Parlare del primo maggio di solito porta a rievocare i tragici fatti
di Haymarket Square a Chicago nel 1886, l'assassinio "legale" di
Adolphe Fischer, August Spies, George Engel, Albert Parsons e Louis
Lingg, la lunga detenzione di altri anarchici, la dura lotta condotta
per riabilitare i primi e liberare i secondi.
Sottesa a quegli avvenimenti la lunga battaglia del movimento operaio
americano e internazionale per la riduzione dell'orario di lavoro, che
proprio nel maggio di quell'anno vide la proclamazione del primo
sciopero generale per la giornata lavorativa di 8 ore nel paese che si
apprestava a diventare la più grande potenza industriale da
parte della nascente American Federation of Labor (AFL).
La lotta per le otto ore si sviluppò con grande
intensità, tra il 1890 e il 1920 in tutti i paesi
industrializzati da condizioni di partenza estremamente sfavorevoli.
Agli inizi del XX° secolo la giornata lavorativa degli operai
dell'industria era di circa 9 ore negli USA e di 10 ore in Francia per
una settimana lavorativa di sei giorni. Lotte e scioperi durissimi
portarono al conseguimento dell'obiettivo poco dopo la fine della prima
Guerra Mondiale, anche grazie all'accelerazione della
produttività del lavoro nella fase della ricostruzione.
In Italia, nel settore metalmeccanico, la FIOM ottenne le 8 ore
giornaliere insieme a vistosi aumenti del salario orario che
compensavano, a livello di retribuzione giornaliera, la riduzione del
20% della giornata lavorativa. Per la fine del '19 la contrattazione
collettiva aveva garantito le 48 ore settimanali alla stragrande
maggioranza dei lavoratori. Questo successo delle lotte operaie
sarà formalizzato successivamente col D.L. n. 692 del 15 marzo
1923 col quale si stabilirà che l'orario "non potrà
eccedere le 8 ore al giorno o le 48 settimanali di lavoro effettivo".
Nel novembre del 1919, leggi per le 8 ore erano già state
approvate in Svizzera, Svezia, Olanda, Spagna e Portogallo. In Francia,
il 23 aprile 1919, il Parlamento approvò la legge per la
giornata di 8 ore e la settimana di 6 giorni: venivano accolte sia le
richieste della CGT (Confédération Générale
du Travail) sul mantenimento dei salari settimanali precedenti la
riduzione di orario, sia le richieste del padronato di esenzioni e
possibilità di ricorso agli straordinari. Ciononostante si ebbe
nell'immediato una riduzione notevole dell'orario di lavoro. Anche
negli USA la giornata di 8 ore si diffuse rapidamente in concomitanza
della fine della guerra mondiale.
Nel complesso la riduzione d'orario generalizzata non toccherà
in egual misura tutti i settori produttivi e tutti i paesi, anche se in
taluni casi (citiamo solo i minatori del Valdarno e i cavatori
carrarini, organizzati dall'USI), per attività particolarmente
rischiose, saranno strappate le sei ore giornaliere.
Nemmeno l'orario settimanale di 48 ore su sei giorni sarà
significativamente ridotto per lungo tempo se si fa eccezione per una
parte delle industrie americane durante la Grande Depressione degli
anni '30 (misura però "ciclica" ovvero destinata a tamponare la
disoccupazione) e per la Francia, dove il parlamento votò la
legge del 21 giugno 1936 che istituiva le 40 ore senza perdita
salariale per operai e impiegati occupati negli stabilimenti
industriali e commerciali.
Per l'Italia e molti altri paesi si dovrà aspettare il secondo
dopoguerra e il nuovo ciclo di sviluppo economico che si
estenderà fino a circa metà degli anni '70. Infatti solo
con le lotte dell'autunno caldo e i successivi rinnovi contrattuali
delle categorie più importanti sarà raggiunta e varcata
la soglia delle 40 ore settimanali distribuite su 5 giorni, fino a
raggiungere le 36-38 ore settimanali medie nei diversi settori
lavorativi.
Esaurito questo brevissimo excursus storico si impongono alcune ovvie considerazioni di sintesi come elementi di riflessione:
- in generale la durata della giornata lavorativa e l'intensità
produttiva del lavoro rispondono, la prima alla produzione di
plusvalore assoluto e la seconda a quella di plusvalore relativo.
Semplificando, l'aumento della prima è storicamente legato al
modo di produzione prefordista, l'aumento della seconda alla catena di
montaggio e all'uso crescente dell'automazione. Come questa non sia una
"legge" è tuttavia dimostrato dalla tendenza all'aumento di
entrambe come - e può essere empiricamente dimostrato - avviene
ai giorni nostri;
- un controllo sull'orario di lavoro effettivo è sempre stato
impresa difficile. Già lo era negli anni '70 ai tempi dei
contratti più avanzati, quando si faticava a far rispettare i
tetti delle ore straordinarie, tanto più lo è oggi in
presenza di contratti atipici e precari e dell'incentivazione
incontrollata al lavoro straordinario;
- la riduzione dell'orario lavorativo non è un obiettivo
qualificante in sé per quanto riguarda la difesa delle
condizioni dei lavoratori quando sia sganciata dal mantenimento del
livello salariale o dal controllo sui ritmi di lavoro. Un capitalismo
in fase fortemente espansiva può accettarla se viene pagata in
termini di accresciuta produttività, un capitalismo in fase
profondamente recessiva anche se viene pagata in termini di riduzione
salariale.
Ma, per concludere, se usciamo dall'ambito strettamente sindacale,
rimane una questione di fondo: se il tempo di lavoro (almeno secondo il
parere di chi scrive) è tempo sottratto alla vita, tempo di
schiavitù reale e non metaforica, non potrebbe valere la pena di
lottare per la sua riduzione "a prescindere", pagando i prezzi
sopracitati? Non si conquisterebbero comunque nuovi tempi per la
socialità o per la pratica concreta di un nuovo modo di produrre
non subordinato al profitto? Non sarebbe dunque una prospettiva per
cominciare a fuoriuscire – culturalmente e materialmente – dagli
"inevitabili" ingranaggi della "inevitabile" società
capitalistica? O siamo nel campo delle fantasiose utopie ed è
meglio rimanere nella logica della concreta contrattazione delle
briciole del profitto, aspettando che le contraddizioni del sistema
aprano una breccia per la canonica esplosione rivoluzionaria?
Walter Kerwal