Quella che segue è la sintesi di un intervento tenuto alla
presentazione del pamphlet Dietro le sbarre (Zero in Condotta, 2009)
all'archivio storico della FAI di Imola il 21 febbraio 2009.
Dietro le sbarre è la traduzione di un'antologia pensata
da un collettivo anarchico di Oakland (California) e pubblicata nel
2003 dalla Kate Sharpley Library di Londra. Il lavoro è stato
curato da Simone Buratti e Elio Xerri; proprio a Elio e a Giulio, due
compagni scomparsi recentemente, è dedicato questo lavoro. Il
testo si divide in due sezioni: Idee e Memorie, ovvero da una parte
riflessioni di anarchici sul carcere e dall'altra la loro esperienza
dietro le sbarre.
Albert Parsons, uno dei "martiri di Chicago", proprio alla vigilia
della sua uccisione (1887), traccia con estrema chiarezza il punto di
vista anarchico sulla legge e il carcere: "Il governo emana la legge;
la polizia, l'esercito e le prigioni su ordini del ricco la impongono
facendola rispettare (...) La legge è una concessione (...) Da
essa l'umanità è stata sempre degradata e schiavizzata
(...) L'anarchia – la legge naturale – è libertà."
Nel secondo saggio Piotr Kropotkin muove dal nocciolo del problema: la
prigione non risponde al suo scopo, in quanto chi va in galera una
prima volta – lungi dall'essere rieducato – con molta
probabilità ci tornerà e spesso per un reato più
grave del primo. Ecco perchè "una prigone non può
essere migliorata. A parte insignificanti cambiamenti, non resta altro
da fare che distruggerla". In secondo luogo - dice - "le sbarre
non sono fatte per i criminali, ma per gli incapaci (...) I veri ladri
sono coloro che detengono, non i detenuti". Oggi come ieri i tanti
Berlusconi non corrono certo grandi rischi, mentre le prigioni sono
piene di "pesci piccoli". Secondo Kropotkin le cause sociali sono le
prime cause del crimine. Soppresse queste, nella futura società
liberata, "il maggior di questi atti non avrà più ragion
d'essere. I restanti altri saranno soffocati sul nascere."
Questo saggio ci offre un duplice motivo di riflessione: che peso dobbiamo dare alle cause sociali?
E' convincente l'ottimismo di Kroptkin sulla pressoché totale assenza di crimine in una società liberata?
Emma Goldman definisce le prigioni un "crimine sociale e un
fallimento", descrivendo come gli istituti di pena spezzino la
volontà, degradino le anime, soggioghino lo spirito e Alexander
Berkman denuncia come le galere servano agli Stati per sbarazzarsi dei
criminali, altro che per rieducare!
Berkman torna alle cause del crimine e scrive: "L'unica vera cura per
il crimine è abolirne le cause (...) L'anarchismo significa
eliminare quelle condizioni". E se "alcuni tipi di crimine
persisteranno per qualche tempo (...) anche questi scompariranno
gradualmente."
Errico Malatesta mostra la propria grande fiducia nell'uomo,
sottolineando che "l'attenzione dei doveri sociali deve essere
volontaria" e alle domande "Chi giudichera? Chi provvederà alla
difesa necessaria? Chi stabilirà i mezzi di repressione?"
risponde: "Noi non vediamo altra via che lasciare fare agli interessati
(...) bisogna evitare la costituzione di corpi (...) di polizia (...)
Meglio, in tutti i casi, l'ingiustizia, la violenza transitoria del
popolo che la cappa di piombo, la violenza legalizzata dello Stato
giudiziario e poliziesco".
Tutte queste considerazioni hanno un carattere utopico e realistico
allo stesso tempo e, indubbiamente figlie di un retaggio culturale
illuministico e in alcuni casi positivistico, risultano però
essere pragmatiche. Inoltre, nonostante esse facciano parte della
storia, il problema (il carcere) e la soluzione (la sua distruzione)
sono di stringente attualità: come allora non ci sono altre vie.
Oggi tra galere e Centri di identificazione ed esplusione (ex CPT) in
Europa la popolazione detenuta è in crescita costante (circa
600mila detenuti), così come tutta l'area del "controllo
penale". Ciò che è in crisi è proprio quel che gli
anarchici contestavano: l'idea stessa di reinserimento sociale.
Violazioni e condizioni disumane caratterizzano tutte le galere. In
Italia il regime di 41bis, il sovraffollamento cronico, i lunghi
periodi di chiusura in cella, gli episodi ricorrenti di abusi e di
violenze sono tra i fattori che aggravano una situazione insostenibile.
Nelle prigioni italiane ci sono tra i 55 e i 60mila detenuti per poco
più di quarantamila posti letto, in aumento costante per
l'applicazione della Bossi-Fini. Il 55% della popolazione detenuta
è in attesa di condanna definitiva (e la presunzione di
innocenza?). Il 30% dei reati ascritti consiste in delitti contro il
patrimonio; il 16% contro le persone; il 15% è dentro per avere
violato la legge Fini-Giovanardi sulle droghe. I detenuti stranieri
sono 20mila, il 40%. Prima dell'introduzione della Bossi-Fini
costituivano il 30%. In carcere ci si ammazza più o meno
diciotto volte più che fuori. E spesso ci pensano i secondini.
Come nel caso delle morti di Marcello Lonzi e di Aldo Bianzino, solo
due, tra le tante, che sono venute a galla, grazie all'impegno di
parenti, amici e compagni.
Ma, oggi come allora, ci sono uomini e donne che si mobilitano contro
il carcere, con i comitati, i presidi, i blog, le lettere e il supporto
ai detenuti. La necessità di urlare l'inumanità del
carcere, della sua idea e della sua sostanza allo stesso tempo,
è più che mai attuale. Perché esso non è
cambiato in nulla e anzi le tante Guantanamo sparse per il mondo fanno
venire il lecito dubbio che il sistema penale sia oggi ancora
più inumano di ieri. E allora pare più che legittimo
volere fare a meno una volta per tutte di ciò che sta alla base
del carcere e quotidianamente lo alimenta: lo stato, il governo, il
potere.
A.S.