venga riportato in Italia? No, non è nelle sentenze
di colpevolezza dei tribunali dello stato che si ottiene la vera
giustizia: è nelle sentenze fra la gente, nelle sentenze (a
questo punto) storiche che si deve puntare, cioè una giustizia a
misura umana. Cioè estranea alla dimensione statuale.
Perché lo stato è colpevole della «strage di
stato» e non si condannerà mai. E questo libro è un
tassello importante per confermare questa verità.
Luciano Lanza