L'insurrection qui vient, Comité invisible, La fabrique éditions, Paris, 2007.
Questo libro, uscito un paio di anni fa, è tornato
all'attenzione di un certo tipo di pubblico perchè legato a una
questione di cronaca recente, ovvero l'arresto di un discreto numero di
compagni fancesi, accusati dalla polizia non solo di fare parte della
temibile mouvance anarcho-autonome, quanto di avere sabotato delle
linee dei TGV, ponendo sui binari degli ostacoli pensati in modo da
rallentare e fermare i convogli, ma non di farli deragliare. Nonostante
la totale assenza di prove, una decina di persone, dopo spettacolari
operazioni poliziesche, sono stati accusati in base alla legge
antiterrorismo. Di tutto questo "Umanità Nova" ha avuto modo di
dare notizie in alcune "Brevi dal mondo" dei mesi scorsi. Ora,
sgonfiatasi la montatura, di tutte le persone arrestate ne rimane
inspiegabilmente in galera una, Julien Coupat. A ben vedere, l'unica
accusa che viene mossa dalla polizia a costui è di essere
l'autore, o uno degli autori, di questo interessante libello.
Innanzitutto un punto innegabile a favore della pubblicazione è,
semplicemente, il fatto che prova ad affrontare alcuni nodi che vengono
normalmente taciuti: la rivoluzione, la fattibilità di questa,
l'insurrezione. Nelle prime pagine, riferendosi ai movimenti francesi
del 2005, il Comité invisible mette in evidenza come la mancanza
di rivendicazioni concrete sia in realtà un fatto eminentemente
politico, e precisamente "il politico" starebbe nel rifiuto de "la
politica" e di qualsiasi patto sociale o "new deal" teso a normalizzare
la situazione. Un gioco di parole, la cui pericolosità è
avvertita dal potere, intento a militarizzare vieppiù i
territori urbani (e non solo).
Probabilmente le parti più azzeccate del testo sono i primi
capitoli, dedicati all'analisi degli uomini e delle donne che vivono
nel mondo occidentale: l'accettazione entusiasta del motto "sono quel
che sono" - slogan pubblicitario caro a Pepsy & co. - implica una
"personalizzazione di massa", una individualizzazione di tutte le
condizioni: di vita, di lavoro ecc. e ciò determina gli attuali
livelli di schizofrenia, isteria e depressione diffusa. Tanto che
tutto il resto, il tempo libero, ma anche il lavoro, assume una
funzione terapeutica. La libertà d'altra parte diventa la
capacità di tranciare ogni legame con qualsivoglia dimensione
collettiva: "sono quel che sono".
Altro oggetto di considerazione è il tema del lavoro: più
che di lavoro precario il comité invisible parla di lavoro in
decomposizione: la società occidentale "inventa" lavori
completamente inutili per piegare alla disciplina del salario e della
mobilità una manodopera flessibile, indifferenziata,
polverizzata. Il lavoro trionfa nel momento in cui i lavoratori sono
diventati inutili. Viviamo il paradosso di una società di
lavoratori senza lavoro. Il lavoro risponde ancor più che alla
necessità economica di produrre beni, alla necessità
politica di continuare ad avere consumatori e produttori. Funzionale a
ciò è d'altra parte il continuo allargamento della
metropoli – e con essa dei sistemi di controllo e dei meccanismi di
mercato – che tende a inglobare tutto il territoro.
La diserzione da questo mondo, lungi dall'abbracciare le ingenue
teorie della decrescita - che perpetuerebbero solo l'attuale gerarchia
sociale - passa per il rifuto del lavoro e il boicottaggio della
metropoli e dei suoi tentacoli. La contestazione non è solo
critica della società, ma critica di questa civiltà. Qui,
probabilmente, sorgono i maggiori problemi: una volta rifiutato il
lavoro, la "soluzione" viene vista in un insieme di pratiche che alla
fine fanno affidamento allo stato sociale (assegno di disoccupazione,
borse di studio). Non sembra proprio una soluzione né credibile
né auspicabile; ancora, se il comité invisible scrive
chiaramente che è necessario organizzarsi, d'altra parte rifiuta
qualsiasi tipo di organizzazione, tranne quella dei "comuni". E'
necessario quindi costituirsi in "comuni" (tanto fisici quanto di idee,
sembra di capire) - la cui molteplicità e coordinazione "saranno
l'insurrezione" e si sostituiranno alla famiglia, alla scuola, al
sindacato ecc. e farlo ora, senza aspettare il domani rivoluzionario.
Ora, tutto questo è estremamente interessante, ma, come era
stato intuito non proprio l'altroieri, non è esente da
controindicazioni. Ad esempio il movimento rivoluzionario ben
dovrebbe sapere che non è possibile l'autosostentamento dei
comuni – auspicato invece dal Comité - e che fondamentale
è la reciprocità di scambi tra di essi. A fianco della
costituzione dei comuni andrebbe, dicono gli autori, un'azione costante
di sabotaggio della metropoli, della circolazione più che
produzione delle merci: in questo l'anonimato è visto come
sinonimo di forza; invece, anche se utile talvolta, esso non può
che essere un sintomo di debolezza per chi opera per l'allargamento
delle pratiche di trasformazione sociale. E se il libello si conclude
con un "tout le puovoir aux communes", forse beffardo, forse reale,
nell'attesa di capire meglio cosa siano questi comuni, non sarà
inutile ricordare che "la rivoluzione non la possiamo fare da soli
(...) E nel caso, poco probabile, che vincessimo da soli, ci troveremmo
nell'assurda posizione o di imporci, comandare, costringere gli altri e
quindi cessare di essere anarchici ed uccidere la rivoluzione stessa
col nostro autoritarismo (...)" [E. Malatesta, Ancora sulla rivoluzione
in pratica, "Umanità Nova", 14 ott. 1922].
L'insurrection qui vient è scaricabile all'indirizzo http://rebellyon.info/article5710.html
Hugo