Mentre per le strade della City londinese varie migliaia di
manifestanti, appartenenti ai vari schieramenti, politici,
ambientalisti, terzomondisti o semplicemente incazzati, venivano alle
mani con una polizia non propriamente in linea con lo stile del bobby
anglosassone, in un altro angolo di Londra, nella zona dei Docklands,
al centro Excel, si combatteva un'altra battaglia, ma di ben altro
rilievo.
In quelle sale infatti, 20 capi di stato delle principali nazioni (ed
economie) del globo, si erano riuniti per trovare un accordo che
bilanciasse i rispettivi appetiti e le rispettive paure, ognuno di loro
ben consapevole che da questo braccio di ferro a più mani
sarebbe dipeso il futuro non solo della propria faccia, ma anche della
propria poltrona. Ogni capoccione infatti, partendo aveva lasciato il
rispettivo Paese in preda alle conseguenze di una crisi economica
mondiale che, nel breve giro di un paio di anni, ha sparso per ogni
angolo del mondo sconvolgimenti sociali di cui potremo valutare
l'ampiezza solo nel lungo periodo. Il risultato di un trentennio di
capitalismo selvaggio che aveva euforicamente diffuso in ogni angolo
della terra il mito della fine della storia, della vittoria risolutiva
del capitalismo liberale, quel capitalismo che avrebbe dovuto
distribuire i suoi ricchi doni tra i cittadini produttori/consumatori
plaudenti.
Ed ora che il sogno si è rivelato un incubo, con i cittadini che
iniziano a agitarsi sempre più nervosamente, eccoli qui i
leader, anche loro ormai alquanto nervosi, pronti a lottare l'uno
contro l'altro o in base a schieramenti già formati, per portare
a casa un risultato che sia spendibile nei confronti dei propri
cittadini, senza però che sia messo minimamente in dubbio il
credo nell'attuale sistema economico. Il capitalismo è in
difficoltà, ma non è morto – ci dicono - anzi, se ci date
ascolto, tra breve tornerà a portare benessere e ricchezza per
tutti, che diamine!
Esaminiamo ora in breve quali erano le proposte degli intervenuti:
1) Stimoli fiscali: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna ed il Giappone
proponevano con vigore una azione volta ad erogare al sistema imponenti
fondi statali mentre la Francia e la Germania, anche perché
soggette a stretti vincoli di bilancio secondo gli accordi di
Maastricht, erano dubbiose sulla riuscita in tempi brevi di una simile
operazione e chiedevano, prima di aprire i cordoni della borsa, che si
verificassero i risultati di quanto già speso.
2) Nuove regole per i mercati: la Francia e la Germania chiedevano
un'azione forte nei confronti della finanza d'assalto ed in particolare
degli Hedge Funds (fondi altamente speculativi, già in passato
autori di speculazioni azzardate e deleterie, ma molto remunerative)
mentre il Giappone ne chiedeva la posticipazione
3) FMI: Australia, Canada e Sud Africa erano tra i Paesi che
volevano una forte crescita nei prestiti del Fmi; Russia, Argentina,
Cina, India, Arabia Saudita e altri chiedevano riforme per concedere
alle economie emergenti un maggiore potere di voto all'interno del
fondo.
4) Commercio internazionale: il Brasile e la Gran Bretagna erano
favorevoli alla messa a disposizione di circa 100 miliardi di dollari
in nuove linee di credito per il commercio internazionale.
5) Protezionismo: la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Corea del Sud,
Canada e India avevano chiesto che il G20 assumesse precisi impegni per
l'ulteriore liberalizzazione del commercio.
6) Paradisi fiscali: la Francia e la Germania chiedevano un intervento decisivo.
7) Valuta di riserva: Cina e Russia proponevano una discussione circa
una nuova valuta di riserva globale, che fosse in alternativa al
dollaro americano.
Il risultato finale ha mostrato come tra i vari agguerriti partecipanti
si sia arrivati, alla fine, ad una serie di compromessi: gli stimoli
fiscali non sono obbligatori; ogni Paese quindi potrà agire nei
tempi e termini che meglio crede; verranno imposti nel prossimo futuro
una serie di vincoli e regolamenti sia ai mercati finanziari che ai
principali partecipanti agli stessi (soprattutto gli Hedge Funds e gli
intermediari in prodotti derivati), non escluse le società di
rating, mentre verranno sottoposti a verifica gli emolumenti dei
principali manager; i fondi a disposizione del FMI e Banca Mondiale e
sono stati triplicati fino a 1.000 miliardi di $, da utilizzare per
interventi nei Paesi in crisi, mentre quelli a disposizione del
commercio internazionale mediante linee di credito sono stati elevati a
250 miliardi di $; per quanto riguarda il protezionismo, il Summit ha
stabilito ancora una volta l'impegno di tutti i partecipanti a non
alzare barriere sia al commercio che agli investimenti; in materia di
paradisi fiscali, ci si è limitati ad una bacchettata sulle mani
dei colpevoli, 4 paesi in particolare, Costa Rica, Malaysia, Filippine
e Uruguay, che fanno parte della cosiddetta Lista nera redatta
dall'OCSE, mentre pressioni sono state esercitate sul segreto bancario
svizzero, già ora in via di sgretolamento; infine, circa una
possibile valuta di riserva in alternativa al dollaro USA, dal Summit
non è uscita alcuna decisione.
A conti fatti, si tratta di un copione già visto: mentre si
tappano le falle qua e là nello scafo della nave che rischia di
colare a picco, ogni membro dell'equipaggio si ingegna per salvare i
suoi averi personali e per procurarsi i mezzi che gli consentiranno di
uscire al meglio dal pericolo.
Per questo ogni Paese ed ogni alleanza tra paesi ha prima di tutto tirato l'acqua al suo mulino.
Ad esempio gli USA che, sfoggiando un Presidente nuovo di zecca e per
giunta di colore, seppure da una posizione di sostanziale debolezza
(persi in marzo ben 663.000 posti di lavoro), hanno chiarito ai
dubbiosi presenti che non intendono abdicare al ruolo di Paese
leader del globo.
L'Europa, guidata da Francia e Germania, ha a sua volta mostrato di non
gradire in futuro gli eccessi della finanza statunitense ed ha quindi
chiesto regole certe, mentre ha fortemente puntato i piedi alla
richiesta di Obama di aprire i cordoni della borsa per non correre il
rischio di affondare in una inflazione assolutamente spiacevole.
Dal canto loro, i paesi del terzo mondo emergente, guidati dal Brasile,
hanno invece richiesto fondi per risollevare le sorti delle rispettive
economie e, udite, udite, una maggiore partecipazione alle decisioni
all'interno del Fondo Monetario Internazionale (I soldi li avranno, la
maggiore partecipazione chiaramente no).
Ma questa del G20 è stata anche la prima volta della Cina, il
nuovo invitato che, forte delle sua economia in espansione, seppure al
momento fortemente colpita dal tracollo Usa, ha fatto il suo ingresso
nel salotto buono. E lo ha fatto osando suggerire l'adozione di una
nuova valuta globale di riferimento in alternativa al dollaro Usa,
valuta che dovrebbe basarsi sui cosiddetti diritti speciali di prelievo
FMI, l'unità di conto del FMI, il cui valore viene calcolato su
un paniere di divise nazionali, sulla base del quale viene poi ricavato
un "comune denominatore" detto diritto speciale di prelievo.
Ovvio che tale richiesta, seppure appoggiata dalla Russia, abbia
ottenuto un cortese, ma fermo rifiuto sia da parte degli altri
governanti intervenuti e - soprattutto – da parte della star mondiale
del momento, il divo Obama. "Beh, comunque ci abbiamo provato, abbiamo
compiuto il bel gesto" pare abbia sussurrato Hu Jintao ai suoi
più stretti collaboratori.
Eppure, il 1 aprile, al termine dell'incontro a due Obama-Hu Jintao,
immediatamente denominato "il G2", la dichiarazione congiunta
rilasciata affermava soavemente che "Le due parti concordano di
lavorare assieme per costruire una positiva e cooperativa relazione
globale Stati Uniti-Cina per il 21esimo secolo, e di mantenere e
rafforzare gli scambi a tutti i livelli".
Segno questo che, pur restando gli Usa pervicacemente attaccati al loro
ruolo di leader a dispetto dello sfacelo da loro stessi creato, si
rendono conto che d'ora in avanti dovranno fare i conti con il
loro principale partner commerciale e finanziario anche se questa
liaison dangereuse ben poco li alletta.
E, d'altra parte, anche la Cina deve misurarsi con questo problema,
considerato che, benché abbia in fretta impostato una nuova
politica economica che stimoli al più presto possibile i consumi
interni, è ben conscia che questa svolta avrà bisogno non
di mesi, ma di anni per cominciare a produrre i suoi frutti.
Nel frattempo le due economie sono strettamente avvinghiate in un
abbraccio non propriamente amichevole, visto che la Cina aveva da anni
impostato la propria economia per l'esportazione di beni verso gli Usa,
diventando però nel tempo il principale sottoscrittore di
buoni del tesoro USA e di altre attività, tutte denominate in
dollari e tutte – nella attuale congiuntura - a forte rischio.
Da qui una spiacevole situazione durante la quale i due protagonisti si
sono a lungo scrutati con reciproco sospetto finché, dopo
l'elezione del nuovo presidente Usa, la Cina ha annunciato il suo
impegno a continuare nella sottoscrizione dei treasury bonds americani,
cosa che deve aver fatto tornare ossigeno nelle vene di Obama e dei
suoi uomini.
Quello che potremo quindi osservare nel prossimo futuro – se questa
redazione ha bene interpretato i segnali scaturiti dall'incontro
londinese – sarà una forzata alleanza economico strategica
sino-americana che porterà al ristabilimento di proficue
relazioni commerciali tra i due paesi. La Cina proseguirà nella
strada ora intrapresa, combinando un mix tra le precedenti copiose
esportazioni negli Usa e la nuova politica espansiva all'interno
precedentemente citata, magari concedendo una maggiore fluttuazione
della propria valuta, lo Yuan, al partner, al quale però
chiederà, ottenendolo, un sempre maggiore riconoscimento quale
nuova grande potenza.
E l'Europa? In questo G20 ha ottenuto alcuni risultati, anche non
marginali: quello che è certo però è che risulta
tagliata fuori dall'asse Usa-Cina, asse che si conferma, almeno per il
momento, quello vincente, in grado quindi di determinare il prossimo
futuro delle politiche economiche (e non solo di quelle) a livello
mondiale.
Siamo dunque tornati ad un mondo dove il buon capitalismo regna
sovrano, dispensando ai suoi sudditi lavoro e prosperità?
Chissà?!
Quello che è certo che proprio durante le giornate del G20,
celebrate dalla stampa come il giorno in cui la buona economia ha
iniziato a riscrivere le regole della buona finanza, negli Usa, il
Financial accounting standards board (Fasb), authority che determina i
requisiti della contabilità societaria, ha varato una nuova
normativa in base alla quale viene sospeso il "mark-to-market", la
norma secondo la quale le banche erano obbligate ad assegnare ai
"titoli tossici" posseduti in portafoglio un valore calcolato in base
alla loro quotazione di mercato.
Le banche sono quindi ora autorizzate ad attribuire ai loro titoli un
"fair value", un valore equo che possono determinare a loro giudizio,
anche rivalutandoli, con ovvie ricadute positive sui loro bilanci,
riproponendo però gli stessi dubbi sulla loro solvibilità
che le avevano condannate poi al fallimento. Come dire, il lupo perde
il pelo ma non il vizio.
dalla nostra Redazione Milanese con accento londinese