"Milano deve recuperare la normalità" ha detto Matteo
Salvini, il giovane rampollo della dinastia leghista che imperversa in
Lombardia. Quella 'normalità' che da sempre significa 'ordine e
disciplina', rispetto della gerarchia, sottomissione
all'autorità. La 'normalità' che piace alle classi
dominanti, al clero, ai professionisti della politica; e poco importa
che pochi giorni fa si è venuti a conoscenza che nelle casse del
Comune di Milano vi è un buco di ben oltre 96 milioni di euro
(qualcuno parla addirittura di 162 milioni) dovuto ai maneggi
finanziari sui prodotti bancari oggi definiti tossici, sostenuti e
coperti dal ceto politico in combutta con le banche. Un buco enorme che
non ha sollevato un particolare scalpore né trovato un'eco
adeguata sugli organi di stampa e nei media in generale, tutti
impegnati alla caccia al clandestino, all'occupante di case,
all'antifascista militante, a conferma che le campagne sulla sicurezza
e l'ordine nascondono in realtà ben altri obiettivi che sono
quelli legati al mantenimento dei privilegi, sempre più ampi,
sempre più scandalosi, dei ceti dominanti.
E così a Milano, l'attacco agli spazi fuori dal coro, siano essi
occupati, o con contratti d'affitto in scadenza, assume un significato
particolare, sia pure in larga sintonia con quello che succede in
tante, troppe, parti d'Italia. Il caro affitti, il costo proibitivo
delle case, la speculativa politica dei mutui, la mancanza di spazi di
aggregazione, sono una realtà con la quale qualsiasi abitante di
Milano, soprattutto se giovane o immigrato, è costretto a
convivere, anche se migliaia sono gli appartamenti sfitti e invenduti
(si calcolano in ben 90.000), enormi le aree industriali dismesse, che
potrebbero consentire soluzioni abitative adeguate. La risposta
è invece quella dell'accelerazione speculativa sui terreni – di
cui il caso dell'Innse è esemplare: distruzione di una
realtà produttiva a favore degli appetiti finanziari - con
la conseguente colata di cemento in orizzontale e verticale con una
demenziale politica di rilancio dei grattacieli in aree già
densamente popolate. E poi c'è l'Expo 2015, questo faraonico
progetto di rilancio dell'immaginario 'made in Italy' di stampo
capitalistico, che tutti, destra e sinistra, hanno voluto e che
divorerà un'enorme quantità di risorse ad esclusivo
vantaggio dei padroni in un contesto di crisi finanziaria mondiale; il
che vuol dire che occorre prendere i soldi tagliando i beni comuni,
privatizzando a man bassa i servizi, svendendo il patrimonio comunale
(ben 40 sono gli edifici messi in vendita tra i quali il palazzo che
ospita la sede anarchica di viale Monza e l'area ove si trova Cox
18, oggetto dello sgombero, mentre la costruzione che ospita la sede
dell'USI-AIT in viale Bligny era stata già venduta
all'Università Bocconi): i beni dei ricchi si sa non si toccano.
Ma se ci fermassimo solo all'aspetto economico del problema non
coglieremmo nel segno. Il movimento che, l'autunno scorso, ha avuto il
suo epicentro nelle scuole e nelle università, muovendosi
sull'indicazione 'noi la crisi non la paghiamo' ha colto in pieno il
disegno dei ceti dominanti. Un disegno che evidenzia il vero volto
dello Stato, al di là delle leggende metropolitane sullo Stato
'sociale'. Dallo schieramento dell'esercito nelle strade alla
legalizzazione/militarizzazione delle ronde, dalla promulgazione di
leggi razziste e classiste alla schedatura di massa, dalla dilatazione
dell'internamento per gli 'irregolari' alla delazione 'consigliata' di
medici e farmacisti, tassisti e amministratori condominiali,
dall'impiego dell'esercito per imporre alle popolazioni recalcitranti
l'aggressione sui loro territori (dalle discariche campane alle basi
militari, dai rigassificatori ai siti nucleari, dalle infrastrutture
stradali a quelle ferroviarie) alle leggi antisciopero, all'aumento di
competenze della polizia giudiziaria – direttamente dipendente dal
potere politico – a scapito della magistratura – formalmente
indipendente, alle misure di imbavagliamento della stampa: un disegno
unitario e coerente che si muove in direzione di una ristrutturazione
organica del potere in chiave sempre più gerarchica e
autoritaria. Un disegno che non sopporta opposizione, soprattutto in un
momento come questo dove gli ammortizzatori sociali sono sempre
più evanescenti e non possono sopperire alla crisi in corso,
alla perdita del reddito, all'impoverimento generale.
Le cariche contro gli operai, all'Innse come a Pomigliano, le botte
agli antifascisti come a Bergamo, gli sgomberi degli spazi autogestiti,
a Modena come a Milano, la dura repressione a Lampedusa, ci danno il
polso dell'attacco contro le forme di resistenza che si danno, e
dell'insofferenza del potere rispetto ogni realtà di
opposizione che si muova nel sociale. Il suo obiettivo è la
frantumazione di ogni relazione sociale, l'affermazione del
corporativismo gerarchico, l'esaltazione dell'individualismo
consumista, il rilancio del capitalismo sulla pelle dei lavoratori,
delle classi oppresse e sfruttate.
Se le manifestazioni di questi giorni, a Milano, come a Bergamo e a
Torino, ci danno una dimostrazione che i giochi non sono ancora fatti e
che non siamo disposti a sottostare supinamente ai progetti e alle
azioni dello Stato e del suo governo, dobbiamo essere consapevoli che
la partita che si sta giocando ha una posta in palio che richiede il
massimo della capacità di coinvolgimento sociale e che se la
difesa degli spazi di aggregazione politica e sociale è in
questo caso fondamentale, essa è destinata alla sconfitta se non
sarà in grado di trasformare questi luoghi in reali centri
propulsivi di azione, di lotta, di dibattito, di formazione, di
produzione di un immaginario rivoluzionario all'altezza dei tempi,
elementi di una rete sociale di resistenza e di lotta in grado di
rovesciare la crisi in atto sui responsabili di sempre: capitalisti e
burocrati di ogni colore.
M.V.