È da lontano (Venezia) che ci ritorna un messaggio nella
bottiglia partito da dietro casa. Potremmo facilmente citare il senno
di poi e il piangere sul latte versato, ma mi sembra una troppo facile
retorica. Dato per scontato tutto ciò che ha diviso e divide il
sentire anarchico da quello extraparlamentare di anni ormai passati e
quello extraparlamentare dell' oggi e fortunatamente passerà
anche questa pioggia sottile (e il governo che comporta). La
sottigliezza della bestia strisciante, se non ci coglie di sorpresa,
comunque non è stata evitata né contrastata da adeguate
pratiche sociali (comuniste/libertarie) da nessuna componente,
ahimè, la nostra compresa. Quello che è sicuro è
che non si può certo stare ad aspettare che passi, alla Charlie
Brown, ma è indispensabile riannodare nella società,
senza curarsi delle istituzioni, tanto poco credibili da non escludere
che qualcuno possa ritenere a buona ragione di restaurare il suo potere
temporale. Così ci troveremmo, slittamenti progressivi del
potere a prima del 1860. Ma si sa la storia non è una cometa che
passa e va. E riemerge anche di sotto le più fosche revisioni e
negazioni. E l'odio è sicuramente meno importante del disgusto e
della nausea. Prendiamo allora atto che almeno questo poco è
chiaro, e non basta un ballo mascherato per riabilitare quelle stesse
istituzioni fuggitive, ma con le tasche piene, che tornano a pietire in
sembianze di vittime emarginate, di custodi della "sicurezza" e via di
seguito. Si comincia con un mi consenta... per fare impallidire anche i
cavallerizzi del passato. Non posso che augurare che Savino Pezzotta
sia d'accordo con le rose bianche. È altresì certo, come
dice mia nipote quindicenne, che il fascismo e lo stalinismo sono ormai
cose vecchie, ma questo era vero anche quando quindici anni li avevo
io. Il confronto tra il modello sociale autoritario e quello libertario
sarà sempre davanti a noi. Ma quale dei sistemi è il meno
bestiale (o magari solo scimmiesco, perché coinvolgere le amebe
nei limiti degli umani)? È qui che si delinea la discriminante:
di classe, popolare o sociale che dir si voglia.
Il problema è allora neppure da che parte stare, ma se vogliamo
vedere qualcosa di ancora peggio di quanto si è già visto.
Tommaso Aversa
Le Ardeatine e il suicidio della memoria
Sotto un cielo severo si è consumato il dolore più
grande. Sgomenti, i familiari e i compagni delle Ardeatine, hanno
assistito alla rappresentazione più dura della sconfitta. Tina
singhiozzava ben oltre il suo austero senso del pudore, Carlo si
è accasciato al suolo, i brividi, le punture di spillo ripetute
sei volte sul ricordo della strage dei Di Consiglio. Chiusa dentro un
recinto la comunità di dolore invecchiata e stanca ha assistito
alla commemorazione istituzionale presenziata da Fini, La Russa e il
sindaco Alemanno. Una distanza siderale tra le ragioni, le paure, i
tormenti e le ambizioni dei 335 e l'omaggio formale e militare dei
rappresentanti dello stato e della città.
Ancora più palese la contraddizione tra il ricordo senza pace e
la militarizzazione della memoria. Questa odiosa invasione del campo
civile da parte militare valeva ieri e vale oggi.
Ma oggi il colpo allo stomaco arriva dalla nostra inadeguatezza, dalla
nostra superficialità, il colpo che fa male, che riga il volto
di lacrime lente, arriva dall'incapacità tutta nostra di non
essere riusciti a mettere in salvo la memoria più preziosa, di
non essere stati capaci di preservare con cura e determinazione la
storia dei padri.
Abbiamo consegnato il nostro onore ai nemici di un tempo, gli abbiamo
consegnato le nostre storie, il coraggio e le parole e siamo qui a
pregare affinché ne facciano buon uso.
La sinistra si ritrova sgomenta e muta sul prato delle Ardeatine.
Plurale, divisa, distorta e malconcia si specchia nel suo fallimento
nel luogo più sacro, nel posto dell'anima, principio e fine di
ogni liberazione.
Provo dolore ma anche vergogna, provo disgusto per le modalità
sguaiate con cui spesso abbiamo calpestato le memorie più care,
magari in nome dell'innovazione o dell'identità.
Che vergogna compagni, appesi al buonsenso del presidente della Camera e all'onore delle armi che non si nega agli sconfitti.
Il 24 marzo è inciso nella mia memoria famigliare e in quella
politica, ho imparato a camminare, a correre, ad odiare e ad avere
paura frequentando con mia nonna le cave, ho visto piangere e lottare i
famigliari delle vittime che hanno resistito alle provocazioni, alle
leggende metropolitane, alle contrapposizioni, alla fuga di Kappler e
all'oblio della memoria.
Il 24 marzo 2009 è per me, per noi, il giorno più triste,
abbiamo giocato a palla con la giara dei mali, contribuendo alla
diffusioni dei suoi umori più neri senza nemmeno sentire il
dovere di mostrare le stigmate della responsabilità. Che brutta
sinistra, la storia consegna il conto a noi che non eravamo pronti
neanche a far di conto con la cronaca.
Ieri, 23 marzo, c'era il sole e il cielo si è colorato di tanti
palloncini con i nomi dei martiri grazie alla volontà di
insegnanti e ragazzi di una comunità resistente come quella del
municipio XI e del suo presidente.
Ieri Sara, 7 anni a giugno, mi ha insegnato che la memoria può
avere un colore diverso dal rosso, può avere la dignità
di una rosa bianca, gomitolo di essenzialità, appoggiata con
cura accanto alla foto di Enrico Mancini, partigiano dal volto gentile,
sangue del nostro sangue. Mi ha spiegato che bianco è meglio del
rosso e che una carezza capace di accompagnare la foto è meglio
di un saluto militare e di un pugno chiuso. Ho fatto fatica ma ho
deciso di farmi guidare da mia figlia, ha il cuore più grande
del mio e nutre il suo ricordo per il gusto di farlo senza concedere
nulla al nemico, neanche il suo odio. E forse proprio per questo il suo
viaggio sarà più fortunato del nostro.
Massimiliano Smeriglio