Umanità Nova, n.15 del 19 aprile 2009, anno 89

Greenpeace. L'ambiguità di una o.n.g


Con quasi quaranta anni di esperienza e con sedi fisse in quaranta paesi nel mondo, Greenpeace si dimostra la multinazionale eco-pacifista più famosa del pianeta. In una prospettiva di liberazione socio-ambientale, alcune riflessioni critiche sulle pratiche e sulle modalità d'azione di questo gigante dell'ambientalismo.

Con 2,8 milioni di donatori, tra comuni cittadini e enti no-profit, l'associazione non accetta fondi né da governi, né da grandi aziende per mantenere la sua indipendenza e imparzialità. E' tuttavia inserita agiatamente nel mercato mondiale e ne è soggetta alle leggi e alle logiche di vendita. Questa sua caratteristica di rimanere con un piede nelle lotte ambientaliste, con azioni e quant'altro, e l'altro nei salotti di contrattazione dei governi e delle grandi aziende, seppur per lo sviluppo delle tecnologie verdi e per la salvaguardia dell'ambiente, la legano senza condizioni a quel sistema capitalistico generante di tutte le problematiche contro le quali essa stessa si batte. L'azione di Greenpeace si basa su poche, ma fondamentali tematiche tra cui la lotta contro il nucleare, il carbone, l'uso di ogm, la deforestazione e altre ancora. E' ormai noto che la politica del gruppo è incentrata sulla messa in scena di grandi azioni spettacolari con lo scopo di attrarre il più possibile l'attenzione dei media su particolari tematiche mettendo di fronte ai cittadini l'evidenza della scelleratezza di determinate scelte politico/ambientali. Queste azioni possono essere complesse e pericolose e ogni attivista viene rifornito di tutto il materiale e la preparazione tecnica necessaria alla sua buona riuscita. Dai costumi alle attrezzature da scalata, ogni dettaglio viene organizzato e finanziato in modo da non lasciare nulla al caso e riducendo al minimo i rischi. Vista dall'esterno Greenpeace può sembrare il non plus ultra della lotta ambientalista e pacifista e destare fremiti di protagonismo nel comune attivista che vorrebbe andare alla riscossa a bordo di un gommone, all'assalto delle malefiche multinazionali, imbrattando di vernice le petroliere, solcando gli oceani o incatenandosi con i compagni ad una centrale nucleare. Ma al di là del desiderio eroico di lottare in prima persona, ai risalti della cronaca, c'è una realtà estremamente verticalizzata che costringe il campo d'azione ad una cerchia di tematiche molto ristretta, minimizzando l'iniziativa locale e rapportandosi con i singoli attivisti con criteri non diversi da quelli che possiamo trovare tra un operaio e un buon datore di lavoro. Dalla sede centrale di Amsterdam partono le decisioni dei vertici su ogni argomento, dalle campagne da seguire ai metodi d'azione, e arrivano fino ai gruppi locali, dislocati un po' in tutto il mondo, che rendono pratiche, nei territori, le decisioni prese dall'alto. Ogni gruppo locale lavora all'incirca sulle stesse tematiche e il metodo è "l'unione fa la forza" e potrebbe essere buono se non per alcuni essenziali difetti che ne depotenziano l'effetto. Greenpeace, ad esempio, non tiene minimamente conto dei problemi delle realtà locali, delle piccole e grandi disgrazie politico/ambientali delle singole comunità nelle quali è insediata. In questi tempi assurdi in cui già è difficile travalicare le aree estremiste con temi come l'ecologia e l'ambiente, Greenpeace evita di combattere le battaglie delle singole comunità, che sono quelle che più ci stanno a cuore, che ci toccano da vicino, che ci fanno sentire parte della lotta. Da qui, è facile capire come una realtà così eco-pacifista non si sia radicata nelle miriadi di comunità in lotta in giro per il mondo. E chiaro infatti che difficilmente Greenpeace avrà grande agibilità nel proporre le sue tematiche ai cittadini di Napoli che sopporteranno l'ennesima megadiscarica tra scandali di amianto e regime militare. Allo stesso modo sarà difficile consolidare a Vicenza un gruppo locale di fronte al silenzio di Greenpeace sulla devastazione ambientale (…per non parlare dei risvolti politici) che avverrà al Dal Molin. Lo stesso per i milanesi che avranno il loro bel da fare per riuscire a cementificarsi completamente entro l'inaugurazione dell'Expo 2015. E gli esempi si sprecano sulle molteplici  sciagure ambientali che devastano territori finora snobbati da Greenpeace. E' chiaro come un'organizzazione di tale portata economica potrebbe facilmente collegarsi con tutte le comunità in lotta nel mondo creando un sistema di contestazione e di mutuo appoggio molte volte superiore alle sue attuali forze. Purtroppo però la politica del gruppo non prevede il richiamo all'azione cittadina, alla sensibilizzazione delle masse, alla collaborazione con il resto del mondo dell'associazionismo. Manca un chiaro riferimento alla partecipazione popolare per la risoluzione dei problemi ambientali e di conseguenza, di fronte all'impossibilità pratica di bloccare cantieri con gesti eclatanti e risalti di cronaca, manca quel background cittadino che con l'azione diretta può continuare le mobilitazioni e le azioni. Manca una chiara correlazione tra le cause e le conseguenze dei problemi che si vogliono affrontare. E' infatti palese come siano sempre i soldi ed il potere a giustificare le scelte politiche più scellerate come l'uso del nucleare e del carbone. E dietro certe scelte ci sono nomi e cognomi che agiscono sempre e solo per potere e profitto. Nomi e governi contro i quali difficilmente si scaglierà la multinazionale verde. Attraverso l'uso di un mero ecologismo, sempre eclatante e mai approfondito, si crea una sensazione di distacco tra il problema affrontato e le persone che lo hanno creato. Problema, quest'ultimo, generante di risvolti psicologici non trascurabili come il profondo senso di impotenza e di distanza nei confronti delle tematiche affrontate. Non possiamo giudicare in un contesto separato la lotta ecologista dalle altre lotte perché ognuna fa parte di un grande percorso di liberazione che, se incompleto, tenderà a ricreare i medesimi conflitti.

Marco Rizzato

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