Un anziano razzista americano di origine polacca, Walt
Kowalski, reduce dalla guerra di Corea, ex-operaio della Ford,
con figli e nipoti rappresentativi di un'America che non riconosce,
rimasto vedovo e solo nel quartiere periferico di una grande metropoli
statunitense, ritrova i valori tradizionali in cui crede in una
comunità immigrata asiatica, la sola rimasta a circondare la sua
propria casa. Sullo sfondo dell'odierna Detroit e dei suoi sobborghi
american-style, l'anziano ex operaio interpretato da Eastwood possiede
l'auto simbolo di un'epoca che non c'è più (per chi?), la
Gran Torino anno 1972 che dà titolo al film e già omaggio
alla Detroit d'Europa.
Sarà essa il filo rosso che unirà l'anziano a un timido
ragazzo immigrato asiatico di seconda generazione, suo vicino di casa,
che dapprima tenterà di sottrargli l'auto per compiere il rito
di affiliazione a una gang locale, per poi trovarsi sotto l'ala
"educatrice" di Kowalski, il quale scoprirà a sua volta, nel
rapporto con il ragazzo e la sua famiglia d'origine, la relativa
comunanza dei propri valori con quelli del popolo Hmong che tanto
disprezzava. In questo edificante rapporto l'anziano ex operaio non
riuscirà però a sottrarsi dalla spirale di violenza
generata dalla gang Hmong locale che rifiuta l'integrazione del
ragazzo, generando così il climax finale. Clint Eastwood chiude
la sua carriera di attore, non quella di regista, con un film
difficilmente etichettabile ma incredibilmente attuale, proponendo una
storia in cui il tradizionalismo americano si rinnova ancora una volta,
ibridandosi attraverso la sue risorse più feconde,
l'immigrazione e la mescolanza di culture. Ma se per vedere su uno
schermo un film che parli di mutamenti socioeconomici e culturali con
sguardo semplice si è costretti a usare quello bieco e torvo –
seppur molto astuto e capace - del fu Ispettore Callaghan, allora
questo è una conferma in più che viviamo tempi difficili.
La morale del regista è infatti, a dispetto di alcune voci
pronte a gridare al miracolo (o a un incubo ad occhi aperti, sentendo
dipingere la pellicola da alcuni spettatori all'uscita del cinema come
"un film comunista girato da un fascista"), imperniata su valori
maschili, familiaristi e religiosi: l'educazione del ragazzo
finalizzata a farlo diventare un "vero uomo"; la conoscenza di una
cultura diversa dapprima ignorantemente disprezzata (Kowalski accomuna
indistintamente i Hmong ai coreani uccisi in guerra, che rappresentano
la sua coscienza sporca) e poi valorizzata proprio perché
altrettanto tradizionale; il rapporto con il prete cattolico di
quartiere che nel film da scontro aperto iniziale si evolve fino alla
conciliazione finale. Attraverso una redenzione che sa di sacrificio
necessario, il regista americano propone la sua visione di un meltin'
pot americano che si rinnova ribadendo i principi dell'inclusione
statunitense, fondata sui principi di quella Dichiarazione
d'Indipendenza che, non va mai dimenticato, escluse dal beneficio del
diritto i nativi americani considerati non esseri umani. Nonostante la
pregevole sapienza narrativa, l'intelligente e ironico riferimento ai
valori dimenticati dall'America odierna non esce mai da uno schema che
contiene già in sé tutte le contraddizioni della
società statunitense alle quali Eastwood si riferisce.
Lo spettatore incaricato