Umanità Nova, n.14 del 12 aprile 2009, anno 89

G2: una Cina troppo vicina


Sarebbe logico attendersi che l'attuale fase della crisi economica manifesti i suoi peggiori effetti sull'economia degli Stati Uniti, epicentro del terremoto che ha messo in ginocchio la maggior parte delle istituzioni finanziarie del mondo. Strettamente collegate con tale debacle economica vi sono le aspettative circa una implosione della potenza geopolitica degli Usa, conseguenza di un declino economico ormai inarrestabile.
Può essere pertanto sorprendente considerare che, in effetti, le cose non stanno esattamente così. Dal lato economico, benché i problemi degli Stati Uniti siano gravi, vi è però da registrare un rapido e risoluto intervento del governo. L'amministrazione Obama, pur in un contesto convulso, stretta tra promesse elettorali e pressioni delle lobby, ha messo in campo ingenti risorse per cercare di fronteggiare tanto il pericolo di insolvenza delle banche, quanto gli effetti più gravi della recessione. Il quadro appare delineato: il governo americano si farà carico, dilatando il debito federale, sia del salvataggio degli istituti di credito, sia dello stimolo all'economia attraverso la spesa pubblica. Per questo ultimo aspetto, l'accento è stato esplicitamente posto sullo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, con l'obiettivo di ridurre la dipendenza dal petrolio straniero. Si sta puntando sulla ricerca scientifica per vincere una scommessa decisiva contro la fonte energetica più diffusa nel mondo. Se il gioco riuscisse si otterrebbe un risultato eccezionale: gli Usa ribalterebbero la sostanziale sconfitta militare in Iraq e in Afghanistan. Bush aveva attaccato quei paesi per controllare riserve e vie di transito di una materia prima (il petrolio) che però, a questo punto, perderebbe parte della propria importanza. In questo contesto la exit strategy da quei due conflitti, enunciata dal nuovo presidente, acquisterebbe un senso compiuto. Un prezzo del barile collocato stabilmente tra i 40 e i 60 dollari acquisterebbe la valenza di una determinante arma geopolitica contro arabi sunniti, Putin, Chavez e altri allegri compari.
L'impianto sopra descritto può funzionare ad una condizione: le emissioni di titoli di debito del governo federale devono trovare adeguati sottoscrittori. Ossia, occorre qualcuno che sia in grado di prestare denaro "vero" agli Stati Uniti. Alla luce di questo ragionamento acquista rilievo lo scambio di messaggi in corso, nelle ultime settimane, tra Usa e Cina. Alle preoccupazioni cinesi sulla solvibilità dell'America, espresse da Wen Jiabao, si sono affrettati a rispondere i massimi livelli politici ed economici degli Stati Uniti. "I titoli di Stato statunitensi sono un elemento importante nella strategia di investimento a lungo termine delle nostre riserve valutarie. Quindi continueremo ad acquistarli" ha dichiarato Hu Xiaolian, vice governatore della banca centrale cinese. Poi, il suo capo, Zhou Xiaochuan, se ne è uscito proponendo l'adozione di una valuta di scambio sovranazionale non legata all'economia di una singola nazione. È probabile che, dietro queste schermaglie, vi siano trattative in corso tra i due esecutivi per arrivare ad un accordo. Oggi Pechino detiene riserve valutarie per oltre 1900 miliardi di dollari, 740 miliardi dei quali sono in titoli pubblici Usa. La Cina sarebbe lo Stato più danneggiato da un crollo della quotazione del dollaro o dal default degli Stati Uniti, i quali, non va dimenticato, sono anche i maggiori acquirenti delle merci cinesi. Il paradossale risultato è che le due potenze, antagoniste dal punto di vista geopolitico, hanno gli stessi interessi economici e finanziari. È singolare notare la convergenza degli interventi anti congiunturali messi in campo dai due governi: il piano di rilancio cinese prevede massicci investimenti pubblici nelle infrastrutture, l'ampliamento dell'assistenza sanitaria alla popolazione e ingenti stanziamenti a favore della produzione di energia da fonti rinnovabili. Sono gli stessi punti qualificanti della proposta politica di Barak Obama!
Insomma, si sta profilando una sorta di G2 destinato a governare il mondo in questo delicato momento. Non che le contraddizioni tra Usa e Cina siano svanite. Il potere statale è, per sua natura, esclusivo e conflittuale. Però è possibile che, in questa fase così difficile, i due contendenti possano arrivare ad un accordo per evitare uno scontro da cui entrambi avrebbero molto da perdere: da una parte gli Stati Uniti sono azzoppati da una situazione economica e finanziaria al limite del fallimento, dall'altra i governanti cinesi sono ben consapevoli che oggi non sarebbero in grado di sostenere uno scontro militare con gli americani.
Ma allora qual'è l'area economica destinata a soffrire di più dalla crisi in atto? Sorpresa: sì, è proprio la vecchia Europa! Le banche europee hanno acquistato a piene mani i cosiddetti titoli tossici collegati ai mutui subprime americani (ecco spiegato come facevano, fino al 2007, a chiudere bilanci con Roe a due cifre), la rivalutazione dell'euro e la recessione negli Usa stanno mettendo in crisi le imprese esportatrici e poi c'è l'Europa Orientale. L'avevano presentata come la terra promessa per lo sviluppo economico. Imprese e, soprattutto, banche dei paesi dell'area euro si erano gettate in una gara per la conquista di quei mercati. L'effimero boom economico aveva indotto polacchi, ungheresi, bulgari, rumeni, etc. ad indebitarsi per acquistare abitazioni, auto e televisioni. Per pagare tassi di interesse minori era stato loro suggerito di chiedere prestiti denominati in valute forti, per lo più euro e franco svizzero. Scelta astuta! Fino a quando, a partire dalla seconda metà del 2008, le monete degli Stati ex socialisti hanno cominciato a svalutarsi pesantemente rispetto a quelle dei paesi dell'Europa Occidentale. Risultato? Il valore in valuta locale dei debiti contratti dalle famiglie è aumentato a dismisura (ma, ovviamente, non i loro redditi) e la gente non ce la fa più a pagare le rate alle banche, che nel frattempo erano state quasi tutte acquistate da istituti occidentali (tedeschi, italiani, austriaci, francesi) e adesso non sanno come far quadrare i loro conti. Le nazioni dell'ex blocco sovietico sono così diventate il terreno di coltura del "subprime europeo".
A complicare le cose contribuiscono la litigiosità dei capi di stato europei e la contrapposizione dei diversi presunti interessi nazionali. Fattori che hanno impedito qualsiasi effettivo coordinamento degli interventi sia di salvataggio delle banche, sia di stimolo alla congiuntura. Come all'atto dello scoppio della guerra in Iraq, l'Unione è esplosa e ognuno se ne sta andando per la sua via. Ancora una volta, di fronte ad una grave crisi, l'Unione Europea si è rivelata una creatura fragile ed evanescente. Certo, la statura degli uomini politici del vecchio continente non regge il confronto con quella del nuovo presidente degli Stati Uniti, così come la preparazione della classe politica del vecchio continente non è paragonabile a quella della dirigenza cinese. Ma va anche rilevato come fino ad oggi le stesse popolazioni europee, in particolare quella italiana, abbiano mostrato una debole capacità di azione, spesso orientata più dalla paura (in questa chiave si spiega il successo di forze politiche xenofobe e reazionarie) che non dalla volontà di riprendere in mano il proprio destino.

T. Iero

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