L'articolazione dell'economia globale in grandi isole regionali, ha
favorito il moltiplicarsi di progetti e di programmi concreti volti a
creare i presupposti per possibili unioni monetarie. Ciò
è accaduto un po' in tutti i continenti.
I paesi del Golfo Persico (Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita
ed Emirati Arabi), che avevano costituito una zona di libero scambio
già a partire dal 1982, si sono dati l'obiettivo di arrivare ad
adottare una moneta comune nel 2010. L'obiettivo sembrava facilmente a
portata di mano, poiché si tratta di nazioni che hanno in comune
lingua, religione e cultura. Infine, anche il loro cicli economici sono
piuttosto allineati, grazie al fatto che l'insieme di queste economie,
chi più chi meno, rappresenta il maggiore produttore mondiale di
petrolio. Proprio per questo motivo, fin dagli anni '70, i loro sistemi
valutari erano stati "dollarizzati", determinando così un
ulteriore fattore di omogeneità: le monete degli "sceicchi" sono
tutte agganciate al valore della valuta americana. Ricordiamo che
proprio la denominazione del prezzo del petrolio ha costituito per
decenni la forza del dollaro.
Però, questo legame ha recentemente creato notevoli problemi
agli sceicchi. Il ragguardevole deprezzamento subito dal dollaro fino
alla primavera del 2008, ha comportato la svalutazione delle valute del
Golfo, generato tensioni inflazionistiche interne e obbligato gli
esportatori di petrolio a continui rialzi di prezzo, necessari per
compensare il calo del valore della moneta con cui erano pagati.
Infatti, nel 2007 il Kuwait è stato costretto a sospendere
l'aggancio della sua moneta al dollaro con l'obiettivo di combattere la
ripresa dell'inflazione.
Dall'estate del 2008 il deprezzamento del dollaro si è
interrotto e il biglietto verde ha guadagnato valore nei confronti
delle altre principali valute mondiali. Tuttavia le traversie del
progetto di integrazione monetaria del Consiglio per la Cooperazione
del Golfo non sono finite. La tempesta che ha interessato i mercati
finanziari del pianeta, in conseguenza dello scoppio della bolla
immobiliare americana, ha generato poderose onde d'urto che hanno
investito anche i paesi di quell'area. Ogni Stato ha affrontato le
perturbazioni come ha potuto. Ne sono scaturite politiche economiche
differenziate: qualcuno ha tagliato i tassi di politica monetaria,
alcuni si sono limitati ad aumentare i volumi di liquidità messi
a disposizione del sistema bancario. L'economia dimensionalmente
più importante, l'Arabia Saudita, ha invece deciso di utilizzare
la leva fiscale, aumentando la spesa pubblica. Le differenti scelte
comporteranno disallineamenti tra le economie del Golfo e questo
complicherà il processo di sincronizzazione necessario per
riuscire a lanciare efficacemente l'unione monetaria.
Lo stesso fattore comune all'area, ossia l'aggancio delle diverse
valute al dollaro, potrebbe non reggere alla sfida del "tasso zero", la
manovra con cui la Federal Reserve ha virtualmente annullato i tassi
monetari negli Usa. Per tutelare gli istituti di credito dell'area, i
tassi di deposito dei paesi del Golfo non sono, infatti, scesi nella
stessa misura di quelli degli Stati Uniti. Ciò potrebbe
determinare pressioni al rialzo delle monete dell'area.
Nel 2010, quando secondo i programmi si dovrebbe procedere
all'integrazione valutaria con la nascita della moneta unica, vi
è il rischio che le banche centrali (o la Banca Centrale) si
trovino nella condizione di dover scegliere tra due alternative
entrambe "sbagliate": abbassare i tassi di interesse per evitare un
eccessivo apprezzamento delle loro monete, lasciando però in tal
modo aperta la porta all'inflazione o alzare i tassi per contrastare il
rialzo dei prezzi, ma causando un ulteriore rivalutazione delle valute
arabe, in grado di comprometterne la competitività
internazionale.
Ma il vero rischio che grava su queste economie potrebbe manifestarsi
nel medio – lungo termine. È ben nota la scelta del presidente
degli Stati Uniti di riconvertire il sistema energetico americano verso
un'economia meno basata sul petrolio e sulle fonti fossili in generale.
La determinazione con cui sarà perseguito tale obiettivo
è ben espressa nella valenza attribuita a questo processo,
classificato all'interno delle politiche di sicurezza nazionale degli
Stati Uniti. Anche l'Unione Europea, con l'eccezione dell'Italia, il
cui presidente del consiglio è, guarda caso, grande amico del
capo russo Putin, ha messo in campo una serie di interventi finalizzati
ad aumentare il ricorso alle fonti di energia rinnovabili. Meno noto,
ma probabilmente ancora più dirompente, è il fatto che
anche i governanti cinesi abbiano stanziato centinaia di miliardi di
dollari per lo sviluppo delle energie rinnovabili. Nel giro di qualche
anno, l'insieme di queste scelte strategiche comporterà una
riduzione della rendita di cui i paesi del Golfo hanno sempre
beneficiato. Gli sceicchi più svegli hanno capito che, se
vogliono dare un futuro allo sviluppo delle loro economie, dovranno
puntare a diversificare i loro apparati produttivi, incentivando altri
settori come il turismo, la finanza, alcune attività
manifatturiere. Però, in questo modo, si rischia che la
conseguente modernizzazione economica vada ad incidere sull'arcaica
struttura sociale, mettendo in discussione i pilastri su cui sono
costruite tali nazioni. D'altro canto, l'immobilismo potrebbe non
pagare, poiché i minori introiti derivanti dalla riduzione
dell'importanza del petrolio e del gas comporterà anche minori
risorse per mantenere sotto controllo le tensioni sociali latenti in
popoli caratterizzati da enormi disparità sociali e di reddito.
Tempi duri aspettano il "Gulf Dinar"!
Toni