Quando alla fine di aprile è stata annunciata la fusione di
Fiat con Chrysler, ovvero il salvataggio della più piccola delle
big three di Detroit, un'ondata di entusiasmo ha attraversato il Bel
Paese. La nostra piccola casa automobilistica, gracile e assistita,
salvata da sicuro fallimento negli anni 2002/2003 con la svendita dei
gioielli di famiglia dell'impero Agnelli, risorta nella Pasqua di
Resurrezione dell'era Marchionne, andava in soccorso del gigante
americano ormai quasi cadavere.
Oltretutto il salvataggio sarebbe avvenuto senza costi e conseguenze
pesanti: la Chrysler verrà pilotata in un fallimento assistito,
rapido e a tempo, incasserà 5/6 miliardi di dollari di incentivi
dal governo americano, i lavoratori avranno il 55% delle azioni in
cambio di duri sacrifici su salari, sanità e pensioni, la Fiat
avrà il 20% prima, il 35% poi e il 49,9% alla fine, se tutto
andrà bene da qui al 2013. Andare bene significa fare vendere a
Chrysler 1,5 milioni di auto fuori dagli Usa ed essere in grado di
restituire i prestiti pubblici. In cambio Fiat dovrà
mettere a disposizione i suoi motori, le sue tecnologie, i suoi manager
e le sue capacità organizzative, per tentare di raddrizzare la
sorte di Chrysler e fare ripartire le vendite. Nessun investimento
finanziario importante, soltanto tecnologie, idee e materia grigia. A
Torino possono interessare Jeep e Dodge per i mercati europei e la rete
di concessionarie Chrysler negli Usa, per piazzare Alfa e 500. A
Detroit possono servire i motori a basso impatto ambientale studiati a
Torino, ed in particolare il multiair, l'ultima creatura del Centro
Ricerche Fiat, che sembra lavorare con maggiore efficienza e
risparmio di consumo fino al 45%, in una riedizione aggiornata del
multijet e del common rail.
Il solito genio italico che riesce a piazzare all'estero i propri articoli?
La realtà sembra un po' diversa da questa autentica favola e la
scommessa per sopravvivere nel competitivo mondo dell'auto è
tutt'altro che vinta. La seconda puntata dello show, cioè la
trattativa su Opel, lo sta dimostrando ampiamente.
Il settore dell'automotive riscontra la presenza, a livello mondiale,
di una strutturale sovracapacità produttiva: le fabbriche sono
in grado di sfornare 100 milioni di pezzi l'anno, il mercato è
in grado di assorbirne solo 60. La crescita dei mercati emergenti,
compressa da limiti ecologici, fisici e economici, non è in
grado di compensare la stagnazione dei mercati maturi e saturi, dove si
assiste ad un lento processo di sostituzione, appesantito dalla crisi e
dalla irrazionalità del modello di trasporto prevalente. In una
fase di crisi dirompente, come l'attuale, il processo di
cannibalizzazione tra produttori è inevitabile: secondo
Marchionne solo 5/6 produttori potranno sopravvivere, se sapranno
attestarsi sopra i 6 milioni di pezzi venduti ogni anno. Solo
aggregandosi si può continuare a competere.
Già dagli anni '70 è esploso il problema della scarsa
redditività dell'investimento e la tentazione di liberarsi del
settore auto, specialmente per quei produttori più deboli, come
Fiat, dove i punti di forza (i segmenti bassi della gamma prodotti)
corrispondono agli utili più modesti. Oggi la Fiat guadagna in
media 2.500 euro a pezzo venduto, la Bmw oltre 8.000. La famiglia
Agnelli, pletorica e rissosa, succhia dividendi tramite Exor (il nome
nuovo di Ifil) e vorrebbe uscire dagli alti e bassi del ciclo dell'auto
per stabilizzare le proprie rendite concentrandosi su business
più profittevoli e meno volatili.
La nuova occasione di Fiat è l'assorbimento di Opel, la
divisione europea di GM, votata al fallimento entro il prossimo 1°
giugno. Nell'attesa di capire cosa accadrà a GM, il governo
tedesco cerca un partner per Opel, che racchiude circa l'ottanta per
cento delle attività GM Europa, ha in Germania 4 stabilimenti ed
occupa decine di migliaia di addetti. Il governo Merkel si appresta a
blindare la Opel attraverso la nomina di un amministratore fiduciario,
il finanziamento delle attività tramite le banche regionali dei
Lander che ne ospitano le fabbriche e la ricerca di un partner
industriale, che a questo punto non può essere altri che Fiat
oppure il gruppo austro-canadese di Magna, finanziato dalla banca russa
Sberbank. E' ancora presto per dire se Fiat vincerà, ma il piano
industriale presentato al governo tedesco, reso noto dai sindacalisti
della Fiom e dell'Ig Metall, non può che destare forti
inquietudini per le sue ricadute sugli stabilimenti, italiani e non
solo.
A fronte dei 5/6 miliardi di euro che il governo tedesco sembra
disposto ad offrire per salvare Opel, il piano Marchionne prevede il
taglio di 18 mila posti di lavoro. La sovrapposizione dei modelli nei
vari segmenti è infatti marcata: non dimentichiamo che GM e FIAT
sono state sul punto di fondersi ed avevano sviluppato ampie
collaborazioni su piattaforme e prodotti. Le sovrapposizioni
interessano in particolare i cinque segmenti di mercato che
rappresentano la componente principale del fatturato dei due gruppi.
Nel segmento A delle city car lo scontro è ad Est: la Fiat
produce 500, 600 e Panda a Tichy (Polonia), la Opel produce l'Agila a
Gliwice (Polonia) e ad Estergom (Ungheria). Nel segmento B delle
utilitarie, lo scontro è Italia-Germania-Spagna, perché
Melfi produce Grande Punto, Termini Imprese Lancia Ypsilon, mentre da
Eisenach (Germania) e da Zaragoza (Spagna) escono le Opel Corsa. Nel
segmento C lo scontro è su scala europea: Cassino produce Bravo
e Delta, Pomigliano l'Alfa 147, mentre a Bochum (Germania), Ellesemere
(GB) e Anversa (Belgio) si producono le Astra, il vero polmone
finanziario di Opel. Anche nel segmento D sarà guerra: Cassino e
Pomigliano fanno Croma e Alfa 159, mentre il quartier generale di Opel,
a Russelsheim, sforna le Vectra. Infine il segmento dei monovolumi:
Mirafiori produce Multipla, Idea e Musa, mentre Zaragoza, Bochum e
Gliwice fanno Meriva e Zafira. Dei 14 stabilimenti europei di Fiat-Opel
, rischiano di chiudere almeno 7 stabilimenti: due inglesi, tre
tedeschi e i due italiani di Pomigliano d'Arco e Termini Imerese.
Tutto questo si svolge in un contesto dove la caduta della domanda
è fortissima, dove i crolli di gennaio e febbraio sono stati
rispettivamente del 27% e del 18%, con marzo a -9% e aprile a -12%.
Solo gli incentivi alla rottamazione hanno dato un po' di respiro ad
una situazione che resta comunque pesante ed incerta.
La Fiat punta naturalmente a fare il colpo grosso, salire di taglia,
farsi dare i soldi dai governi, chiudere più fabbriche e
tagliare più posti di lavoro possibile e poi rilanciare la
partita, andando all'assalto anche delle redditizie attività
sudamericane di GM, infine ripartire con il risiko europeo,
puntando a Peugeot-Citroen, con lo sviluppo in Asia, puntando su Honda,
e l'espansione in India, tramite Tata.
A livello di immagine, il gruppo ha fatto negli anni un grosso lavoro
di svecchiamento, azzerando i vecchi vertici, adottando uno stile
glamour con i pullover di Marchionne, la generazione dei quarantenni,
il nuovo stile Fiat, i nidi aziendali, la possibilità di
pitturarsi le pareti negli uffici e nelle sedi, la ricostruzione della
comunicazione aziendale. Nelle fabbriche invece i vecchi metodi non
sono mai cambiati: scontro duro su ritmi e turni, saturazione dei
tempi, trasferimenti punitivi, licenziamenti per rappresaglia.
L'azienda piatta non rinuncia alla durezza della catena gerarchica e
all'assolutismo delle sue decisioni.
Nel sindacato c'è chi, come Bonanni, saluta con allegria la fine
del compromesso tra Lingotto e Fiom e rilancia il modello del sindacato
partecipativo e collaborativo, proprietario delle azioni, presente
nella stanza dei bottoni. Sacrifici e responsabilità, l'azienda
deve sopravvivere, pazienza se occorre rinunciare a qualcosa o a tutto.
Nella Fiom sopravvivono malamente idee diverse, ma annichilite
dall'isolamento, dalla debolezza del proprio insediamento produttivo,
dalla subalternità al quadro politico, dalla mancanza di
autonomia. I sindacati di base subiscono la durezza delle condizioni
materiali in cui operano, la repressione aziendale, svolta in forma
congiunta dalla gerarchia di fabbrica e dalle quadrate legioni delle
sigle confederali. Non è difficile comprendere la
difficoltà di sviluppare iniziativa in un contesto così
pesante, con lavoratori passivi, bloccati da ricatti, paura e
rassegnazione.
Mentre dilaga la cassa integrazione, alla Fiat si impongono i sabati
lavorativi. Lo sciopero indetto fallisce per la fame di reddito dei
lavoratori: l'emblema più efficace della condizione disperata in
cui vivono gli operai, fra miseria economica e paura di perdere anche
quel minimo di garanzie residue.
La crisi e le sue dinamiche stanno spazzando via le ultime illusioni:
non ci sono pasti gratis e nemmeno posti a sedere per tutti, nel nuovo
capitalismo post-finanziario. La possibilità di difendere gli
assetti socio-economici tradizionali viene erosa da processi
rapidissimi, in grado di stravolgere lo statuto della convivenza
sociale. Solo un cambiamento altrettanto rapido dell'agire collettivo,
la capacità di pensare e lottare per una struttura sociale meno
escludente e più inclusiva possono fermare il degrado. Nella
crisi nascono nuovi assetti sociali e noi siamo pienamente dentro
questo processo.
Renato Strumia