Umanità Nova, n.16 del 26 aprile 2009, anno 89

L'insurrezione che viene


L'insurrection qui vient, Comité invisible, La fabrique éditions, Paris, 2007.

Questo libro, uscito un paio di anni fa, è tornato all'attenzione di un certo tipo di pubblico perchè legato a una questione di cronaca recente, ovvero l'arresto di un discreto numero di compagni fancesi, accusati dalla polizia non solo di fare parte della temibile mouvance anarcho-autonome, quanto di avere sabotato delle linee dei TGV, ponendo sui binari degli ostacoli pensati in modo da rallentare e fermare i convogli, ma non di farli deragliare. Nonostante la totale assenza di prove, una decina di persone, dopo spettacolari operazioni poliziesche, sono stati accusati in base alla legge antiterrorismo. Di tutto questo "Umanità Nova" ha avuto modo di dare notizie in alcune "Brevi dal mondo" dei mesi scorsi. Ora, sgonfiatasi la montatura, di tutte le persone arrestate ne rimane inspiegabilmente in galera una, Julien Coupat. A ben vedere, l'unica accusa che viene mossa dalla polizia a costui  è di essere l'autore, o uno degli autori, di questo interessante libello.
Innanzitutto un punto innegabile a favore della pubblicazione è, semplicemente, il fatto che prova ad affrontare alcuni nodi che vengono normalmente taciuti: la rivoluzione, la fattibilità di questa, l'insurrezione. Nelle prime pagine, riferendosi ai movimenti francesi del 2005, il Comité invisible mette in evidenza come la mancanza di rivendicazioni concrete sia in realtà un fatto eminentemente politico, e precisamente "il politico" starebbe nel rifiuto de "la politica" e di qualsiasi patto sociale o "new deal" teso a normalizzare la situazione. Un gioco di parole, la cui pericolosità è avvertita dal potere, intento a militarizzare vieppiù i territori urbani (e non solo).
Probabilmente le parti più azzeccate del testo sono i primi capitoli, dedicati all'analisi degli uomini e delle donne che vivono nel mondo occidentale: l'accettazione entusiasta del motto "sono quel che sono" - slogan pubblicitario caro a Pepsy & co. - implica una "personalizzazione di massa", una individualizzazione di tutte le condizioni: di vita, di lavoro ecc. e ciò determina gli attuali livelli  di schizofrenia, isteria e depressione diffusa. Tanto che tutto il resto, il tempo libero, ma anche il lavoro, assume una funzione terapeutica. La libertà d'altra parte diventa la capacità di tranciare ogni legame con qualsivoglia dimensione collettiva: "sono quel che sono".
Altro oggetto di considerazione è il tema del lavoro: più che di lavoro precario il comité invisible parla di lavoro in decomposizione: la società occidentale "inventa" lavori completamente inutili per piegare alla disciplina del salario e della mobilità una manodopera flessibile, indifferenziata, polverizzata. Il lavoro trionfa nel momento in cui i lavoratori sono diventati inutili. Viviamo il paradosso di una società di lavoratori senza lavoro. Il lavoro risponde ancor più che alla necessità economica di produrre beni, alla necessità politica di continuare ad avere consumatori e produttori. Funzionale a ciò è d'altra parte il continuo allargamento della metropoli – e con essa dei sistemi di controllo e dei meccanismi di mercato – che tende a inglobare tutto il territoro.
 La diserzione da questo mondo, lungi dall'abbracciare le ingenue teorie della decrescita - che perpetuerebbero solo l'attuale gerarchia sociale - passa per il rifuto del lavoro e il boicottaggio della metropoli e dei suoi tentacoli. La contestazione non è solo critica della società, ma critica di questa civiltà. Qui, probabilmente, sorgono i maggiori problemi: una volta rifiutato il lavoro, la "soluzione" viene vista in un insieme di pratiche che alla fine fanno affidamento allo stato sociale (assegno di disoccupazione, borse di studio). Non sembra proprio una soluzione né credibile né auspicabile; ancora, se il comité invisible scrive chiaramente che è necessario organizzarsi, d'altra parte rifiuta qualsiasi tipo di organizzazione, tranne quella dei "comuni". E' necessario quindi costituirsi in "comuni" (tanto fisici quanto di idee, sembra di capire) - la cui molteplicità e coordinazione "saranno l'insurrezione" e si sostituiranno alla famiglia, alla scuola, al sindacato ecc. e farlo ora, senza aspettare il domani rivoluzionario. Ora, tutto questo è estremamente interessante, ma, come era stato intuito non proprio l'altroieri, non è esente da controindicazioni. Ad esempio  il movimento rivoluzionario ben dovrebbe sapere che non è possibile l'autosostentamento dei comuni – auspicato invece dal Comité - e che fondamentale è la reciprocità di scambi tra di essi. A fianco della costituzione dei comuni andrebbe, dicono gli autori, un'azione costante di sabotaggio della metropoli, della circolazione più che produzione delle merci: in questo l'anonimato è visto come sinonimo di forza; invece, anche se utile talvolta, esso non può che essere un sintomo di debolezza per chi opera per l'allargamento delle pratiche di trasformazione sociale. E se il libello si conclude con un "tout le puovoir aux communes", forse beffardo, forse reale, nell'attesa di capire meglio cosa siano questi comuni, non sarà inutile ricordare che "la rivoluzione non la possiamo fare da soli (...) E nel caso, poco probabile, che vincessimo da soli, ci troveremmo nell'assurda posizione o di imporci, comandare, costringere gli altri e quindi cessare di essere anarchici ed uccidere la rivoluzione stessa col nostro autoritarismo (...)" [E. Malatesta, Ancora sulla rivoluzione in pratica, "Umanità Nova", 14 ott. 1922].

L'insurrection qui vient è scaricabile all'indirizzo http://rebellyon.info/article5710.html

Hugo

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