Quando i fenomeni economici sono importanti e si fanno sentire nelle
vicende di vita quotidiana, generalmente cominciano ad essere oggetto
di conversazione tra le persone, nei bar e sugli autobus.
In questo caso non c'è propaganda che tenga: il passa parola tra
le persone acquista una forza comunicativa che distrugge le teorie
"ottimiste" messe in campo dal governo.
In passato questo fenomeno si è verificato con il passaggio
dalla lira all'Euro, quando ci fu l'aumento dei prezzi non rilevato
dall'ISTAT, negato dai politici ed avvertito da chiunque si recasse al
mercato a fare la spesa, o, più recentemente, con il problema
della "quarta settimana", rilevato dai cassieri dei supermercati e da
chi finiva i soldi del proprio stipendio mensile alla terza settimana
ed ignorato dagli uffici studi delle istituzioni economiche.
Una cosa analoga sta avvenendo in questi giorni. La crisi è
esplosa nelle vite delle persone prima che sui giornali o nelle
politiche economiche dei governi.
Non se ne parla quasi per nulla e quando se ne parla si dice che in
Italia la crisi non è così grave. E' evidente che i
politici (Berlusconi in testa) stanno puntando su una caratteristica
della prima fase della crisi: il fatto che non sia di immediata
evidenza televisiva.
Le ristrutturazioni, così come le abbiamo conosciute finora,
comportano il licenziamento del personale, con conseguenti
mobilitazioni e visibilità mediatica. Le crisi sono tanto
più visibili quando è più grande l'azienda
interessata e maggiore il numero dei lavoratori coinvolto.
Ad eccezione di alcuni casi, come quello di Pomigliano d'Arco, questa
crisi non si avverte mediaticamente perché siamo nella fase in
cui si esprime, soprattutto, attraverso il non rinnovo dei contratti di
lavoro a tempo determinato.
Nel 2007 (ultimo anno per cui ci sono dati) su 17,1 milioni di
lavoratori dipendenti, i lavoratori a tempo determinato erano 2,25
milioni (il 13%): sono loro le prime vittime di questa crisi.
Oltretutto il mancato rinnovo del contratto di lavoro avviene
individualmente, magari con la promessa di un nuovo contratto in futuro
ed il lavoratore, oltre a non poter scioperare (non lavora più),
ha maggiori difficoltà ad organizzarsi e a mobilitarsi insieme
ad altri nella sua stessa condizione.
Nelle grandi imprese i contratti di lavoro stipulati nel 2007 sono stati quasi tutti (il 72,7%) di lavoro precario.
Si è creata perciò la situazione paradossale per cui,
mentre a dicembre 2008 la produzione industriale è crollata del
14,3%, l'occupazione nelle grandi imprese (al lordo della cassa
integrazione) è rimasta quasi costante (-0,7%).
Insomma, per questi motivi, la visibilità mediatica della crisi
è, in questo momento, molto minore del suo impatto reale. Gli
effetti economici, sul reddito dei lavoratori però si stanno
cominciando a far sentire e saranno sempre maggiori con il passare del
tempo. Le parziali integrazioni al reddito che vengono date a chi perde
il lavoro (il sussidio di disoccupazione o la cassa integrazione) si
esauriscono in pochi mesi, poi rimane solo la miseria. Per questo
motivo, già a dicembre scorso le vendite al dettaglio sono
diminuite del 2% e continueranno a scendere.
La noncuranza governativa è però solo apparente, mentre
diviene sempre più evidente il progetto di gestione della crisi
e del conflitto sociale che ne deriverà.
In un paese in cui, quando non c'era la crisi, le famiglie non
arrivavano alla quarta settimana ed ora non arrivano neanche alla
terza, diviene difficile dire ai lavoratori, ai pensionati, ai precari,
agli immigrati che la crisi la devono pagare loro. La strategia che il
governo intende usare è quella del manganello e le nuove leggi
sul divieto di sciopero, il pacchetto sicurezza, la riforma
contrattuale, le norme per controllare Internet, i regolamenti per i
cortei, il tentativo di additare come capro espiatorio lo straniero e
il diverso, servono soltanto a questo.
Del resto i margini di intervento che il governo ha di fronte a questa
crisi appaiono estremamente ridotti: le politiche tradizionali
(keynesiane) di espansione del debito pubblico per contrastare la crisi
sono difficilmente praticabili per un paio di ragioni.
La prima è che i soldi non ci sono. I vincoli dell'Unione
Europea potrebbero anche essere sforati, ma rimarrebbe il problema di
chi gli possa prestare i soldi in un momento in cui le banche sono in
una pesantissima crisi di liquidità e, già senza
espandere il debito pubblico, ci sono diversi stati europei che
rischiano di non trovare sottoscrittori per i propri buoni del tesoro.
Poi c'è il problema, specificamente italiano, della natura della
classe politica. I politici italiani sono veri malfattori, abituati a
usare i fondi pubblici per arricchirsi loro, le loro clientele, e far
arricchire gli amici degli amici. Anche se riuscissero a trovare delle
risorse non le impiegherebbero per contrastare gli effetti sociali
della crisi, ma per crearsi dei fondi all'estero se le cose, per loro,
si dovessero mettere veramente male.
La crisi invece rischia di essere molto più dirompente di quello
che ci si potrebbe aspettare: la maggior parte dei paesi dell'Unione
Europea che usano valute diverse dall'Euro (soprattutto quelli dell'Est
Europa, ma anche la Sterlina inglese) hanno visto le proprie monete
nazionali svalutate.
In passato, in molti di questi paesi, le persone e le imprese avevano
trovato conveniente contrarre prestiti e mutui in Euro. La convenienza
derivava dai minori tassi d'interesse in Euro rispetto alla propria
valuta nazionale e dal fatto che il tasso di cambio con l'Euro fosse
sostanzialmente costante.
Prima della crisi le economie di questi paesi erano dipendenti
dall'estero, in media, per una cifra pari alla metà del PIL. Con
una situazione però molto diversificata tra i vari paesi,
l'Ungheria, ad esempio, aveva esposizioni pari quasi all'intero PIL del
paese.
La svalutazione delle monete nazionali ha determinato un aumento
vertiginoso delle rate dei mutui e dei costi di rimborso dei prestiti e
con il crollo delle esportazioni (dovuto alla contrazione dei consumi
nell'area Euro) c'è la certezza del default:
l'impossibilità di onorare i debiti contratti.
Questa situazione non si ferma però solo ai paesi dell'est. La
crisi sta avendo un "effetto domino" nei confronti anche dei paesi
dell'area Euro. Infatti, la maggior parte delle banche che operano in
quei paesi sono proprietà di banche occidentali che ora si
trovano a dover fronteggiare una crisi senza precedenti.
Uno dei paesi a maggior rischio è l'Austria, le cui banche hanno
esposizioni verso l'Est Europa pari a 280 miliardi di Euro (pari al 92%
del PIL del paese). Se solo il 10% dei debitori risultassero insolventi
ci sarebbe il collasso del sistema finanziario austriaco.
In situazioni analoghe ci sono le banche di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna ed Italia.
Proprio in Italia, Unicredit è a fortissimo rischio: ha il 32%
del proprio giro d'affari che viene da quell'area, e la cifra è
probabilmente sottostimata, visto che Unicredit ha esposizioni anche
attraverso le controllate di altri paesi, come la Bank of Austria che
ha 50 miliardi di Euro di crediti a rischio insolvenza. In Italia
è a rischio anche Intesa San Paolo con il 12% del giro d'affari
realizzato nell'Est Europa.
Dei mancati profitti delle banche italiane non ci importa un
granché, il problema è che, anche in questo caso, la
crisi si trasferirebbe immediatamente all'economia reale ed al reddito
dei lavoratori.
Se qualcuno si aspetta di uscire dalla crisi senza mettere in
discussione i meccanismi finora utilizzati di produzione e
distribuzione del reddito è un illuso. Probabilmente siamo solo
all'inizio di un periodo particolarmente lungo e difficile.
Nei prossimi mesi il problema centrale di molte famiglie sarà il
reddito, è perciò necessario che ci si organizzi e si
lotti per garantirlo a tutte e tutti.
Fricche