Luciano Lanza entra nel gruppo Gioventù libertaria (poi
Bandiera nera) di Milano nel 1965, nel quale militavano anche due
«vecchi», cioè vicini alla quarantina: Giuseppe
Pinelli e Cesare Vurchio.
Negli anni successivi è fra i fondatori, nel 1971, di "A rivista
anarchica", responsabile di "Volontà" dal 1980 al 1996 e dal
1999 di "Libertaria". Nel 1997 Eleuthera dà alle stampe il suo
Bombe e segreti, ristampato in una nuova edizione rivista e aggiornata
nel 2005. Abbiamo colto la recente uscita del libro di A. Sofri, La
notte che Pinelli (di cui Lanza ha curato una recensione in "UN" n. 7),
per rivolgergli qualche domanda su "piazza Fontana e dintorni" e tenere
ben saldo il filo della memoria.
Ammetto: ho letto il tuo libro dopo
quello di Adriano Sofri. Senza fare troppi paragoni, una prima cosa: la
formula «strage di stato» la coniaste voi pochi giorni dopo
piazza Fontana e in pochi vi presero seriamente.
È cosi?
Sì, è andata proprio così. Il 17 dicembre
organizzammo una conferenza stampa al circolo Ponte della Ghisolfa, in
cui «invitavamo» la polizia a indagare al ministero
dell'Interno invece di incarcerare gli anarchici. Invito quanto mai
appropriato visto che ci vorranno anni di coperture e depistaggi
prima che venisse alla ribalta il ruolo del capo dell'Ufficio affari
riservati di quel ministero. Oggi il nome di Federico Umberto D'Amato
è molto noto a chi si occupa dei cosiddetti «misteri
d'Italia», ma non allora. Ed è proprio in quell'occasione
che sosteniamo che Pinelli è stato ucciso, Valpreda è
innocente e quella strage è di stato. Bene, il giorno dopo
l'articolo più benevolo è del "Corriere della Sera" che
titola: «Farneticante conferenza-stampa al Circolo Ponte della
Ghisolfa. Nessuna recriminazione fra gli anarchici». Ma non solo
i giornalisti si accodano alle versioni ufficiali. Il giorno prima,
cioè subito dopo la morte di Pinelli, vado con alcuni compagni
all'università Statale per leggere un nostro comunicato
perché era in corso un'assemblea. Ma non su cosa stava
succedendo in Italia, no, per discutere i piani di studio. E pensare
che il Movimento studentesco guidato da Mario Capanna ha poi
rivendicato di essere stato il primo a indicare il «pericolo
fascista».
Piazza Fontana, madre di tutte le
stragi (di stato) è una verità lanciata dagli anarchici,
ma poco patrimonio della collettività, segno che una delle
priorità del potere è oggi la rimozione: e così
assistiamo a un'incredibile revisione anche per i fatti degli anni
Settanta.
Certo. La storia viene sempre riscritta. E questo non deve stupire. Ma
in questo caso siamo di fronte a una riscrittura che non riguarda una
interpretazione dei fatti secondo la logica dominante in un determinato
periodo storico. No, qui abbiamo assistito a opere di falsificazione
dei fatti. Con una eccezione. Giuliano Ferrara nel dicembre 1997 in una
trasmissione sulla televisione di stato sostenne che certo non si
poteva negare che la strage fosse di stato, ma perché lo stato
si era dovuto difendere da un attacco portato contro lo stato,
cioè contro la società democratica. Non a caso Ferrara
è il più intelligente «consigliere del
principe», leggi Silvio Berlusconi. Il giudizio
«morale» è ovviamente un altro.
Il tuo libro mostra bene come i
fascisti abbiano svolto un'opera infame e di manovalanza, ma ci dice
anche come le menti siano stati ministri e servizi segreti.
Neofascisti e neonazisti pensavano di utilizzare le coperture
dell'Ufficio affari riservati del Sid per spostare l'asse del paese a
destra. Alcuni pensavano addirittura di creare l'occasione per un colpo
di stato come era avvenuto due anni prima in Grecia. E qui entrano in
ballo non solo ministri come Franco Restivo, titolare del dicastero
dell'Interno, ma anche i servizi segreti americani che temevano una
decisa svolta a sinistra dell'Italia, per il clima politico determinato
dalle lotte studentesche e operaie. Ricordo sempre (e lo cito anche nel
libro) lo slogan coniato dagli operai della Fiat il 3 luglio 1969
durante uno sciopero generale: «Che cosa vogliamo? Tutto».
La classe politica si sentiva messa pesantemente in discussione, ma
anche molti grandi industriali non dormivano sonni tranquilli…
In tutto ciò, qual è il
ruolo del Pci? A me vien da dire, anche sulla scorta di altri lavori
(per esempio di Aldo Giannuli) che era a conoscenza se non di tutto,
sicuramente di qualcosa.
Sapeva moltissimo. Ma quanto? Bisognerebbe poter accedere a quegli
archivi e nonostante i cambi di sigla (Pci, Pds, Ds, Pd) la regola
della «riservatezza staliniana» vige ancora.
Strategia della tensione ieri; oggi
qualcosa che potremmo forse definire strategia della paura. Tutto
ciò, nella sua tragica indecenza sembra dar ragione agli
anarchici: il potere è criminale, ed è bene starne alla
larga... oggi come ieri.
L'utilizzo del «nemico» è un classico della
strategia politica per ottenere consenso. Basti pensare al magistrale
1984 di George Orwell. Una guerra finta, creata solo sui media, con un
possibile invasore sanguinario... La paura, il terrore sono strumenti
fondamentali per scaricare all'esterno la critica. Il «grande
fratello» ama il suo popolo, si sacrifica per lui e che piccola
cosa chiede in cambio? L'accettazione della situazione. Nessun atto
ostile verso chi si sacrifica. Nulla di nuovo sotto il sole.
A.S.