Un clima di moderata euforia si sta diffondendo tra gli operatori
finanziari. Una frase, di cui troppo spesso si era abusato in passato
"ormai il peggio è già passato", è tornata a
risuonare nelle dichiarazioni di banchieri, economisti e governanti.
Categorie che hanno recentemente mostrato un notevole ardimento nello
sfidare il ridicolo. Però è indubbio, vi sono diversi
segnali incoraggianti: la mini-ripresa del settore immobiliare Usa, con
un aumento delle compravendite; l'indice di fiducia delle imprese
tedesche, cresciuto rispetto ai mesi precedenti; un moderato aumento
dei consumi italiani; il piccolo rally delle borse mondiali che sta
portando gli indici azionari sui valori di inizio 2009; il ridursi del
differenziale tra i titoli di Stato tedeschi e italiani che segnala una
maggiore propensione al rischio da parte degli investitori; la
riduzione dei tassi interbancari giunti ormai a livelli di minimo
storico. Come si vede, stanno emergendo numerosi indizi che segnalano
una ritrovata fiducia in una prossima ripresa economica. Ovviamente, le
crisi, come i periodi di boom, non durano in eterno, per cui certamente
anche il crollo che stiamo vivendo finirà. Il punto è:
davvero il periodo peggiore è alle nostre spalle? Possiamo
veramente guardare al futuro con minor apprensione rispetto ai mesi
scorsi?
Non ho alcuna vocazione per la figura del menagramo, tuttavia temo sia
ancora troppo presto per festeggiare la fine di una delle peggiori
debaclé economiche del mondo occidentale. Anche se sarei ben
felice di sbagliarmi.
Prima ho citato diversi indicatori che farebbero propendere per una
lettura ottimistica dell'evoluzione della situazione. Ve ne sono
però altri che contraddicono tale interpretazione. Le previsioni
sulla congiuntura economica stilate dagli organismi internazionali
(Fondo Monetario Internazionale, Ocse, Unione Europea) sono state tutte
riviste drasticamente verso il basso rispetto a quelle prodotte solo un
paio di mesi fa. La stima elaborata ad aprile, da parte del Fondo
Monetario Internazionale, delle perdite conseguenti alle insolvenze
subprime è pari a circa 4 mila miliardi di dollari, quasi il
doppio di quanto si ipotizzava a gennaio! I credit default swap (ossia,
il costo per assicurarsi contro il fallimento) sugli istituti di
credito americani ed europei continuano a viaggiare intorno ai loro
valori massimi. Aumentano le ore di cassa integrazione e le chiusure di
aziende.
Insomma, come districarsi in questo insieme ambiguo di segnali?
Uno dei primi aspetti da considerare è che niente è
cambiato nella situazione che ha dato origine al disastro: la famiglie
Usa continuano a non avere il denaro per ripagare i debiti contratti e
le banche occidentali continuano ad avere in portafoglio i cosiddetti
titoli tossici legati ai mutui subprime. Non traggano in inganno i
bilanci del primo trimestre degli istituti di credito statunitensi che
mostrano risultati migliori delle aspettative. Tutti gli analisti sono
concordi nell'affermare che questi conti trimestrali, a causa del
cambiamento dei criteri contabili usati per il calcolo del valore dei
titoli posseduti dalle banche, sono delle finzioni non rappresentative
della realtà.
Ma è proprio sul terreno del mondo reale che questa crisi appare
ancora ben lontana dall'aver raggiunto il punto peggiore. Come ben sa
chi lavora, in media le imprese italiane stanno sperimentando una
riduzione dei fatturati intorno al 30%. L'indice Istat della produzione
industriale nel primo bimestre del 2009 è sceso del 19,2%
rispetto ai primi due mesi del 2008. Come viene gestita questa
drammatica situazione dalle imprese? In primo luogo attraverso
l'obbligo per i dipendenti di utilizzare tutte le ferie arretrate e
poi, dove possibile, ricorrendo alla cassa integrazione. Il punto
è che questi escamotage hanno una durata limitata. Dopo
l'estate, quando i lavoratori avranno esaurito anche le ferie dell'anno
in corso, se non saranno arrivati nuovi ordini di produzione cosa
accadrà? Il rischio di un'ondata di licenziamenti e di una
impennata delle ore di cassa integrazione guadagni è concreto.
Questo rischio è associato, naturalmente, a quello del
fallimento delle imprese, soprattutto quelle di minori dimensioni. Cosa
potrà succedere quando sul tessuto sociale si riverseranno
migliaia di persone prive di un reddito e centinaia di aziende che
chiudono i battenti? Non solo i consumi delle famiglie ne risentiranno
negativamente, contribuendo così ad un ulteriore rallentamento
dell'economia, ma anche le banche avranno i loro problemi, dato che le
aziende fallite non saranno certo in grado di restituire il denaro
ricevuto in prestito. Il quadro non appare molto esaltante.
È in atto una disperata corsa contro il tempo, poiché
mancano solo pochi mesi all'appuntamento con la ripresa autunnale delle
attività. La speranza è che gli stimoli messi in campo
dai governi e dalle banche centrali riescano a manifestare almeno una
parte dei loro effetti prima dell'estate. In questo contesto, una buona
dose di ottimismo "pilotato" fa parte delle misure anticrisi, con il
vantaggio di costare relativamente poco. Basterà?
Toni Iero