Tra una biblioteca e un archivio
ci è capitato tra le mani un numero di "Pagine Libertarie",
quindicinale milanese pubblicato dal 1921 al 1923, redatto da Carlo
Molaschi, probabilmente uno dei compagni più lucidi nel
movimento. Affidiamo alla sua penna la ricostruzione storica delle
origini del Primo Maggio. Si noterà nella prima parte dello
scritto la sensazione di stare cadendo nell'"abisso": non a caso il
periodico sarà costretto a chiudere meno di un anno più
tardi a causa delle vessazioni fasciste.
Frammenti di storia
Le forche di Chicago
E' bello, oggi che la reazione si abbatte violentemente su di noi,
rievocare le più forti pagine della nostra storia. Riandare nel
passato quando lo spirito rivoluzionario non si era ancora corrotto nel
parlamentarismo, quando la lotta di classe si affermava rigida senza
compromessi e senza transazioni, quando gli uomini si votavano alla
causa con animo sereno e sicuro. In quei tempi il Primo Maggio non era
giornata di festa, ma era giorno di lotta. Oggi questa data ha perso il
suo alto significato rivoluzionario ed il suo carattere di minaccia per
diventare festa ufficiale... Una festa triste, però, celebrata
fra canti sommessi e senza tripudio di bandiere.
Il socialismo si è corrotto attraverso il riformismo. La sua
gagliardia di un tempo si è spenta e contro la reazione
furibonda che oggi lo investe non sa trovare un impeto di energia
decisa, uno slancio di volontà, un attimo di ribellione.
Subisce, in attesa che l'uragano passi, nella fallace speranza che il
mondo borghese si ricreda delle infamie che commette e che la storia,
fatalmente, faccia giustizia di tutto.
Eppure il Primo Maggio è nato da una tragedia. Quattro forche
dalle quali pendono i corpi inerti di quattro proletari, si drizzano
sulla loro culla e stanno rigide e fosche come atto d'accusa e come
richiamo. Intorno a queste forche, vi è tutta una storia di
lotte, di patimenti, di dolori, di speranze... Quattro impiccati:
quattro martiri nostri caduti serenamente per la buona causa!
L'immenso fragore della bomba di Haymarket, la reazione pazzesca e
feroce che ne seguì, la tragedia del processo di Chicago, la
condanna inesorabile dei nostri compagni innocenti, non sono fatti che
si cancellano. Noi ricordiamo sempre perché giustizia non
venne ancor fatta, perché la storia che passa lascia dietro di
sé una scia di rancori e di dolori... Per questo diciamo che
fino a quando la classe borghese sarà al potere per noi il Primo
Maggio non sarà mai giorno di festa. Lasciamo godere gli altri,
coloro che credono di arrivare alla giustizia attraverso la legge, gli
incoscienti che s'illudono di poter essere uomini sotto la sferza del
padrone che sfrutta e comanda, coloro che sanno adattarsi a tutte le
rinunce.
Il Primo Maggio per noi non è giorno di festa; vorremmo fosse
giorno di battaglia; vorremmo fosse una data paurosa... Se così
non può essere sia almeno un giorno di raccoglimento. E colla
mente rievochiamo le pagine della storia passata perché
l'eroismo dei nostri precursori sia di sprone e di conforto, ci sollevi
dal buio abisso nel quale viviamo ora, e ci porti in alto verso la luce
radiosa dell'Idea (...)
Ai primi di maggio del 1886 le masse lavoratrici di Chicago erano
in agitazione. Il Congresso delle Unioni Federate, tenuto nell'ottobre
dell'anno precedente, aveva stabilito che la giornata di lavoro di otto
ore si sarebbe inaugurata il primo maggio 1886, ed i lavoratori di
Chicago volevano mantenere fede al deliberato. Non bisogna dimenticare
che la stampa andava montando un ambiente ostile ai lavoratori,
presagendo tumulti sanguinosi e irreparabili disastri. Industriali e
commercianti non nascondevano la loro avversione all'agitazione
operaia, e la polizia, ubbidiente agli ordini ricevuti dall'alto,
inferociva con ogni sopruso contro tutte le manifestazioni degli
scioperanti. Le giornate dell'1, 2 e 3 maggio passarono tra un
susseguirsi di comizi e di cortei, sempre dispersi brutalmente dalla
polizia. Nel pomeriggio del 3 le operazioni per la tutela dell'ordine
pubblico divennero ancora più violente. Nei pressi delle
officine Cormick si erano radunate alcune migliaia di operai polacchi e
boemi ai quali parlò Augusto Spies direttore d'un giornale
rivoluzionario che si pubblicava in Chicago in lingua tedesca.
Mentre l'oratore parlava irruppe sulla folla degli ascoltatori una
squadra di poliziotti capitanata dall'ispettore Giovanni Bonfield, noto
per il suo spirito reazionario e per la ferocia colla quale
maltrattò sempre i sovversivi. Nacque un conflitto furibondo. I
poliziotti randellarono i radunati senza pietà e scaricarono le
loro armi ferendo una quantità enorme di operai ed uccidendone
quattro. L'eccidio sollevò grande indignazione fra i lavoratori,
e il giorno seguente, quando lo stesso Bonfield con gli stessi
poliziotti tentarono di ripetere la stessa feroce impresa in un altro
comizio che si teneva in località Haymarket, un operaio
lanciò contro loro una bomba che, scoppiando con fragore immenso
proprio in mezzo al gruppo degli assalitori, seminò una strage
spaventosa. Più di sessantotto poliziotti rimasero sul terreno o
morti o gravemente feriti.
Occhi per occhio, dente per dente!
La reazione che seguì fu terribile. Centinaia e centinaia di
persone furono tradotte in carcere, percosse, maltrattate, seviziate in
mille modi. Vennero così le "confessioni" e la polizia
annunciò di avere scoperto un vasto e terribile complotto
anarchico.
Dopo molti giorni di arresti, di perquisizioni, di prepotenze la
polizia che promise la rivelazione sensazionale, incapace di scoprire
il lanciatore della bomba e impotente a sostenere la tesi del
complotto, decise di rilasciare tutti i prigionieri meno quelli che
erano stati strettamente legati all'agitazione operaia per le otto ore,
e su questi imbastì il processo. Così Augusto Spies,
Michele Schwab, Adolfo Fischer, Luigi Lingg, Samuele Fielden, Giorgio
Engel, Oscar Neebe e Alberto Parsons – quest'ultimo latitante, ma
presentatosi poco dopo per subire il giudizio perché sicuro
della sua innocenza – vennero denunciati e processati come responsabili
del lancio della bomba di Haymarket.
Siccome la borghesia nord-americana voleva ad ogni costo che contro gli
imputati e i loro difensori si procedesse con severità inaudita,
si trovò il modo di montare il processo nel modo più
scandaloso. Il processo durò otto settimane e mentre nell'aula
della giustizia gli imputati e i loro difensori battagliavano contro il
presidente che conduceva il processo in modo troppo ostile agli
imputati e contro la giuria che non aveva nascosto che a priori aveva
già deciso un verdetto d'implacabile condanna, fuori dall'aula
la stampa lavorava conducendo una formidabile campagna anti-anarchica.
Fu perfino iniziata una pubblica sottoscrizione che salì a 100
m.la dollari per compensare i giurati che dovevano pronunciare!
Ed il verdetto rispose alle esigenze della borghesia: sette imputati
vennero condannati al capestro e uno solo, il Neebe, venne condannato a
quindici anni di carcere.
Dal giorno della condanna a quello dell'esecuzione passarono
quattordici mesi, durante i quali gli avvocati continuarono la
battaglia legale attraverso tutti i ricorsi giuridici sino alla Suprema
Corte degli Stati Uniti, mentre una forte corrente di lavoratori
coll'ausilio di parecchi intellettuali tentò di creare una forte
agitazione in favore dei condannati. Ma tutto fu vano, ed il 10
novembre l'autorità giudiziaria notificò ai condannati
che l'esecuzione della sentenza era segnata pel giorno successivo.
Non rimaneva che la domanda di grazia al governatore, ma la domanda,
per essere presa in considerazione, doveva recare la firma dei
condannati. Spies, Fielden e Schwab firmarono; gli altri si
rifiutarono, e si rifiutarono con tale dignità, con tanto
coraggio, con tanta serenità che stupirono tutto il mondo.
Così la tragedia precipitò: Lingg si suicidò il
mattino del 10 novembre facendosi esplodere in bocca una cartuccia di
dinamite che la sua amante gli aveva recato il mattino stesso nel cesto
delle vivande, Fielden e Schwab ebbero accolta la loro domanda di
grazia e la loro pena venne mutata nel carcere a vita. Parsons, Spies,
Fischer e Engel salirono coraggiosamente il patibolo (...).
Carlo Molaschi
(Riassunto dal libro "I Martiri di Chicago" di A. Molinari), "Pagine Libertarie", Milano, a. II n. 6, I Maggio 1922.