Umanità Nova, n.14 del 12 aprile 2009, anno 89

G20: l'incubo dei vincitori


Mentre per le strade della City londinese varie migliaia di manifestanti, appartenenti ai vari schieramenti, politici, ambientalisti, terzomondisti o semplicemente incazzati, venivano alle mani con una polizia non propriamente in linea con lo stile del bobby anglosassone, in un altro angolo di Londra, nella zona dei Docklands, al centro Excel, si combatteva un'altra battaglia, ma di ben altro rilievo.
In quelle sale infatti, 20 capi di stato delle principali nazioni (ed economie) del globo, si erano riuniti per trovare un  accordo che bilanciasse i rispettivi appetiti e le rispettive paure, ognuno di loro ben consapevole che da questo braccio di ferro a più mani sarebbe dipeso il futuro non solo della propria faccia, ma anche della propria poltrona. Ogni capoccione infatti, partendo aveva lasciato il rispettivo Paese in preda alle conseguenze di una crisi economica mondiale che, nel breve giro di un paio di anni, ha sparso per ogni angolo del mondo sconvolgimenti sociali di cui potremo valutare l'ampiezza solo nel lungo periodo. Il risultato di un trentennio di capitalismo selvaggio che aveva euforicamente diffuso in ogni angolo della terra il mito della fine della storia, della vittoria risolutiva del capitalismo liberale, quel capitalismo che avrebbe dovuto distribuire i suoi ricchi doni tra i cittadini produttori/consumatori plaudenti.
Ed ora che il sogno si è rivelato un incubo, con i cittadini che iniziano a agitarsi sempre più nervosamente, eccoli qui i leader, anche loro ormai alquanto nervosi, pronti a lottare l'uno contro l'altro o in base a schieramenti già formati, per portare a casa un risultato che sia spendibile nei confronti dei propri cittadini, senza però che sia messo minimamente in dubbio il credo nell'attuale sistema economico. Il capitalismo è in difficoltà, ma non è morto – ci dicono - anzi, se ci date ascolto, tra breve tornerà a portare benessere e ricchezza per tutti, che diamine!
Esaminiamo ora in breve quali erano le proposte degli intervenuti:
1) Stimoli fiscali: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna ed il Giappone proponevano con vigore una azione volta ad erogare al sistema imponenti fondi statali mentre la Francia e la Germania, anche perché soggette a stretti vincoli di bilancio secondo gli accordi di Maastricht, erano dubbiose sulla riuscita in tempi brevi di una simile operazione e chiedevano, prima di aprire i cordoni della borsa, che si verificassero i risultati di quanto già speso.
2) Nuove regole per i mercati: la Francia e la Germania chiedevano un'azione forte nei confronti della finanza d'assalto ed in particolare degli Hedge Funds (fondi altamente speculativi, già in passato autori di speculazioni azzardate e deleterie, ma molto remunerative) mentre il Giappone ne chiedeva la posticipazione
3) FMI:  Australia, Canada e Sud Africa erano tra i Paesi che volevano una forte crescita nei prestiti del Fmi; Russia, Argentina, Cina, India, Arabia Saudita e altri chiedevano riforme per concedere alle economie emergenti un maggiore potere di voto all'interno del fondo.
4) Commercio internazionale: il Brasile e la Gran Bretagna erano favorevoli alla messa a disposizione di circa 100 miliardi di dollari in nuove linee di credito per il commercio internazionale.
5) Protezionismo: la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Corea del Sud, Canada e India avevano chiesto che il G20 assumesse precisi impegni per l'ulteriore liberalizzazione del commercio.
6) Paradisi fiscali: la Francia e la Germania chiedevano un intervento decisivo.
7) Valuta di riserva: Cina e Russia proponevano una discussione circa una nuova valuta di riserva globale, che fosse in alternativa al dollaro americano.
Il risultato finale ha mostrato come tra i vari agguerriti partecipanti si sia arrivati, alla fine, ad una serie di compromessi: gli stimoli fiscali non sono obbligatori; ogni Paese quindi potrà agire nei tempi e termini che meglio crede; verranno imposti nel prossimo futuro una serie di vincoli e regolamenti sia ai mercati finanziari che ai principali partecipanti agli stessi (soprattutto gli Hedge Funds e gli intermediari in prodotti derivati), non escluse le società di rating, mentre verranno sottoposti a verifica gli emolumenti dei principali manager; i fondi a disposizione del FMI e Banca Mondiale e sono stati triplicati fino a 1.000 miliardi di $, da utilizzare per interventi nei Paesi in crisi, mentre quelli a disposizione del commercio internazionale mediante linee di credito sono stati elevati a 250 miliardi di $; per quanto riguarda il protezionismo, il Summit ha stabilito ancora una volta l'impegno di tutti i partecipanti a non alzare barriere sia al commercio che agli investimenti; in materia di paradisi fiscali, ci si è limitati ad una bacchettata sulle mani dei colpevoli, 4 paesi in particolare, Costa Rica, Malaysia, Filippine e Uruguay, che fanno parte della cosiddetta Lista nera redatta dall'OCSE, mentre pressioni sono state esercitate sul segreto bancario svizzero, già ora in via di sgretolamento; infine, circa una possibile valuta di riserva in alternativa al dollaro USA, dal Summit non è uscita alcuna decisione.
A conti fatti, si tratta di un copione già visto: mentre si tappano le falle qua e là nello scafo della nave che rischia di colare a picco, ogni membro dell'equipaggio si ingegna per salvare i suoi averi personali e per procurarsi i mezzi che gli consentiranno di uscire al meglio dal pericolo.
Per questo ogni Paese ed ogni alleanza tra paesi ha prima di tutto tirato l'acqua al suo mulino.
Ad esempio gli USA che, sfoggiando un Presidente nuovo di zecca e per giunta di colore, seppure da una posizione di sostanziale debolezza (persi in marzo ben 663.000 posti di lavoro), hanno  chiarito ai dubbiosi presenti che non intendono abdicare al ruolo di  Paese leader del globo.
L'Europa, guidata da Francia e Germania, ha a sua volta mostrato di non gradire in futuro gli eccessi della finanza statunitense ed ha quindi chiesto regole certe, mentre ha fortemente puntato i piedi alla richiesta di Obama di aprire i cordoni della borsa per non correre il rischio di affondare in una inflazione assolutamente spiacevole.
Dal canto loro, i paesi del terzo mondo emergente, guidati dal Brasile, hanno invece richiesto fondi per risollevare le sorti delle rispettive economie e, udite, udite, una maggiore partecipazione alle decisioni all'interno del Fondo Monetario Internazionale (I soldi li avranno, la maggiore partecipazione chiaramente no).
Ma questa del G20 è stata anche la prima volta della Cina, il nuovo invitato che, forte delle sua economia in espansione, seppure al momento fortemente colpita dal tracollo Usa, ha fatto il suo ingresso nel salotto buono. E lo ha fatto osando suggerire l'adozione di una nuova valuta globale di riferimento in alternativa al dollaro Usa, valuta che dovrebbe basarsi sui cosiddetti diritti speciali di prelievo FMI, l'unità di conto del FMI, il cui valore viene calcolato su un paniere di divise nazionali, sulla base del quale viene poi ricavato un "comune denominatore" detto diritto speciale di prelievo.
Ovvio che tale richiesta, seppure appoggiata dalla Russia, abbia ottenuto un cortese, ma fermo rifiuto sia da parte degli altri governanti intervenuti e - soprattutto – da parte della star mondiale del momento, il divo Obama. "Beh, comunque ci abbiamo provato, abbiamo compiuto il bel gesto" pare abbia sussurrato Hu Jintao ai suoi più stretti collaboratori.
Eppure, il 1 aprile, al termine dell'incontro a due Obama-Hu Jintao, immediatamente denominato "il G2", la dichiarazione congiunta rilasciata affermava soavemente che "Le due parti concordano di lavorare assieme per costruire una positiva e cooperativa relazione globale Stati Uniti-Cina per il 21esimo secolo, e di mantenere e rafforzare gli scambi a tutti i livelli".
Segno questo che, pur restando gli Usa pervicacemente attaccati al loro ruolo di leader a dispetto dello sfacelo da loro stessi creato, si rendono conto che d'ora in avanti dovranno  fare i conti con il loro principale partner commerciale e finanziario anche se questa liaison dangereuse ben poco li alletta.
E, d'altra parte, anche la Cina deve misurarsi con questo problema, considerato che, benché abbia in fretta impostato una nuova politica economica che stimoli al più presto possibile i consumi interni, è ben conscia che questa svolta avrà bisogno non di mesi, ma di anni per cominciare a produrre i suoi frutti.
Nel frattempo le due economie sono strettamente avvinghiate in un abbraccio non propriamente amichevole, visto che la Cina aveva da anni impostato la propria economia per l'esportazione di beni verso gli Usa, diventando però nel tempo il principale sottoscrittore di  buoni del tesoro USA e di altre attività, tutte denominate in dollari e tutte – nella attuale congiuntura - a forte rischio.
Da qui una spiacevole situazione durante la quale i due protagonisti si sono a lungo scrutati con reciproco sospetto finché, dopo l'elezione del nuovo presidente Usa, la Cina ha annunciato il suo impegno a continuare nella sottoscrizione dei treasury bonds americani, cosa che deve aver fatto tornare ossigeno nelle vene di Obama e dei suoi uomini.
Quello che potremo quindi osservare nel prossimo futuro – se questa redazione ha bene interpretato i segnali scaturiti dall'incontro londinese – sarà una forzata alleanza economico strategica sino-americana che porterà al ristabilimento di proficue relazioni commerciali tra i due paesi. La Cina proseguirà nella strada ora intrapresa, combinando un mix tra le precedenti copiose esportazioni negli Usa e la nuova politica espansiva all'interno precedentemente citata, magari concedendo una maggiore fluttuazione della propria valuta, lo Yuan, al partner, al quale però chiederà, ottenendolo, un sempre maggiore riconoscimento quale nuova grande potenza.
E l'Europa? In questo G20 ha ottenuto alcuni risultati, anche non marginali: quello che è certo però è che risulta tagliata fuori dall'asse Usa-Cina, asse che si conferma, almeno per il momento, quello vincente, in grado quindi di determinare il prossimo futuro delle politiche economiche (e non solo di quelle) a livello mondiale.
Siamo dunque tornati ad un mondo dove il buon capitalismo regna sovrano, dispensando ai suoi sudditi lavoro e prosperità? Chissà?!
Quello che è certo che proprio durante le giornate del G20, celebrate dalla stampa come il giorno in cui la buona economia ha iniziato a riscrivere le regole della buona finanza, negli Usa, il Financial accounting standards board (Fasb), authority che determina i requisiti della contabilità societaria, ha varato una nuova normativa in base alla quale viene sospeso il "mark-to-market", la norma secondo la quale le banche erano obbligate ad assegnare ai "titoli tossici" posseduti in portafoglio un valore calcolato in base alla loro quotazione di mercato.
Le banche sono quindi ora autorizzate ad attribuire ai loro titoli un "fair value", un valore equo che possono determinare a loro giudizio, anche rivalutandoli, con ovvie ricadute positive sui loro bilanci, riproponendo però gli stessi dubbi sulla loro solvibilità che le avevano condannate poi al fallimento. Come dire, il lupo perde il pelo ma non il vizio.

dalla nostra Redazione Milanese con accento londinese

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