Umanità Nova, n.16 del 26 aprile 2009, anno 89

Culture. Gran Torino


Un anziano razzista americano di origine polacca, Walt Kowalski,  reduce dalla guerra di Corea, ex-operaio della Ford, con figli e nipoti rappresentativi di un'America che non riconosce, rimasto vedovo e solo nel quartiere periferico di una grande metropoli statunitense, ritrova i valori tradizionali in cui crede in una comunità immigrata asiatica, la sola rimasta a circondare la sua propria casa. Sullo sfondo dell'odierna Detroit e dei suoi sobborghi american-style, l'anziano ex operaio interpretato da Eastwood possiede l'auto simbolo di un'epoca che non c'è più (per chi?), la Gran Torino anno 1972 che dà titolo al film e già omaggio alla Detroit d'Europa.
Sarà essa il filo rosso che unirà l'anziano a un timido ragazzo immigrato asiatico di seconda generazione, suo vicino di casa, che dapprima tenterà di sottrargli l'auto per compiere il rito di affiliazione a una gang locale, per poi trovarsi sotto l'ala "educatrice" di Kowalski, il quale scoprirà a sua volta, nel rapporto con il ragazzo e la sua famiglia d'origine, la relativa comunanza dei propri valori con quelli del popolo Hmong che tanto disprezzava. In questo edificante rapporto l'anziano ex operaio non riuscirà però a sottrarsi dalla spirale di violenza generata dalla gang Hmong locale che rifiuta l'integrazione del ragazzo, generando così il climax finale. Clint Eastwood chiude la sua carriera di attore, non quella di regista, con un film difficilmente etichettabile ma incredibilmente attuale, proponendo una storia in cui il tradizionalismo americano si rinnova ancora una volta, ibridandosi attraverso la sue risorse più feconde, l'immigrazione e la mescolanza di culture. Ma se per vedere su uno schermo un film che parli di mutamenti socioeconomici e culturali con sguardo semplice si è costretti a usare quello bieco e torvo – seppur molto astuto e capace -  del fu Ispettore Callaghan, allora questo è una conferma in più che viviamo tempi difficili. La morale del regista è infatti, a dispetto di alcune voci pronte a gridare al miracolo (o a un incubo ad occhi aperti, sentendo dipingere la pellicola da alcuni spettatori all'uscita del cinema come "un film comunista girato da un fascista"), imperniata su valori maschili, familiaristi e religiosi: l'educazione del ragazzo finalizzata a farlo diventare un "vero uomo"; la conoscenza di una cultura diversa dapprima ignorantemente disprezzata (Kowalski accomuna indistintamente i Hmong ai coreani uccisi in guerra, che rappresentano la sua coscienza sporca)  e poi valorizzata proprio perché altrettanto tradizionale; il rapporto con il prete cattolico di quartiere che nel film da scontro aperto iniziale si evolve fino alla conciliazione finale. Attraverso una redenzione che sa di sacrificio necessario, il regista americano propone la sua visione di un meltin' pot americano che si rinnova ribadendo i principi dell'inclusione statunitense,  fondata sui principi di quella Dichiarazione d'Indipendenza che, non va mai dimenticato, escluse dal beneficio del diritto i nativi americani considerati non esseri umani. Nonostante la pregevole sapienza narrativa, l'intelligente e ironico riferimento ai valori dimenticati dall'America odierna non esce mai da uno schema che contiene già in sé tutte le contraddizioni della società statunitense alle quali  Eastwood si riferisce.

Lo spettatore incaricato

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