Un nuovo libro sulla strage del 12 dicembre 1969 avanza un'ipotesi
che ha dell'incredibile: Pietro Valpreda ha portato veramente una bomba
nella Banca nazionale dell'agricoltura. Ma credeva di fare solo un
attentato dimostrativo. In realtà era teleguidato dai
neonazisti. Ed era affiancato da un sosia che ha deposto nell'istituto
di credito un'altra bomba.
«Sulla tomba di Pino Pinelli c'è proprio una poesia di
quell'antologia che, un natale, il commissario Calabresi regalò
all'anarchico». Siamo a pagina 621 de "Il segreto di Piazza
Fontana" (Ponte alle grazie, Milano, 2009) scritto da Paolo
Cucchiarelli, giornalista dell'agenzia di stampa Ansa. Un libro da non
sottovalutare. Con ricostruzioni e indagini approfondite, ma capace di
affiancare a queste indagini anche ipotesi senza fondamenti oggettivi,
o svarioni... Uno di questi errori, irrilevante, certo, però
indicativo di un modo di procedere, è proprio la frase
riportata. Perché, come lo stesso Calabresi aveva dichiarato al
processo contro Lotta continua, lui aveva regalato a Pinelli "Mille
milioni di uomini" di Enrico Emanuelli e Pinelli, per non sentirsi in
debito con un commissario di polizia, aveva contraccambiato con il suo
libro preferito: Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.
Ma questo, lo ripeto, è un dettaglio di poco conto. Quello che
conta è la nuova tesi: alla Banca nazionale dell'agricoltura il
pomeriggio del 12 dicembre non scoppiò una sola bomba, ma ne
scoppiarono due. Una portata da Pietro Valpreda, anarchico, un'altra da
Claudio Orsi, neonazista e sosia di Valpreda. E così la storia
di quell'assurdo viaggio di Valpreda che prende un taxi in piazza
Beccaria per farsi portare in via Santa Tecla, scendere dicendo al
tassista di aspettarlo e poi farsi portare in via Albricci diventa il
doppio di un altro viaggio, sempre in taxi, di Orsi. Con destinazione
la Banca dell'agricoltura. Come ho già sottolineato nel mio
libro "Bombe e segreti. Piazza Fontana: una strage senza colpevoli",
Valpreda avrebbe preso un taxi per risparmiarsi 135 metri di percorso
(da piazza Beccaria alla banca) per farne 234 (da via Santa Tecla alla
banca e ritorno). Con in più il concreto rischio di lasciare una
traccia su un tassista a cui si chiede un tragitto così strano.
Ma per Cucchiarelli questo non è di ostacolo: c'è un
altro attentatore, Orsi, che prende un taxi per andare a deporre la
seconda bomba alla Banca dell'agricoltura.
Il motivo? «In questo caso, quale doveva essere il ruolo da
assegnare a un sosia di Valpreda? Solo un ruolo aveva un senso: doveva
incastrare il ballerino. Ma se la prima cosa che può venire in
mente è che il sosia avesse agito in suo luogo, ora tutti gli
elementi che dimostrano la presenza di una doppia bomba a piazza
Fontana ci indicano un'altra soluzione: il sosia doveva incastrarlo
agendo in parallelo con lui, su un altro taxi. A questo punto è
chiara la ragione di una così macchinosa messa in scena. Se due
bombe parallele dovevano arrivare alla BNA, si doveva avere la certezza
che sempre e comunque uno sarebbe risultato l'uomo incriminato. E due
uomini diventano uno, se sono molto somiglianti» (p. 207).
Ma come poteva sapere il sosia che Valpreda avrebbe preso un taxi? E
quali sono gli elementi per dire che Valpreda fosse quel giorno in
piazza Fontana? Solo la testimonianza di Rolandi che già nei
lunghi processi su piazza Fontana ha perso ogni credibilità.
Ma Cucchiarelli non si ferma di fronte a queste
«banalità» e a pagina 315 scrive: «Quando
lasciò Roma l'11 dicembre, Valpreda aveva una certezza, ferma,
concreta: doveva collocare a Milano una borsa con un ordigno non
destinato a uccidere, una bomba di protesta. Era un'operazione
semplice, lineare: doveva andare a prendere la borsa in un certo posto,
portarla alla banca e andarsene in fretta. Forse non stava molto bene e
comunque non poteva rimanere troppo tempo in giro: doveva tornare a
casa dalla zia. Doveva avere un alibi.
Quando aveva ritirato la borsa a Milano, attorno a lui c'erano volti
che l'anarchico riteneva sicuri. Il timer aveva – apparentemente – due
ore di corsa prima che il circuito si chiudesse (…) La vera corsa del
temporizzatore invece era di un'ora. (…) Pietro non seppe, non vide o
non capì. Il risultato fu identico: doveva essere solo un gesto
esemplare; fu la strage».
Qui siamo al romanzo. Ma le inchieste devono basarsi sulla
ricostruzione dei fatti, su fonti attendibili, su circostanze
riscontrabili. In questo caso c'è solo un'ipotesi, fantasiosa
certo, ma che non ha riscontri. Un'ipotesi che cerca di ridare
dignità, in fondo, a quella maldestra messa in scena che
quarant'anni fa cercava di coprire i veri responsabili e, soprattutto,
i loro mandanti. Troppo facile inventare storie che in questa stagione
di «revisionismo» i giornali sono pronti a rilanciare.
Luciano Lanza