Umanità Nova, n.9 dell'8 marzo 2009, anno 89

Antiviolenza e non-sottomissione


Il problema delle forme di lotta (al fascismo, al razzismo, al sessismo, alle politiche di guerra, agli attacchi contro i lavoratori…) e del rifiuto della politica della violenza torna ciclicamente ad animare il dibattito all'interno dell'opposizione sociale, ma sovente questo confronto risulta in qualche modo condizionato dall'esterno, proprio dalle forze politiche istituzionali e dai loro fiancheggiatori moralisti - di destra e di sinistra - che, attraverso argomentazioni pseudo etiche, in realtà cercano di depotenziare e canalizzare i conflitti che, comunque, si aprono dentro una crisi sociale e economica ormai in caduta libera.
Ai tempi del passato governo di centrosinistra fu D'Alema a ricordarci che "Lo Stato deve avere il monopolio dell'uso della forza", adesso è Berlusconi che non perde occasione per minacciare e ricorrere all'uso della forza pubblica per sostenere il suo decisionismo: lo stiamo vedendo a Vicenza e a Chiaiano, mentre si prepara l'intervento dell'esercito in Val di Susa.
La violenza legale è infatti da sempre espressione dell'oppressione, dell'autoritarismo, del dogmatismo insiti in ogni dominio; per questo definire violenza anche lo sforzo di chi cerca come può di rompere le catene della propria schiavitù è sempre rischioso e può fare il gioco proprio di chi vorrebbe mantenere intatte quelle catene.
Allora cerchiamo di essere chiari, all'interno come all'esterno, senza cadere in visioni altrettanto manichee.
Lotta nonviolenta non può significare assenza di conflitto, né che questa debba necessariamente accettare il concetto di legalità stabilito e imposto da chi detiene il potere, come insegna anche la ribellione gandhiana, fondata sulla non-collaborazione e la disobbedienza civile. Nonviolenza significa piuttosto che il metodo della lotta prescelto non deve basarsi sull'uso della violenza contro le persone, specie se indiscriminata. Per questo, di fronte alle situazioni d'ingiustizia, la nonviolenza contempla il ricorso alla resistenza attiva, allo sciopero, al blocco di una ferrovia e non esclude neanche il sabotaggio di cose. Mettere dello zucchero nel serbatoio di una ruspa o della sabbia nel motore di un carro armato, rientra perfettamente in un'etica della nonviolenza: le macchine infatti non sanguinano e le vetrine neanche.
Detto questo è inevitabile, in situazioni di tensione determinate dalle forze repressive a difesa dell'ordine costituito, che la nonviolenza sia costretta a diventare antiviolenza. Così come è successo in Val di Susa. L'autodifesa popolare diviene quindi necessaria per proteggere i soggetti meno tutelati (anziani, bambini, portatori di handicap…) che partecipano alla mobilitazione o per garantire la libertà di manifestare le proprie opinioni.
D'altronde, il diritto a difendere la propria e l'altrui incolumità da un'aggressione è riconosciuto come legittimo persino dalla legge borghese, oltre che dal buon senso.
Ma oltre a questo, è necessario affrontare un discorso più generale. La nonviolenza può essere definita come una cultura, ma non può essere un'ideologia, con tutte le conseguenze autoritarie proprie di ogni fondamentalismo.
Se, infatti, la guerra e la violenza statale sono anche espressioni di una società e di una cultura autoritaria, è necessario maturare un atteggiamento laico e libertario anche su questo versante, sostenendo le ragioni del rifiuto radicale della violenza, ma riuscendo come ogni vera cultura a confrontarsi e interagire anche con culture diverse, purché legate ad analoghe idee e prospettive di liberazione umana.
D'altronde, nella storia, lontana e vicina, dell'emancipazione sociale conosciamo esperienze di lotta che hanno percorso strade aspre e difficili; basti pensare alle conquiste del movimento operaio, alla guerra di Spagna, alla resistenza partigiana contro il nazifascismo o alla rivolta zapatista in Chiapas, nata come insorgenza armata, ma mai volta ad imporre "militarmente" le proprie rivendicazioni di libertà ed uguaglianza.
Per questo l'isolare o il criminalizzare chi ha idee e pratiche diverse non può rientrare nella metodologia non-violenta: la contraddizione è evidente e stridente. Come quella di certi sostenitori della disobbedienza che, qualche anno fa, volevano imporre anche violentemente le ragioni della non-violenza.
L'etica non-violenta non può divenire essa stessa un'ideologia autoritaria e chiusa a ogni altra cultura, visione e opzione; altrimenti si giunge al paradosso di chiedere a senso unico agli altri disponibilità all'apertura, al confronto, alla contaminazione, allo scambio, all'interazione.
Altrimenti si giunge al paradosso di un'intolleranza e di un dogmatismo che certo rendono poco credibile un modo di intendere i rapporti tra le persone libero da imposizioni di qualsiasi genere.
D'altra parte, nella storia dei movimenti di liberazione umana e sociale esistono da sempre approcci e strade diverse e appare quanto meno superficiale condannare come "violento" chiunque non aderisce completamente, sempre e comunque, alla dottrina non-violenta.
Si potrebbero riandare ai numerosi esempi sopracitati; ma possiamo limitarci all'immagine di Davide che vince Golia. Solo chi è in malafede può considerare la sua piccola fionda come un'apologia della violenza, che semmai appare come il simbolo dell'intelligenza umana talvolta necessaria per impedire che la prepotenza annienti il più debole. Un simbolo, quindi, dell'antiviolenza.
Per cui, per contrastare l'egemonia culturale della destra di governo e non, piuttosto che analizzare quanto sia più o meno violenta un forma di opposizione rispetto ad un'altra, c'è principalmente bisogno di ritrovare e diffondere un'etica, individuale e collettiva, della non-sottomissione come bussola dell'agire sociale.
Infatti non ha senso parlare di etica (e quindi di coerenza) se poi alla consapevolezza non seguono azioni di effettiva non-sottomissione, non collaborando a quanto si ritiene inaccettabile e rivoltandosi attivamente contro le imposizioni. Altrimenti, si rimane nell'ambito delle buone intenzioni e delle prediche disarmanti.
Pratiche di questo genere sono invise e osteggiate dal potere di ogni colore, in quanto potenzialmente sovversive a livello sociale, per cui non c'è da meravigliarsi se non godono di buona fama né vanno per la maggiore.
Oggi, in realtà, si sconta mezzo secolo in cui si è fatto di tutto (anche e soprattutto a sinistra) per annullare identità antagoniste, normalizzare, pacificare, rendere compatibile nonché rendere accettabile un immutato sistema di dominio e sfruttamento.
E ora che quanto resta della sinistra parlamentare è fuori gioco, questa vorrebbe che la sinistra sociale facesse le barricate, dimenticando che proprio i partiti di sinistra per decenni hanno sistematicamente isolato, deriso e tacciato come violento ed estremista ogni critica e prassi radicale.
Teniamolo presente.

COLLETTIVO "A.CAMUS"

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