A Napoli correva voce che negli ambienti del Pci non vi fossero
tanto "compagni che sbagliano" e neppure "compagni di strada" che di
frequente la cambiano, quanto piuttosto "compagni di grembo". Nel
leggere, riportate dai media, le parole espresse dal Presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano, nel corso delle celebrazioni al
Quirinale del giorno della memoria per ricordare le vittime del
terrorismo alla presenza della vedova del commissario Calabresi e di
Licia Pinelli, quella voce – chissà mai perché – mi
è ritornata in mente; soprattutto quando l'Inquilino del Colle
nell'accomunare «nel rispetto e nell'omaggio i familiari di tutte
le vittime di una stagione di odio e di violenza» ha voluto
ricordare la «figura di un innocente, Giuseppe Pinelli, che fu
vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di
un'improvvisa, assurda fine».
Con tutta probabilità, Giorgio Napolitano, nell'esternare quel
sentimento tanto partecipe e generoso nei confronti di un irriducibile
nemico dello Stato, non avrà potuto non ricordare - ah!,
che brutta bestia la memoria – quelle lunghe ed interminabili
riunioni della direzione del PCI (della quale era membro/grembo), dove,
alla presenza dell'allora segretario Enrico Berlinguer, si convenne che
era politicamente più saggio denunciare gli anarchici come
"provocatori" piuttosto che difendere i compagni caduti dalla finestra
(come Pinelli) o in galera (come Valpreda). E, sicuramente, nel
profferire che Pinelli fu vittima due volte, gli è venuto un
nodo così grosso alla gola – scambiato dai cronisti parlamentari
come una mal celata commozione – per essersi accorto di aver nuovamente
(e per la terza volta... e qui, lo giuriamo, l'Iscariota non
c'entra) condannato l'anarchico ferroviere ad essere la vittima
sacrificale della Strage di Piazza Fontana, precisando che «qui
non si vuole rimettere in questione un processo, qui si compie un gesto
politico e istituzionale, si rompe il silenzio su una ferita, non
separabile da quella dei 17 che persero la vita a piazza Fontana, e su
un nome, di cui va riaffermata e onorata la linearità,
sottraendola alla rimozione e all'oblio».
Nomen omen, sentenziavano gli antichi Romani, volendo sottolineare che
nel nome della persona fosse indicato il suo destino; e che nel nome di
Giorgio Napolitano vi fosse il presagio di essere il Presidente della
Repubblica Italiana, dopo esser stato per lungo tempo il membro/grembo
del Pci, quanto è accaduto sabato 9 maggio al Quirinale,
conferma la saggezza latina. Perché soltanto in questo momento
storico e con questo Presidente si è potuto offendere la storia,
ma non la memoria, di anni di lotte e di battaglie combattute per
ricercare e difendere la verità sugli anni della contestazione
sociale che la strategia del terrore, inaugurata proprio con le bombe
alla Banca dell'Agricoltura di Milano con la complicità dei
servizi segreti dello Stato e la manovalanza dei gruppuscoli
nazifascisti, ha voluto annientare prima lordando le strade e le piazze
d'Italia con il sangue delle vittime, e adesso insudiciandone il
ricordo attraverso una pretesa riconciliazione con coloro che ne
sono stati i loro carnefici.
Ma, si sa, gli unici rivoluzionari buoni per lo Stato son quelli
ammazzati. Quelli che rimangono ostinatamente vivi, perché
irriducibili alla sua logica che li vuole succubi e supini, sono
semplici criminali con i quali si fanno affari sulla loro pelle se non
si può far affari sulla loro coscienza. E quel giorno al
Quirinale, oltre i discorsi, le strette di mano e le ricorrenze, sono
iniziate le trattative...
gianfranco marelli