Il problema delle forme di lotta (al fascismo, al razzismo, al
sessismo, alle politiche di guerra, agli attacchi contro i lavoratori…)
e del rifiuto della politica della violenza torna ciclicamente ad
animare il dibattito all'interno dell'opposizione sociale, ma sovente
questo confronto risulta in qualche modo condizionato dall'esterno,
proprio dalle forze politiche istituzionali e dai loro fiancheggiatori
moralisti - di destra e di sinistra - che, attraverso argomentazioni
pseudo etiche, in realtà cercano di depotenziare e canalizzare i
conflitti che, comunque, si aprono dentro una crisi sociale e economica
ormai in caduta libera.
Ai tempi del passato governo di centrosinistra fu D'Alema a ricordarci
che "Lo Stato deve avere il monopolio dell'uso della forza", adesso
è Berlusconi che non perde occasione per minacciare e ricorrere
all'uso della forza pubblica per sostenere il suo decisionismo: lo
stiamo vedendo a Vicenza e a Chiaiano, mentre si prepara l'intervento
dell'esercito in Val di Susa.
La violenza legale è infatti da sempre espressione
dell'oppressione, dell'autoritarismo, del dogmatismo insiti in ogni
dominio; per questo definire violenza anche lo sforzo di chi cerca come
può di rompere le catene della propria schiavitù è
sempre rischioso e può fare il gioco proprio di chi vorrebbe
mantenere intatte quelle catene.
Allora cerchiamo di essere chiari, all'interno come all'esterno, senza cadere in visioni altrettanto manichee.
Lotta nonviolenta non può significare assenza di conflitto,
né che questa debba necessariamente accettare il concetto di
legalità stabilito e imposto da chi detiene il potere, come
insegna anche la ribellione gandhiana, fondata sulla non-collaborazione
e la disobbedienza civile. Nonviolenza significa piuttosto che il
metodo della lotta prescelto non deve basarsi sull'uso della violenza
contro le persone, specie se indiscriminata. Per questo, di fronte alle
situazioni d'ingiustizia, la nonviolenza contempla il ricorso alla
resistenza attiva, allo sciopero, al blocco di una ferrovia e non
esclude neanche il sabotaggio di cose. Mettere dello zucchero nel
serbatoio di una ruspa o della sabbia nel motore di un carro armato,
rientra perfettamente in un'etica della nonviolenza: le macchine
infatti non sanguinano e le vetrine neanche.
Detto questo è inevitabile, in situazioni di tensione
determinate dalle forze repressive a difesa dell'ordine costituito, che
la nonviolenza sia costretta a diventare antiviolenza. Così come
è successo in Val di Susa. L'autodifesa popolare diviene quindi
necessaria per proteggere i soggetti meno tutelati (anziani, bambini,
portatori di handicap…) che partecipano alla mobilitazione o per
garantire la libertà di manifestare le proprie opinioni.
D'altronde, il diritto a difendere la propria e l'altrui
incolumità da un'aggressione è riconosciuto come
legittimo persino dalla legge borghese, oltre che dal buon senso.
Ma oltre a questo, è necessario affrontare un discorso
più generale. La nonviolenza può essere definita come una
cultura, ma non può essere un'ideologia, con tutte le
conseguenze autoritarie proprie di ogni fondamentalismo.
Se, infatti, la guerra e la violenza statale sono anche espressioni di
una società e di una cultura autoritaria, è necessario
maturare un atteggiamento laico e libertario anche su questo versante,
sostenendo le ragioni del rifiuto radicale della violenza, ma riuscendo
come ogni vera cultura a confrontarsi e interagire anche con culture
diverse, purché legate ad analoghe idee e prospettive di
liberazione umana.
D'altronde, nella storia, lontana e vicina, dell'emancipazione sociale
conosciamo esperienze di lotta che hanno percorso strade aspre e
difficili; basti pensare alle conquiste del movimento operaio, alla
guerra di Spagna, alla resistenza partigiana contro il nazifascismo o
alla rivolta zapatista in Chiapas, nata come insorgenza armata, ma mai
volta ad imporre "militarmente" le proprie rivendicazioni di
libertà ed uguaglianza.
Per questo l'isolare o il criminalizzare chi ha idee e pratiche diverse
non può rientrare nella metodologia non-violenta: la
contraddizione è evidente e stridente. Come quella di certi
sostenitori della disobbedienza che, qualche anno fa, volevano imporre
anche violentemente le ragioni della non-violenza.
L'etica non-violenta non può divenire essa stessa un'ideologia
autoritaria e chiusa a ogni altra cultura, visione e opzione;
altrimenti si giunge al paradosso di chiedere a senso unico agli altri
disponibilità all'apertura, al confronto, alla contaminazione,
allo scambio, all'interazione.
Altrimenti si giunge al paradosso di un'intolleranza e di un dogmatismo
che certo rendono poco credibile un modo di intendere i rapporti tra le
persone libero da imposizioni di qualsiasi genere.
D'altra parte, nella storia dei movimenti di liberazione umana e
sociale esistono da sempre approcci e strade diverse e appare quanto
meno superficiale condannare come "violento" chiunque non aderisce
completamente, sempre e comunque, alla dottrina non-violenta.
Si potrebbero riandare ai numerosi esempi sopracitati; ma possiamo
limitarci all'immagine di Davide che vince Golia. Solo chi è in
malafede può considerare la sua piccola fionda come un'apologia
della violenza, che semmai appare come il simbolo dell'intelligenza
umana talvolta necessaria per impedire che la prepotenza annienti il
più debole. Un simbolo, quindi, dell'antiviolenza.
Per cui, per contrastare l'egemonia culturale della destra di governo e
non, piuttosto che analizzare quanto sia più o meno violenta un
forma di opposizione rispetto ad un'altra, c'è principalmente
bisogno di ritrovare e diffondere un'etica, individuale e collettiva,
della non-sottomissione come bussola dell'agire sociale.
Infatti non ha senso parlare di etica (e quindi di coerenza) se poi
alla consapevolezza non seguono azioni di effettiva non-sottomissione,
non collaborando a quanto si ritiene inaccettabile e rivoltandosi
attivamente contro le imposizioni. Altrimenti, si rimane nell'ambito
delle buone intenzioni e delle prediche disarmanti.
Pratiche di questo genere sono invise e osteggiate dal potere di ogni
colore, in quanto potenzialmente sovversive a livello sociale, per cui
non c'è da meravigliarsi se non godono di buona fama né
vanno per la maggiore.
Oggi, in realtà, si sconta mezzo secolo in cui si è fatto
di tutto (anche e soprattutto a sinistra) per annullare identità
antagoniste, normalizzare, pacificare, rendere compatibile
nonché rendere accettabile un immutato sistema di dominio e
sfruttamento.
E ora che quanto resta della sinistra parlamentare è fuori
gioco, questa vorrebbe che la sinistra sociale facesse le barricate,
dimenticando che proprio i partiti di sinistra per decenni hanno
sistematicamente isolato, deriso e tacciato come violento ed estremista
ogni critica e prassi radicale.
Teniamolo presente.
COLLETTIVO "A.CAMUS"