A Istanbul dal 16 al 22 marzo scorso si è svolto il quinto
forum mondiale dell'acqua. Ogni tre anni i potenti di turno si
autorappresentano in un'assise che sa sempre tanto di ostentazione di
potere: 30 mila congressisti, guidati da una ventina di capi di stato e
circa 180 ministri dell'ambiente, hanno raggiunto anche questa volta il
proprio obiettivo: che nulla cambi. Infatti non è stata
raggiunta nessuna intesa sull'accordare all'accesso all'acqua lo status
di "diritto" sancito a livello internazionale. Dichiarazione simbolica,
ma i nostri governanti non ne hanno comunque voluto sapere: l'accesso
all'acqua non è un "diritto", ma un "bisogno" fondamentale
(grazie!): di qui i soliti impegni vacui per il futuro al fine di
favorire l'accesso ai servizi igienico-sanitari, lottare contro
l'inquinamento dei corsi d'acqua, delle falde ecc.
Nella realtà questa è stata l'ennesima tappa di una commedia il cui canovaccio è chiarissimo.
Punto di partenza è il fatto che tra alcuni anni vivremmo una
"crisi idrica mondiale", le cui cause sono l'aumento demografico, la
progressiva erosione e inquinamento delle falde, i cambiamenti
climatici.
Partendo da questo assunto, sin dall'inizio degli anni Novanta, vari
organismi internazionali hanno portato avanti una campagna secondo la
quale l'acqua è da ritenersi un bene economico: stabilire un
prezzo per l'acqua sarebbe il modo migliore per evitare gli sprechi e
garantire le risorse idriche alle generazioni future: questa visione
strategica è stata confermata da tutti i forum internazionali
sull'acqua che si sono svolti negli ultimi quindici anni. Non a caso
essi sono creature di un unico organismo, il WWC (World Water Council),
costituito dalle principali multinazionali del settore (su tutte Veolia
e Suez) e da varie organizzazioni internazionali, con in testa la banca
mondiale.
Evidentemente la mercificazione dell'acqua risponde al desiderio di
profitto di pochi e non certo ai bisogni della popolazione mondiale.
Che tale strategia non risponda ad altro se non al capitale lo dice il
numero crescente di assetati nel mondo: più di un miliardo e 200
milioni di persone non hanno accesso sufficiente alle fonti di acqua
pulita e quasi altri due miliardi vivono senza servizi igienici.
Secondo le stime dell'Ocse, entro il 2030 saranno 3,9 miliardi le
persone che vivranno senza acqua sufficiente. D'altra parte appare
chiaro che la privatizzazione dei servizi idrici (che interessa anche
l'Italia, vedi UN, n.36, 2008) vada intesa come estrema forma di
mercificazione di quello che è – o meglio dovrebbe essere – a
tutti gli effetti un bene comune, l'acqua.
Proprio contro quest'ultimo aspetto, la privatizzazione, si battono
svariate associazioni, sindacati, reti, organizzazioni non governative,
alcune delle quali hanno dato vita a un controvertice, nella stessa
Istanbul. Al di là della legittimità e buona fede di
alcune posizioni, il ruolo ultimo di questi forum è saltato agli
occhi con tutta la sua evidenza, quando – dopo che una manifestazione
di alcune centinaia di attivisti era stata attaccata dalla polizia
turca – il presidente dell'assemblea generale delle Nazioni Unite,
appoggiato da 26 paesi presenti al forum ufficiale, ha firmato un
documento di sostegno alla loro lotta per il riconoscimento del diritto
all'acqua.
Un atto ipocrita perché tutto continui come prima: ancora una
volta i controforum vengono strumentalmente utilizzati come stampella
da un potere tanto feroce quanto non più sostenibile.
Chiusi in un ottica di lotta esclusiva al neoliberismo, lotta che
implica sempre e solo una visione statalista dell'alternativa, i social
forum – o quel che ne rimane – annaspano in un tentativo di
salvataggio e di riforma del sistema pubblico. Se le critiche
alla privatizzazione sono infatti più che giustificate – gli
standard di erogazione del servizio da parte dei privati sono spesso e
volentieri peggiori di quelli garantiti dal pubblico, mentre i profitti
per le multinazionali si moltiplicano esponenzialmente – i
"socialriformisti", pur di non toccare la sacra entità statuale,
mostrano di ignorare deliberatamente che la larga maggioranza
degli operatori idrici nel mondo sono pubblici e che il 90% delle
grandi città vengono servite da sistemi pubblici.
Più che fare campagne per una maggiore trasparenza nella
gestione pubblica del servizio, oppure perché il tal servizio
venga affidato al pubblico invece che al privato, chi ha a cuore la
questione dovrebbe ammettere che se il sistema privato è
aberrante, il sistema pubblico è non solo spesso altrettanto
inefficiente e corrotto, ma soprattutto è anch'esso legato a
doppio filo al concetto di acqua come merce. Questo è il punto:
porre un prezzo all'acqua ha portato a profitti indegni per pochi e non
ha migliorato in nulla la situazione degli assetati, anzi. "Risolvere"
la questione dell'acqua implica innanzitutto staccarla dal concetto di
merce, di profitto: ed è chiaro che fare questo implica una
contestazione complessiva del sistema, per una sua ricostruzione su
basi umane, autogestionarie, egualitarie. Anche nel caso dell'acqua, la
democrazia partecipativa si è rivelata essere un feticcio e non
un passaggio verso la gestione diretta delle risorse: gli avvenimenti
degli ultimi anni – da quanto sono sorti i social forum – ci hanno
mostrato come i governanti siano anche disposti, in alcuni casi, a
condividere con gli ex-contestatori piccoli spicchi di potere:
l'importante è che i nuovi "partecipanti" condividano il fine
ultimo di ogni governo, ovvero profitto e perpetuazione del potere. Il
problema dell'acqua quindi è anche e soprattutto un problema
sociale complessivo, più che una specifica questione tecnica o
morale. Esso investe tutti quegli aspetti che gli anarchici contestano:
il capitale, la proprietà privata, lo stato, i confini. La lotta
per l'acqua come diritto e bene comune è quindi la lotta per
l'autogestione, la gestione diretta delle risorse, per una
società altra in cui dimensione locale e internazionale si
completino a vicenda e i cui non vi sia più spazio per chi trae
profitto e potere dai bisogni degli altri.
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