Il 7 maggio la FAI torinese ha organizzato un punto info
contro la repressione nel centro di Torino, in via Po. Banchetti,
distro, musica e lo striscione "Lo Stato uccide". Il giorno non
è stato scelto a caso. Il 7 maggio 1972 moriva nel carcere
di Pisa Franco Serantini. Aveva vent'anni ed era anarchico. Due giorni
prima, una manifestazione antifascista contro il comizio del deputato
fascista Beppe Niccolai viene più volte caricata con
violenza. Franco viene pestato a sangue dagli uomini della "celere" di
Roma, arrestato e portato in carcere. Il giorno dopo stava malissimo ma
il dottor Mammoli gli da appena un'occhiata prima dell'interrogatorio
del magistrato. Agonizzerà per tre giorni in cella. Franco
è una delle tante vittime di quegli anni, quando la violenza
dello Stato si scatenava contro l'opposizione politica e sociale.
Franco era un figlio di nessuno, un orfano passato da un istituto ad un
altro, un ragazzo senza passato e senza futuro, che tuttavia non
è stato dimenticato. Nel volantino distribuito "Morire di
maggio. Franco e Hassan" si ricordava anche la morte di Hassan, morto
lo scorso maggio nel CIE di corso Brunelleschi a Torino. Hassan era un
tunisino senza carte. Uno dei tanti che le leggi razziste di questo
Stato condannano alla prigione amministrativa e alla deportazione.
Hassan stava molto male: agonizza a lungo nella sua cella, ma non viene
curato, né trasportato in ospedale. Gli altri reclusi
chiedono aiuto, gridando inutilmente nella notte. Diranno poi: "Siamo
come cani al canile. Abbai e nessuno ti ascolta". Il CPT – ora CIE – di
Torino è gestito dalla Croce Rossa, guidata dal colonnello
Antonio Baldacci, che dichiarerà che i suoi "ospiti" sono
"clandestini abituati a dire bugie. Per loro è facile ed
abituale non dire la verità". Baldacci è un
medico che fa l'aguzzino, gestendo una prigione dove un uomo
è morto per mancanza di cure, dove uomini e donne sono
chiusi come cani. Trattati peggio.
Il dottor Baldacci, come il dottore del carcere di Pisa, Mammoli, serve
un potere feroce, un potere che uccide chi si oppone, un potere che non
ha pietà dei figli di nessuno e degli stranieri senza carte.
Oggi come ieri. La notte di giovedì 7 maggio via Pisa
è stata rinominata: tutte le targhe stradali sono state
coperte ed è diventata "via Franco Serantini. Anarchico di
20 anni ucciso dalla polizia. Pisa, 7 maggio 1972".
Uno striscione con scritto "casa per tutti" è stato appeso
alle finestre della palazzina ex Enel di via Pisa 5. Questa casa
è abbandonata da molti anni, inutilizzata e lasciata
all'incuria. Lo scorso luglio venne occupata da alcune famiglie rom,
che vivevano nelle baracche di via Germagnano. Stanchi di una miseria
che aveva segnato ogni momento delle loro vite, decisero di dare un po'
di futuro a se ed ai propri figli. I bambini si svegliarono urlando
quando le truppe dello Stato in tenuta antisommossa fecero irruzione
nell'edificio. Li hanno riportati a forza lungo la Stura. La casa
è rimasta lì a testimoniare la follia di chi
tiene vuoto un palazzo, mentre i bambini crescono in catapecchie
immonde, giocando tra il fango e i topi.
Foto dello striscione "casa per tutti", di quello "lo Stato uccide" e
di "Via Franco Serantini" a quest'indirizzo:
http://piemonte.indymedia.org/article/4882
R. Em.
Verso la mezzanotte di giovedì 30 aprile, all'interno del
centro sociale occupato Cloro Rosso di Taranto, un uomo mascherato,
entrato furtivamente, ha esploso diversi proiettili verso un giovane
attivista del centro, colpendolo alle gambe e ai glutei. Fortunatamente
il proiettile diretto ai glutei è stato parato dal cellulare
che il ragazzo portava in tasca.
La matrice mafiosa dell'agguato appare abbastanza evidente fin dai
primi comunicati, emessi sia dal Cloro Rosso, sia dai vari
siti e blog che hanno dato risalto alla vicenda. L'idea comune
è che i poteri occulti della città abbiano voluto
dare sfoggio del loro dominio fondato sulla paura, andando a colpire
nel cuore della Taranto che lotta: alcune considerazioni su questa
storia, infatti, possono diventare illuminanti per aprire uno scorcio
sull'assoluta repressione che qui agisce in modo esemplare.
Innanzitutto il Cloro Rosso è una ex scuola occupata nel
marzo 2008 dal collettivo legato all'associazione "Eskerra". Da allora
è il ritrovo dei giovani tarantini in rivolta contro la
politica mafiosa e capitalista che parassita la città (la
clamorosa bancarotta del Comune di Taranto risale appena al 2006) e
perciò un attacco inflitto al Cloro Rosso colpisce dritto al
cuore tutta la comunità che resiste.
Inoltre, nella serata in cui è avvenuta la sparatoria, era
in corso un benefit organizzato per sostenere il "Comitato Lavoratori
in Lotta" cioè alcuni operai, recentemente messi in cassa
integrazione dall'Ilva, che frequentano il centro sociale. Un paio di
settimane fa, precisamente il 18 aprile, questi stessi lavoratori
avevano preso parte al corteo nazionale per la sicurezza sul lavoro che
ha sfilato nella loro città, con l'obiettivo di dimostrare
tutta la rabbia e lo sdegno nei confronti dell'acciaieria che con le
armi della diossina e del ricatto professionale ha ucciso la
comunità locale: per loro questa temibile Ilva, l'impianto
siderurgico più grande d'Europa, non sarà
più il padrone di Taranto. E questo messaggio è
stato ulteriormente ribadito quando i ragazzi del Cloro Rosso, durante
il corteo, hanno occupato per alcuni momenti il ponte girevole nel
centro storico della città, accendendo fumogeni colorati e
scandendo cori con un messaggio molto chiaro: "se ci bloccano il futuro
– noi blocchiamo la città" e "Riva, Riva vaffanculo" diretto
alla famiglia proprietaria dell'Ilva.
Era parecchio tempo che a Taranto non si alzava così
fieramente la testa e l'attentato contro il Cloro Rosso tocca anche
altre realtà come il comitato di quartiere Città
Vecchia e il presidio permanente No Discariche, cioè quelle
giovani forze che, dai vicoli della città, si stanno unendo
per reclamare la resa dei conti dopo una vita di sofferenze legate allo
sfruttamento del lavoro e dell'ambiente, imposte con la paura dal
sistema che governa lo Stato.
Oggi Taranto non ci sta a questo armonioso sodalizio di mafiosi ed
industriali: oggi la guerra è aperta.
Luca Dubbini
Mentre il governo inasprisce le leggi razziali e rivendica
un'inesistente monoetnia italica da "difendere", si moltiplicano i
maltrattamenti e gli episodi di crudeltà nei Centri di
Identificazione ed Espulsione (CIE). Di recente, anche nel CIE di
Bologna vi sono state continue offese e violenze: vestiti strappati,
sberle, insulti, pestaggi. Lunedì 4 maggio una ragazza,
Raya, viene picchiata in infermeria da un "ispettore" in abiti civili,
sviene ed è lasciata sul pavimento. Non riceve assistenza
medica né prima né dopo il pestaggio. La ragazza
sporge denuncia e il 6 maggio viene nuovamente picchiata. Anche alcuni
ragazzi che solidarizzavano con lei subiscono botte e maltrattamenti.
Dentro al CIE bolognese, secondo i racconti dei reclusi, li chiamano
"la banda", e fanno il bello e il cattivo tempo intervenendo
arbitrariamente in ogni situazione considerata "d'eccezione". Anche per
una semplice richiesta di medicine. Al telefono i migranti dicono: "Qui
non ci curano! Qui ci trattano come animali!".
Nei CIE si toglie la dignità alle persone per annientarle
anzitutto moralmente. Sabato 9 maggio, nel CIE di via Mattei un ragazzo
si fa male a un ginocchio, ma in infermeria non gli danno nessun
medicinale nonostante le sue ripetute richieste. Poco dopo si sono
verificati due casi gravi di autolesionismo: Benrib ha ingerito una
grossa quantità di lamette mentre Gasmi si è
procurato tagli su tutto il corpo, in particolare sulle gambe. Benrib
è stato ricoverato, mentre Gasmi, curato alla svelta,
è stato riportato al CIE. Ora è in isolamento, i
suoi compagni non possono vederlo, ed è piantonato dalla
polizia. La direzione del CIE, come sempre, ha chiamato l'ambulanza con
notevole ritardo. Anche questi ritardi, come pure il rifiuto di cure,
sono un modo per far sentire ai detenuti la loro condizione di corpi
senza diritti e senza valore. Sono una forma di crudeltà
morale. L'autolesionismo nei CIE forse non è solo un modo
per evitare il "rimpatrio", ma anche un atto estremo di ribellione che
vuole raffigurare la disumanità e la violenza del lager.
Oggi è importante non abituarsi alla barbarie e
all'ipocrisia di stato. Nel 2002 Gianfranco Fini si scusava per le
leggi razziali del 1938 proprio mentre metteva a punto la legge
Bossi-Fini. Qualche giorno fa Giorgio Napolitano ha dichiarato che
Pinelli fu «una vittima della strage di piazza
Fontana», mentre ancor oggi vi sono persone – in genere
migranti – che continuano a volar giù dalle finestre delle
questure italiane, come Aufi Farid algerino accusato di borseggio morto
a Genova il 6 novembre 2008. Per protestare contro l'ipocrisia e la
barbarie dei CIE è stato convocato un presidio
giovedì 14 maggio, dalle ore 16 volantinaggio sotto le due
torri, dalle 18.30 sotto il CIE di via Mattei.
RedB
Cronaca criminale, il corteo contro la moschea.
La manifestazione dei Comitati spontanei "in solidarietà
alle forze dell'ordine e per la sicurezza".
Lunedì 4 maggio. All'angolo tra strada del Fortino e via
Cigna, circondati da un nugolo di angeli custodi in divisa, partono
quelli del corteo contro la moschea indetto dalla Lega. Non sono
più di centocinquanta: i leghisti capeggiati da Borghezio e
un po' di fascisti e postfascisti. Procedono in silenzio a parte
qualche slogan sull'Italia cristiana. Da un balcone un uomo grida forte
la propria rabbia per il corteo razzista nel suo quartiere. I piccoli
crociati camminano svelti svelti: per raggiungerli un paio di anarchici
deve allungare il passo. Due digos si precipitano a dire che "loro" no,
al corteo non ci possono andare. Naturalmente i due anarchici
continuano imperterriti la loro passeggiata serale osservando le
persone "perbene" che di leggi razziste, ronde e polizia non ne hanno
mai abbastanza. Stupisce sempre guardare in faccia il male e scoprire
che ha il volto normale del tuo vicino di casa. Sui muri intorno grida
la protesta antirazzista: "via i razzisti dai quartieri". Per tutto il
quartiere qualche antirazzista ha incollato manifestini listati a
lutto: in ognuno il nome e la circostanza della morte degli immigrati
morti a Torino durante controlli delle forze dell'ordine. Il giorno
dopo i quotidiani cittadini grideranno all'allarme per le scritte e le
locandine che, a detta di questi gazzettieri, sarebbero state fatte dai
"pusher" della zona. I due anarchici, dopo un po' di giri tallonati dai
digos con il telefonino incollato, se ne vanno sussurrando ai due
poliziotti, "sono tutti vostri, ve li lasciamo. Godeteveli!". Ma il
giro nel cuore marcio della città non è ancora
finito. In piazza Sassari si sono radunati quelli del Coordinamento dei
Comitati Spontanei di quartiere di Torino per una manifestazione "in
solidarietà alle forze dell'ordine e per la sicurezza", dal
titolo "basta carabinieri morti". La settimana precedente, un
carabiniere, inseguendo un pusher tra i binari, era morto sotto un
treno che sopraggiungeva. Ci sono una quarantina di persone, raccolte
intorno ad un'auto con l'ampli. Pare che durante il breve corteo per il
quartiere fossero circa 150. In giro qualche fascistello, altri digos,
un pattuglione di quelli dell'antisommossa. Il tizio dal microfono sta
invitando la gente a prendere la parola. Una donna bruna con una giacca
rossa vomita odio per i peruviani del suo condominio. Un tale che "fa
l'operatore a Porta Palazzo" incita a farsi giustizia con le proprie
mani, perché la polizia, poverina, ha le mani legate dai
politici. Poi è il turno di una bionda, sui quarantacinque,
bassetta intrampolata su tacchi vertiginosi. Dice che nel suo palazzo
"quelli" non osano aprire la bocca, perché gli italiani si
fanno rispettare. A scuola invece, "quelli" sono la maggioranza. Poi,
con sommessa rabbia, aggiunge: "Io sto diventando razzista. Anzi sono
razzista. Non mi importa se muoiono nei tir, non mi importa se
annegano. Li ammazzerei tutti. Con le mie mani." Gli altri applaudono a
lungo. A Torino troppi chiudono gli occhi, non vedono, non vogliono
vedere la tenebra che cresce tra le viscere di questa città.
In questi anni sono morti una dozzina di immigrati durante controlli e
retate: qualcuno è annegato nel Po o nella Stura, una
ragazza è scivolata dal tetto, un uomo è caduto
dalla finestra di casa, un altro è stato sparato ad un posto
di blocco.
In Afganistan il giorno prima era morta una bambina. L'hanno ammazzata
dei professionisti, i parà della Folgore, ma i mandanti sono
in mezzo a noi. Sono gli stessi cui non importa se gli immigrati
muoiono, perché li ammazzerebbero tutti. Con le loro mani.
Bisogna fermarli. Subito.
R. Em.