Mentre in molti paesi europei gli studenti universitari si stanno
mobilitando contro il cosiddetto "Processo di Bologna", in Italia di
questo processo non si parla quasi mai, neppure nell'ambito dei
movimenti studenteschi nati nelle università italiane in
autunno. Il che suona strano, dal momento che lo stato italiano
è stato uno dei suoi più accaniti sostenitori.
L'applicazione di questo processo in Italia è iniziata con la
riforma Berlinguer-Zecchino del 1999, con la quale vennero istituiti il
3+2 e i crediti formativi, ed è continuato con tutta una serie
di leggi e riforme, fino all'attuale ddl.1387, che attende di passare
in parlamento, e che prevede un ulteriore inasprimento dei contributi
studenteschi, la centralizzazione del potere e l'aumento dell'influenza
del mondo finanziario ed imprenditoriale all'interno degli atenei.
All'implementazione di questo processo hanno contribuito tutti i
governi che si sono succeduti, siano stati di destra o di sinistra.
Il processo di Bologna è nato da un accordo non vincolante a
livello europeo (la dichiarazione di Bologna del 1999), sulla base del
quale sono state attuate riforme del sistema di educazione superiore in
tutti i paesi firmatari. Le riforme sono state portate avanti con
caratteristiche diverse e in tempi diversi a seconda del paese, ma
dovunque hanno suscitato polemiche e proteste da parte degli studenti.
Lo scopo dichiarato del processo di Bologna è quello di
"modernizzare" e "armonizzare" i diversi sistemi di educazione
superiore, con la creazione dell'Area Europea di Educazione Superiore
(European Higher Education Area), per promuovere la mobilità e
la competitività internazionale. Attualmente partecipano al
processo (che dovrebbe concludersi entro il 2010) 46 paesi, con il
sostegno di alcune organizzazioni internazionali.
I ministri si riempiono la bocca di belle parole e presentano il
processo di Bologna come una meravigliosa occasione per migliorare le
università europee, ma dietro la loro retorica si cela un
disegno subdolo che sta affossando i principi stessi che i ministri
dicono di voler promuovere.
Per comprendere meglio la questione bisogna però considerare
anche il contesto nel quale il processo si è sviluppato. Non
bisogna infatti pensare che la questione sia limitata unicamente
all'università: il processo di Bologna si inserisce all'interno
di un attacco generalizzato contro i servizi pubblici, iniziato con i
GATS e proseguito attraverso la strategia di Lisbona.
Il GATS (Accordo Generale sul Commercio dei Servizi) è un
accordo firmato dal WTO nel 1995, con il quale 151 Stati si sono
accordati per "liberalizzare il commercio dei servizi". Tra questi
servizi molti paesi, compresa l'UE, hanno scelto di inserire anche i
servizi educativi.
La strategia di Lisbona, invece, è un piano di azione di
più ampio respiro delineato dal Consiglio Europeo nel 2000, con
il quale si sottolinea, tra le altre cose, la necessità che gli
investimenti nel campo dell'educazione avvengano solo a condizione che
gli istituti dimostrino di essere produttivi, efficaci e utili alla
"società" (rappresentata in questo caso solo dal mondo politico
ed imprenditoriale).
Non c'è quindi da meravigliarsi se oggi, a 10 anni di distanza
dall'inizio di questo processo, le istituzioni universitarie europee
siano organizzate in maniera tale da favorire l'aziendalizzazione e le
privatizzazioni a scapito del diritto allo studio, della
mobilità e dell'educazione di qualità.
I cardini sui quali ruota il Processo di Bologna sono: l'introduzione
dei crediti formativi, la strutturazione dell'istruzione superiore su
tre cicli e la cooperazione europea nella valutazione della
qualità delle università.
I crediti universitari dovrebbero venir introdotti in ogni paese sul
modello del sistema ECTS (Sistema Europeo di Trasferimento e Accumulo
di Crediti), al fine di promuovere la mobilità internazionale
degli studenti. Di fatto, in Italia, da quando sono stati introdotti
hanno avuto l'effetto esattamente opposto, complicando ulteriormente i
passaggi da un corso ad un altro e da un ateneo all'altro.
Inoltre questo sistema dovrebbe favorire l'apprendimento permanente o
"lifelong learning", concetto particolarmente ricorrente nell'ambito
della riforma Moratti del 2002, e che vorrebbe equiparare i diplomi
conseguiti nelle università statali con qualsivoglia esperienza
presso un istituto privato.
L'istruzione superiore si dovrebbe articolare su tre cicli: il
"bachelor" (la nostra laurea triennale), il master (corso di
specializzazione) e il PhD (il nostro dottorato, una sorta di "limbo"
nel quale non si è considerati né studenti né
lavoratori). Nella categoria di "master", così come viene
definito nella dichiarazione di Bologna, possono rientrare sia la
nostra laurea specialistica (che sembra essere una peculiarità
italiana) sia uno dei tanti master propriamente detti, con costi
esorbitanti e ore di lavoro obbligatorie non retribuite.
Il sistema di valutazione andrebbe quindi ad inserirsi in un contesto
di frammentazione del sapere, che risulta così già
dequalificato e più utile a fornire quel nozionismo e quel
know-how che servono ai datori di lavoro, piuttosto che a trasmettere
sapere per formare cittadini attivi e consapevoli.
Dato che gli obbiettivi perseguiti dai governi dei vari paesi
convergono, anche tra le rivendicazioni degli studenti si possono
delineare dei punti comuni.
Quello che gli studenti contestano è la sempre più
accentuata tendenza ad una organizzazione aziendale e manageriale delle
università e la selezione sempre più spinta degli
studenti sulla base del censo.
L'autonomia finanziaria delle singole università vincola,
infatti, l'erogazione dei fondi a criteri aziendali: le
università devono dimostrare di essere "produttive" per
competere per i fondi pubblici, oppure andare alla ricerca di fondi
privati.
Il potere negli atenei viene sempre più centralizzato,
aumentando i poteri dei rettori a scapito degli organi collegiali, e i
rapporti tra università e imprese vengono favoriti in diversi
modi, anche attraverso l'inserimento di rappresentanti del mondo
finanziario ed imprenditoriale negli organi decisionali di ateneo.
Le tasse vengono istituite nei paesi dove prima non esistevano, mentre
negli altri si tende a sostituire le borse di studio con i prestiti
d'onore (soldi che vanno quindi restituiti). A ciò si affianca
l'introduzione di master costosissimi, a volte vincolanti per poter
esercitare una determinata professione, per i quali, in genere,
è quasi impossibile ottenere una borsa di studio.
Del resto un obiettivo dichiarato della strategia di Lisbona consiste
nel sostituire sempre più i finanziamenti statali con quelli
delle imprese e degli studenti. Svincolato dalla competenza statale il
sistema educativo sarà così molto più semplice da
inserire nella rete del libero commercio.
Ogni due anni i Ministri dell'Istruzione dei paesi firmatari si
incontrano per valutare i risultati raggiunti e stabilire le
priorità per il biennio successivo. La prossima Conferenza
Ministeriale si terrà a Louvain/Leuven (Belgio) il 29 aprile
2009. Studenti da diversi paesi europei si stanno organizzando per
confrontarsi in un contro-vertice nei giorni immediatamente precedenti
il summit, per poi dar vita a manifestazioni di piazza. L'obiettivo
è quello di contrastare l'aziendalizzazione delle
università e la commercializzazione del sapere, e difendere il
diritto per tutti ad una educazione libera e di qualità.
Valentina
Alcuni riferimenti utili:
http://movimiento.noabolonia.org/index.php
http://www.emancipating-education-for-all.org
http://www.vagueeuropeenne.fr/?lang=it