L'istituzione scolastica – pubblica o privata che sia – è un
tribunale che condanna gli studenti colpevoli a priori di non sapere.
Le pene, si sa, variano da un minimo di 13 anni (salvo buona condotta)
se il reo, oltre ad ammettere la propria ignoranza, accetta ben
volentieri di farsi istruire, ad un massimo che a volte rasenta
l'ergastolo, nel senso che per tutta la vita si è
giudicati privi d'istruzione e per l'eternità condannati secondo
i sacri testi scolastici ed i loro legittimi interpreti sacerdotali,
gli insegnanti. Tutto ciò ora non basta più: è
imposta anche la morte, dopo previa tortura.
Stiamo esagerando? Può darsi. Ma come analizzare ed interpretare
ciò che sta accadendo nel mondo della scuola italiana da quando,
con il Ministro dell'istruzione Mariastella Gelmini, l'istruzione
ha subito una accelerazione securitaria e persecutoria in tutto e per
tutto identica a quanto si va affermando nel Bel Paese trapuntato da
sbirri zelanti, militari compunti e ronde intraprendenti? Del resto non
è forse la scuola un microcosmo dov'è riflessa l'immagine
della società che la compone? O dobbiamo semplicemente limitarci
a considerare questioni meramente didattiche e connesse a logiche di
contenimento della spesa pubblica l'introduzione del maestro unico
quale antidoto ad una pluralità d'opinioni di per sé
dannose e destabilizzanti le certezze dei fanciulli; il voto di
condotta così necessario a ridare autorità,
dignità e prestigio al corpo docente alle prese con la
credibilità del proprio ruolo sociale; la meritocrazia come
parametro valutativo del servizio prestato dal corpo insegnante per
stabilirne capacità, compensi e relativi licenziamenti;
l'autonomia amministrativa e didattica gestita da dirigenti scolastici
sempre più figure manager di catene di supermercati
dell'istruzione con tanto di offerte promozionali per conquistare la
clientela studentesca?
Chi vive e frequenta l'istituzione scolastica (studenti, insegnanti,
genitori, applicati di segreteria e persino dirigenti scolastici) sa
che fintanto che non si troverà il modo per inceppare la
produzione di noia che la scuola di ogni ordine e grado distribuisce a
pieno titolo, nessun problema potrà mai essere affrontato, tanto
meno gli scarsi risultati conseguiti da studenti e insegnanti sul piano
dell'apprendimento, per non parlare dell'intolleranza diffusa nei
confronti di chi diviene oggetto che distrae dalla noia di non saper
cosa fare per la sua semplice presenza inoffensiva, remissiva e
succube. Eppure di fronte alla necessità di ricominciare a
vivere combattendo la noia al fine di poter sperimentare un
embrione di vita comunitaria – perché, se la scuola è il
nostro futuro, lo è solo se in grado di anticiparlo nel
presente, sperimentando un sapere comunitario in cui la conoscenza non
può essere finalizzata a preparare/formare i giovani,
organizzandogli il domani senza preoccuparsi di domandargli quale
domani vogliono… adesso… subito – vengono periodicamente
riproposte soluzioni autoritarie e repressive con l'intento di
riaffermare un'istituzione scolastica che invece di trasformare in
ricchezza il sapere di ognuno, svolge la funzione di agenzia
pubblicitaria che ti fa credere di aver bisogno della società
così com'è.
Certo, in un'epoca in cui sono le risposte semplici e perentorie a
cercare di offrire soluzioni immediate e definitive a problemi
complessi, non meraviglia che l'introduzione del cinque in condotta
venga proposto quale antidoto al "bullismo" a scuola; sennonché
tali risposte soddisfano non i problemi che pretendono di risolvere, ma
soltanto chi ha bisogno di camuffare il proprio deficit di
autorevolezza nell'affrontarli poiché incapace di analizzarli e
comprenderli, dal momento che in classe e nella società si
fa bullo invocando le espulsioni degli stranieri, il ricorso alle ronde
di quartiere e la tolleranza zero nei confronti di chi è
estraneo al suo status.
Così alla colpa di non sapere di cui la scuola pregiudizialmente
accusa gli studenti, si affianca la ben più temuta colpa di non
essere educato, rispettoso ed ossequioso delle regole comunitarie da
parte di una comunità che – per regola – diffida di chi gli fa
da specchio.
gianfranco marelli