Umanità Nova, n.20 del 24 maggio 2009, anno 89

Fiat-Opel. Quando si fonde l’auto...


Quando alla fine di aprile è stata annunciata la fusione di Fiat con Chrysler, ovvero il salvataggio della più piccola delle big three di Detroit, un'ondata di entusiasmo ha attraversato il Bel Paese. La nostra piccola casa automobilistica, gracile e assistita, salvata da sicuro fallimento negli anni 2002/2003 con la svendita dei gioielli di famiglia dell'impero Agnelli, risorta nella Pasqua di Resurrezione dell'era Marchionne, andava in soccorso del gigante americano ormai quasi cadavere.
Oltretutto il salvataggio sarebbe avvenuto senza costi e conseguenze pesanti: la Chrysler verrà pilotata in un fallimento assistito, rapido e a tempo, incasserà 5/6 miliardi di dollari di incentivi dal governo americano, i lavoratori avranno il 55% delle azioni in cambio di duri sacrifici su salari, sanità e pensioni, la Fiat avrà il 20% prima, il 35% poi e il 49,9% alla fine, se tutto andrà bene da qui al 2013. Andare bene significa fare vendere a Chrysler 1,5 milioni di auto fuori dagli Usa ed essere in grado di restituire i prestiti pubblici.  In cambio Fiat dovrà mettere a disposizione i suoi motori, le sue tecnologie, i suoi manager e le sue capacità organizzative, per tentare di raddrizzare la sorte di Chrysler e fare ripartire le vendite. Nessun investimento finanziario importante, soltanto tecnologie, idee e materia grigia. A Torino possono interessare Jeep e Dodge per i mercati europei e la rete di concessionarie Chrysler negli Usa, per piazzare Alfa e 500. A Detroit possono servire i motori a basso impatto ambientale studiati a Torino, ed in particolare il multiair, l'ultima creatura del Centro Ricerche Fiat,  che sembra lavorare con maggiore efficienza e risparmio di consumo fino al 45%, in una riedizione aggiornata del multijet  e del common rail.
Il solito genio italico che riesce a piazzare all'estero i propri articoli?
La realtà sembra un po' diversa da questa autentica favola e la scommessa per sopravvivere nel competitivo mondo dell'auto è tutt'altro che vinta. La seconda puntata dello show, cioè la trattativa su Opel, lo sta dimostrando ampiamente.
Il settore dell'automotive riscontra la presenza, a livello mondiale, di una strutturale sovracapacità produttiva: le fabbriche sono in grado di sfornare 100 milioni di pezzi l'anno, il mercato è in grado di assorbirne solo 60. La crescita dei mercati emergenti, compressa da limiti ecologici, fisici e economici, non è in grado di compensare la stagnazione dei mercati maturi e saturi, dove si assiste ad un lento processo di sostituzione, appesantito dalla crisi e dalla irrazionalità del modello di trasporto prevalente. In una fase di crisi dirompente, come l'attuale, il processo di cannibalizzazione tra produttori è inevitabile: secondo Marchionne solo 5/6 produttori potranno sopravvivere, se sapranno attestarsi sopra i 6 milioni di pezzi venduti ogni anno. Solo aggregandosi si può continuare a competere.
Già dagli anni '70 è esploso il problema della scarsa redditività dell'investimento e la tentazione di liberarsi del settore auto, specialmente per quei produttori più deboli, come Fiat, dove i punti di forza (i segmenti bassi della gamma prodotti) corrispondono agli utili più modesti. Oggi la Fiat guadagna in media 2.500 euro a pezzo venduto, la Bmw oltre 8.000. La famiglia Agnelli, pletorica e rissosa, succhia dividendi tramite Exor (il nome nuovo di Ifil) e vorrebbe uscire dagli alti e bassi del ciclo dell'auto per stabilizzare le proprie rendite concentrandosi su business più profittevoli e meno volatili.
La nuova occasione di Fiat è l'assorbimento di Opel, la divisione europea di GM, votata al fallimento entro il prossimo 1° giugno. Nell'attesa di capire cosa accadrà a GM, il governo tedesco cerca un partner per Opel, che racchiude circa l'ottanta per cento delle attività GM Europa, ha in Germania 4 stabilimenti ed occupa decine di migliaia di addetti. Il governo Merkel si appresta a blindare la Opel attraverso la nomina di un amministratore fiduciario, il finanziamento delle attività tramite le banche regionali dei Lander che ne ospitano le fabbriche e la ricerca di un partner industriale, che a questo punto non può essere altri che Fiat oppure il gruppo austro-canadese di Magna, finanziato dalla banca russa Sberbank. E' ancora presto per dire se Fiat vincerà, ma il piano industriale presentato al governo tedesco, reso noto dai sindacalisti della Fiom e dell'Ig Metall, non può che destare forti inquietudini per le sue ricadute sugli stabilimenti, italiani e non solo.
A fronte dei 5/6 miliardi di euro che il governo tedesco sembra disposto ad offrire per salvare Opel, il piano Marchionne prevede il taglio di 18 mila posti di lavoro. La sovrapposizione dei modelli nei vari segmenti è infatti marcata: non dimentichiamo che GM e FIAT sono state sul punto di fondersi ed avevano sviluppato ampie collaborazioni su piattaforme e prodotti. Le sovrapposizioni interessano in particolare i cinque segmenti di mercato che rappresentano la componente principale del fatturato dei due gruppi. Nel segmento A delle city car lo scontro è ad Est:  la Fiat produce 500, 600 e Panda a Tichy (Polonia), la Opel produce l'Agila a Gliwice (Polonia) e ad Estergom (Ungheria). Nel segmento B delle utilitarie, lo scontro è Italia-Germania-Spagna, perché Melfi produce Grande Punto, Termini Imprese Lancia Ypsilon, mentre da Eisenach (Germania) e da Zaragoza (Spagna) escono le Opel Corsa. Nel segmento C lo scontro è su scala europea: Cassino produce Bravo e Delta, Pomigliano l'Alfa 147, mentre a Bochum (Germania), Ellesemere (GB) e Anversa (Belgio) si producono le Astra, il vero polmone finanziario di Opel. Anche nel segmento D sarà guerra: Cassino e Pomigliano fanno Croma e Alfa 159, mentre il quartier generale di Opel, a Russelsheim, sforna le Vectra. Infine il segmento dei monovolumi: Mirafiori produce Multipla, Idea e Musa, mentre Zaragoza, Bochum e Gliwice fanno Meriva e Zafira. Dei 14 stabilimenti europei di Fiat-Opel , rischiano di chiudere almeno 7 stabilimenti: due inglesi, tre tedeschi e i due italiani di Pomigliano d'Arco e Termini Imerese.
Tutto questo si svolge in un contesto dove la caduta della domanda è fortissima, dove i crolli di gennaio e febbraio sono stati rispettivamente del 27% e del 18%, con marzo a -9% e aprile a -12%. Solo gli incentivi alla rottamazione hanno dato un po' di respiro ad una situazione che resta comunque pesante ed incerta.
La Fiat punta naturalmente a fare il colpo grosso, salire di taglia, farsi dare i soldi dai governi, chiudere più fabbriche e tagliare più posti di lavoro possibile e poi rilanciare la partita, andando all'assalto anche delle redditizie attività sudamericane  di GM, infine ripartire con il risiko europeo, puntando a Peugeot-Citroen, con lo sviluppo in Asia, puntando su Honda, e l'espansione in India, tramite Tata.
A livello di immagine, il gruppo ha fatto negli anni un grosso lavoro di svecchiamento, azzerando i vecchi vertici, adottando uno stile glamour con i pullover di Marchionne, la generazione dei quarantenni, il nuovo stile Fiat, i nidi aziendali, la possibilità di pitturarsi le pareti negli uffici e nelle sedi, la ricostruzione della comunicazione aziendale. Nelle fabbriche invece i vecchi metodi non sono mai cambiati: scontro duro su ritmi e turni, saturazione dei tempi, trasferimenti punitivi, licenziamenti per rappresaglia. L'azienda piatta non rinuncia alla durezza della catena gerarchica e all'assolutismo delle sue decisioni.
Nel sindacato c'è chi, come Bonanni, saluta con allegria la fine del compromesso tra Lingotto e Fiom e rilancia il modello del sindacato partecipativo e collaborativo, proprietario delle azioni, presente nella stanza dei bottoni. Sacrifici e responsabilità, l'azienda deve sopravvivere, pazienza se occorre rinunciare a qualcosa o a tutto. Nella Fiom sopravvivono malamente idee diverse, ma annichilite dall'isolamento, dalla debolezza del proprio insediamento produttivo, dalla subalternità al quadro politico, dalla mancanza di autonomia. I sindacati di base subiscono la durezza delle condizioni materiali in cui operano, la repressione aziendale, svolta in forma congiunta dalla gerarchia di fabbrica e dalle quadrate legioni delle sigle confederali. Non è difficile comprendere la difficoltà di sviluppare iniziativa in un contesto così pesante, con lavoratori passivi, bloccati da ricatti, paura e rassegnazione.
Mentre dilaga la cassa integrazione, alla Fiat si impongono i sabati lavorativi. Lo sciopero indetto fallisce per la fame di reddito dei lavoratori: l'emblema più efficace della condizione disperata in cui vivono gli operai, fra miseria economica e paura di perdere anche quel minimo di garanzie residue.
La crisi e le sue dinamiche stanno spazzando via le ultime illusioni: non ci sono pasti gratis e nemmeno posti a sedere per tutti, nel nuovo capitalismo post-finanziario. La possibilità di difendere gli assetti socio-economici tradizionali viene erosa da processi rapidissimi, in grado di stravolgere lo statuto della convivenza sociale. Solo un cambiamento altrettanto rapido dell'agire collettivo, la capacità di pensare e lottare per una struttura sociale meno escludente e più inclusiva possono fermare il degrado. Nella crisi nascono nuovi assetti sociali e noi siamo pienamente dentro questo processo.

Renato Strumia

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