Umanità Nova, n.9 dell'8 marzo 2009, anno 89

Petro moneta


L'articolazione dell'economia globale in grandi isole regionali, ha favorito il moltiplicarsi di progetti e di programmi concreti volti a creare i presupposti per possibili unioni monetarie. Ciò è accaduto un po' in tutti i continenti.
I paesi del Golfo Persico (Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi), che avevano costituito una zona di libero scambio già a partire dal 1982, si sono dati l'obiettivo di arrivare ad adottare una moneta comune nel 2010. L'obiettivo sembrava facilmente a portata di mano, poiché si tratta di nazioni che hanno in comune lingua, religione e cultura. Infine, anche il loro cicli economici sono piuttosto allineati, grazie al fatto che l'insieme di queste economie, chi più chi meno, rappresenta il maggiore produttore mondiale di petrolio. Proprio per questo motivo, fin dagli anni '70, i loro sistemi valutari erano stati "dollarizzati", determinando così un ulteriore fattore di omogeneità: le monete degli "sceicchi" sono tutte agganciate al valore della valuta americana. Ricordiamo che proprio la denominazione del prezzo del petrolio ha costituito per decenni la forza del dollaro.
Però, questo legame ha recentemente creato notevoli problemi agli sceicchi. Il ragguardevole deprezzamento subito dal dollaro fino alla primavera del 2008, ha comportato la svalutazione delle valute del Golfo, generato tensioni inflazionistiche interne e obbligato gli esportatori di petrolio a continui rialzi di prezzo, necessari per compensare il calo del valore della moneta con cui erano pagati. Infatti, nel 2007 il Kuwait è stato costretto a sospendere l'aggancio della sua moneta al dollaro con l'obiettivo di combattere la ripresa dell'inflazione.
Dall'estate del 2008 il deprezzamento del dollaro si è interrotto e il biglietto verde ha guadagnato valore nei confronti delle altre principali valute mondiali. Tuttavia le traversie del progetto di integrazione monetaria del Consiglio per la Cooperazione del Golfo non sono finite. La tempesta che ha interessato i mercati finanziari del pianeta, in conseguenza dello scoppio della bolla immobiliare americana, ha generato poderose onde d'urto che hanno investito anche i paesi di quell'area. Ogni Stato ha affrontato le perturbazioni come ha potuto. Ne sono scaturite politiche economiche differenziate: qualcuno ha tagliato i tassi di politica monetaria, alcuni si sono limitati ad aumentare i volumi di liquidità messi a disposizione del sistema bancario. L'economia dimensionalmente più importante, l'Arabia Saudita, ha invece deciso di utilizzare la leva fiscale, aumentando la spesa pubblica. Le differenti scelte comporteranno disallineamenti tra le economie del Golfo e questo complicherà il processo di sincronizzazione necessario per riuscire a lanciare efficacemente l'unione monetaria.
Lo stesso fattore comune all'area, ossia l'aggancio delle diverse valute al dollaro, potrebbe non reggere alla sfida del "tasso zero", la manovra con cui la Federal Reserve ha virtualmente annullato i tassi monetari negli Usa. Per tutelare gli istituti di credito dell'area, i tassi di deposito dei paesi del Golfo non sono, infatti, scesi nella stessa misura di quelli degli Stati Uniti. Ciò potrebbe determinare pressioni al rialzo delle monete dell'area.
Nel 2010, quando secondo i programmi si dovrebbe procedere all'integrazione valutaria con la nascita della moneta unica, vi è il rischio che le banche centrali (o la Banca Centrale) si trovino nella condizione di dover scegliere tra due alternative entrambe "sbagliate": abbassare i tassi di interesse per evitare un eccessivo apprezzamento delle loro monete, lasciando però in tal modo aperta la porta all'inflazione o alzare i tassi per contrastare il rialzo dei prezzi, ma causando un ulteriore rivalutazione delle valute arabe, in grado di comprometterne la competitività internazionale.
Ma il vero rischio che grava su queste economie potrebbe manifestarsi nel medio – lungo termine. È ben nota la scelta del presidente degli Stati Uniti di riconvertire il sistema energetico americano verso un'economia meno basata sul petrolio e sulle fonti fossili in generale. La determinazione con cui sarà perseguito tale obiettivo è ben espressa nella valenza attribuita a questo processo, classificato all'interno delle politiche di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Anche l'Unione Europea, con l'eccezione dell'Italia, il cui presidente del consiglio è, guarda caso, grande amico del capo russo Putin, ha messo in campo una serie di interventi finalizzati ad aumentare il ricorso alle fonti di energia rinnovabili. Meno noto, ma probabilmente ancora più dirompente, è il fatto che anche i governanti cinesi abbiano stanziato centinaia di miliardi di dollari per lo sviluppo delle energie rinnovabili. Nel giro di qualche anno, l'insieme di queste scelte strategiche comporterà una riduzione della rendita di cui i paesi del Golfo hanno sempre beneficiato. Gli sceicchi più svegli hanno capito che, se vogliono dare un futuro allo sviluppo delle loro economie, dovranno puntare a diversificare i loro apparati produttivi, incentivando altri settori come il turismo, la finanza, alcune attività manifatturiere. Però, in questo modo, si rischia che la conseguente modernizzazione economica vada ad incidere sull'arcaica struttura sociale, mettendo in discussione i pilastri su cui sono costruite tali nazioni. D'altro canto, l'immobilismo potrebbe non pagare, poiché i minori introiti derivanti dalla riduzione dell'importanza del petrolio e del gas comporterà anche minori risorse per mantenere sotto controllo le tensioni sociali latenti in popoli caratterizzati da enormi disparità sociali e di reddito. Tempi duri aspettano il "Gulf Dinar"!

Toni

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