Sarebbe logico attendersi che l'attuale fase della crisi economica
manifesti i suoi peggiori effetti sull'economia degli Stati Uniti,
epicentro del terremoto che ha messo in ginocchio la maggior parte
delle istituzioni finanziarie del mondo. Strettamente collegate con
tale debacle economica vi sono le aspettative circa una implosione
della potenza geopolitica degli Usa, conseguenza di un declino
economico ormai inarrestabile.
Può essere pertanto sorprendente considerare che, in effetti, le
cose non stanno esattamente così. Dal lato economico,
benché i problemi degli Stati Uniti siano gravi, vi è
però da registrare un rapido e risoluto intervento del governo.
L'amministrazione Obama, pur in un contesto convulso, stretta tra
promesse elettorali e pressioni delle lobby, ha messo in campo ingenti
risorse per cercare di fronteggiare tanto il pericolo di insolvenza
delle banche, quanto gli effetti più gravi della recessione. Il
quadro appare delineato: il governo americano si farà carico,
dilatando il debito federale, sia del salvataggio degli istituti di
credito, sia dello stimolo all'economia attraverso la spesa pubblica.
Per questo ultimo aspetto, l'accento è stato esplicitamente
posto sullo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, con
l'obiettivo di ridurre la dipendenza dal petrolio straniero. Si sta
puntando sulla ricerca scientifica per vincere una scommessa decisiva
contro la fonte energetica più diffusa nel mondo. Se il gioco
riuscisse si otterrebbe un risultato eccezionale: gli Usa
ribalterebbero la sostanziale sconfitta militare in Iraq e in
Afghanistan. Bush aveva attaccato quei paesi per controllare riserve e
vie di transito di una materia prima (il petrolio) che però, a
questo punto, perderebbe parte della propria importanza. In questo
contesto la exit strategy da quei due conflitti, enunciata dal nuovo
presidente, acquisterebbe un senso compiuto. Un prezzo del barile
collocato stabilmente tra i 40 e i 60 dollari acquisterebbe la valenza
di una determinante arma geopolitica contro arabi sunniti, Putin,
Chavez e altri allegri compari.
L'impianto sopra descritto può funzionare ad una condizione: le
emissioni di titoli di debito del governo federale devono trovare
adeguati sottoscrittori. Ossia, occorre qualcuno che sia in grado di
prestare denaro "vero" agli Stati Uniti. Alla luce di questo
ragionamento acquista rilievo lo scambio di messaggi in corso, nelle
ultime settimane, tra Usa e Cina. Alle preoccupazioni cinesi sulla
solvibilità dell'America, espresse da Wen Jiabao, si sono
affrettati a rispondere i massimi livelli politici ed economici degli
Stati Uniti. "I titoli di Stato statunitensi sono un elemento
importante nella strategia di investimento a lungo termine delle nostre
riserve valutarie. Quindi continueremo ad acquistarli" ha dichiarato Hu
Xiaolian, vice governatore della banca centrale cinese. Poi, il suo
capo, Zhou Xiaochuan, se ne è uscito proponendo l'adozione di
una valuta di scambio sovranazionale non legata all'economia di una
singola nazione. È probabile che, dietro queste schermaglie, vi
siano trattative in corso tra i due esecutivi per arrivare ad un
accordo. Oggi Pechino detiene riserve valutarie per oltre 1900 miliardi
di dollari, 740 miliardi dei quali sono in titoli pubblici Usa. La Cina
sarebbe lo Stato più danneggiato da un crollo della quotazione
del dollaro o dal default degli Stati Uniti, i quali, non va
dimenticato, sono anche i maggiori acquirenti delle merci cinesi. Il
paradossale risultato è che le due potenze, antagoniste dal
punto di vista geopolitico, hanno gli stessi interessi economici e
finanziari. È singolare notare la convergenza degli interventi
anti congiunturali messi in campo dai due governi: il piano di rilancio
cinese prevede massicci investimenti pubblici nelle infrastrutture,
l'ampliamento dell'assistenza sanitaria alla popolazione e ingenti
stanziamenti a favore della produzione di energia da fonti rinnovabili.
Sono gli stessi punti qualificanti della proposta politica di Barak
Obama!
Insomma, si sta profilando una sorta di G2 destinato a governare il
mondo in questo delicato momento. Non che le contraddizioni tra Usa e
Cina siano svanite. Il potere statale è, per sua natura,
esclusivo e conflittuale. Però è possibile che, in questa
fase così difficile, i due contendenti possano arrivare ad un
accordo per evitare uno scontro da cui entrambi avrebbero molto da
perdere: da una parte gli Stati Uniti sono azzoppati da una situazione
economica e finanziaria al limite del fallimento, dall'altra i
governanti cinesi sono ben consapevoli che oggi non sarebbero in grado
di sostenere uno scontro militare con gli americani.
Ma allora qual'è l'area economica destinata a soffrire di
più dalla crisi in atto? Sorpresa: sì, è proprio
la vecchia Europa! Le banche europee hanno acquistato a piene mani i
cosiddetti titoli tossici collegati ai mutui subprime americani (ecco
spiegato come facevano, fino al 2007, a chiudere bilanci con Roe a due
cifre), la rivalutazione dell'euro e la recessione negli Usa stanno
mettendo in crisi le imprese esportatrici e poi c'è l'Europa
Orientale. L'avevano presentata come la terra promessa per lo sviluppo
economico. Imprese e, soprattutto, banche dei paesi dell'area euro si
erano gettate in una gara per la conquista di quei mercati. L'effimero
boom economico aveva indotto polacchi, ungheresi, bulgari, rumeni, etc.
ad indebitarsi per acquistare abitazioni, auto e televisioni. Per
pagare tassi di interesse minori era stato loro suggerito di chiedere
prestiti denominati in valute forti, per lo più euro e franco
svizzero. Scelta astuta! Fino a quando, a partire dalla seconda
metà del 2008, le monete degli Stati ex socialisti hanno
cominciato a svalutarsi pesantemente rispetto a quelle dei paesi
dell'Europa Occidentale. Risultato? Il valore in valuta locale dei
debiti contratti dalle famiglie è aumentato a dismisura (ma,
ovviamente, non i loro redditi) e la gente non ce la fa più a
pagare le rate alle banche, che nel frattempo erano state quasi tutte
acquistate da istituti occidentali (tedeschi, italiani, austriaci,
francesi) e adesso non sanno come far quadrare i loro conti. Le nazioni
dell'ex blocco sovietico sono così diventate il terreno di
coltura del "subprime europeo".
A complicare le cose contribuiscono la litigiosità dei capi di
stato europei e la contrapposizione dei diversi presunti interessi
nazionali. Fattori che hanno impedito qualsiasi effettivo coordinamento
degli interventi sia di salvataggio delle banche, sia di stimolo alla
congiuntura. Come all'atto dello scoppio della guerra in Iraq, l'Unione
è esplosa e ognuno se ne sta andando per la sua via. Ancora una
volta, di fronte ad una grave crisi, l'Unione Europea si è
rivelata una creatura fragile ed evanescente. Certo, la statura degli
uomini politici del vecchio continente non regge il confronto con
quella del nuovo presidente degli Stati Uniti, così come la
preparazione della classe politica del vecchio continente non è
paragonabile a quella della dirigenza cinese. Ma va anche rilevato come
fino ad oggi le stesse popolazioni europee, in particolare quella
italiana, abbiano mostrato una debole capacità di azione, spesso
orientata più dalla paura (in questa chiave si spiega il
successo di forze politiche xenofobe e reazionarie) che non dalla
volontà di riprendere in mano il proprio destino.
T. Iero