Lo scorso lunedì, 4 maggio,
presso il Nuovo Teatro Colosseo a Roma c'è stata la
rappresentazione di un testo di Sbancor (Franco Lattanzi) "Coreografia
di inizio millennio", ad un anno dalla sua scomparsa. Abbiamo chiesto a
Cosimo Scarinzi di ricordarci Franco e la sua generosa militanza nel
movimento anarchico degli anni '70.
"La fine di un ordine genera possibilità. Vi è un
momento, non troppo lungo, in cui fra la fine di un modo di produzione
e il consolidarsi di un altro, appare l'infinita possibilità di
altri mondi e modi di produzione... In questo caso la libertà
non è assenza di regole ma moltiplicazione di mondi, di ordini,
di regola. É il potere corrosivo dell'eresia ben più
potente dell'agnostico ritirarsi di fronte all'assoluto. Ma solo in
quell'attimo è dato di vedere il nuovo. Dopo, i frammenti si
ricompongono e la macchina sociale ricomincia a lavorare...
E spesso l'alba ha gli stessi colori del tramonto."
Franco Lattanzi
Il 28 aprile 2008 è morto Franco Lattanzi, più noto come
Sbancor. Era molto conosciuto come autore di alcuni interessanti libri
- American nightmare. Incubo americano, Diario di guerra e
critica della guerra umanitaria - e collaboratore di alcune riviste e
liste di discussione.
Nel merito del suo funerale il compagno Fabio Iacopucci scriveva:
"Durante il rito funebre celebrato in un'abbazia gotica vicino al suo
paese natale, Sonnino, la giovanissima figlia Sara, mentre il prete
officiava, è venuta dalla nostra parte: "avete voi la bandiera?"
ci ha chiesto, l'ho tirata fuori da sotto il giubbotto e lei, forse
dodici/tredici anni, l'ha stesa con amore e delicatezza sulla bara non
curandosi affatto dell'espressione seria e perplessa del pretino."
Eppure Franco Lattanzi non era, da molti anni, un militante anarchico
nel senso stretto del termine anche se, in una maniera che non è
semplice spiegare, il suo rapporto con le radici della sua formazione
era fortissimo.
Era, infatti, una persona sicuramente interessante e complessa.
Per quanto mi concerne, lo conobbi all'inizio degli anni '70 in
un'occasione per me singolare, un convegno organizzato dalla rivista
"L'Erba Voglio".
Franco veniva dalla Federazione Comunista Libertaria di Roma, uno dei
gruppi allora definiti piattaformisti del movimento anarchico.
Nonostante i piattaformisti fossero o, almeno, fossero ritenuti una
versione bolscevizzante dell'anarchismo, il gruppo piattaformista
romano, e Franco in particolare, tendeva ad un superamento del
movimento anarchico specifico e a un'adesione a un più ampio
movimento di opposizione sociale, quello che, in maniera per la
verità imprecisa, venne anche definito come l'autonomia diffusa.
In quell'occasione nacque un sodalizio molto forte. Entrambi, pur
venendo da esperienze alquanto diverse, ci proponevamo una
ridefinizione di una prassi e di un'elaborazione libertarie che ci
sembravano allora, magari con qualche presunzione da parte nostra,
inadeguate al livello dello scontro politico e sociale del tempo. In
quegli anni tentammo di ripercorrere una serie di elaborazioni teoriche
del passato dall'anarchismo classista e comunista al consiliarismo
passando per l'unionismo industriale degli IWW e per l'elaborazione
della sinistra antiburocratica degli anni '50 e '60 come quella
rappresentata dalla rivista "Socialisme ou Barbarie".
Questo mentre eravamo impegnati 25 ore al giorno nelle lotte e nel
confronto con altre posizioni teoriche e politiche. Dal nostro
incontro, e soprattutto dalla nostra collaborazione con diversi altri
compagni, nacque, in particolare, la versione stampata della rivista
"Collegamenti per l'organizzazione diretta di classe" che, sino al 1976
era uscita come un bollettino ciclostilato essenzialmente milanese.
La redazione della rivista era allora un laboratorio politico per noi
appassionante, un luogo di confronto di idee, di ricerche, di
esperienze.
Franco in quell'ambiente giocava un ruolo importante. Una solida
preparazione, una straordinaria curiosità intellettuale, una
qualità notevolissima dell'esposizione e della scrittura ne
facevano un redattore di primo piano e, soprattutto, un interlocutore
in mille avventure politiche ed esistenziali. La redazione allora era,
è opportuno ricordarlo, prima un collettivo politico che un
luogo di studio. La definizione "per l'organizzazione diretta di
classe" era presa assolutamente sul serio.
La redazione di Roma della rivista portava nella discussione
un'attitudine parzialmente diversa rispetto a quelle "nordiste", una
maggior attenzione al quadro politico e l'ambizione di svolgere un
ruolo nelle vicende dell'estrema sinistra politica del tempo che erano
sostanzialmente assenti nella componente classista dura dei compagni
del nord. Ricordo ancora le risate che ci facevamo quando Franco
raccontava che diffondeva con altri il primo numero della rivista
durante i fatti del '77 romano pubblicizzandola come rivista moralista
e fabbrichista. Franco non era solo, in quegli anni, un compagno. Era
anche un amico della lunga adolescenza che accompagnava il maggio
rampante italiano. Con lui se ne combinavano di tutti i colori dalle
mangiate pantagrueliche alcune delle quali meriterebbero una narrazione
a parte alle avventure con le signorine che, in più di
un'occasione, furono le stesse. Con lui e con Gianni Carrozza, il terzo
membro più stretto del nostro sodalizio, conquistammo sul campo
il soprannome di "I tre mandarini" ad opera di un ruspigante gruppo di
operai toscani più classisti, almeno nelle intenzioni, di noi e
decidemmo di dar vita ad una rivista letteraria dallo stesso titolo,
rivista che non vide mai la luce. Assieme vivemmo la fine del maggio
rampante e le prime lotte del precariato sociale, la nascita di
"Collegamenti Wobbly", scoprimmo assieme, come scriveva nella citazione
che ho posto a premessa di questo ricordo, che i colori del tramonto
sono simili a quelli dell'alba.
Prendemmo poi strade diverse, lui divenne un importante dirigente
bancario, per un verso e "Sbancor", il critico corrosivo della politica
internazionale, per l'altro e il mutare stesso del nostro stile di vita
portò a diradare i rapporti.
Restò un'amicizia importante e una serie di incontri anche se
non frequenti. Mi parlava a volte dei suoi libri e delle sue ricerche,
delle sue curiosità e delle sue inquietudini.
Sapevo di suoi problemi di salute e di sue sofferenze interiori e sin
da quando lo avevo conosciuto mi era chiaro che il suo vitalismo, come
sovente avviene ai vitalismi, era la maschera di tensioni profonde e di
un sostanziale male di vivere.
Con lui, è buffo ricordarlo, giocavo a volte la parte del saggio.
Ora non potrò più tirargli metaforicamente le orecchie e
sentire le sue risposte a volte ironiche a volte ciniche e la cosa mi
mancherà molto.
Cosimo Scarinzi