Umanità Nova, n.25 del 28 giugno 2009, anno 89

Una crisi tira l’altra


Il peggio è ormai passato. È una frase sentita molte, troppe volte in questi due anni passati dallo scoppio della crisi che, ricordiamolo, è datato agosto 2007 (crollo del valore dei titoli azionari delle principali banche americane).
Da alcune settimane i giornali traboccano di dichiarazioni rassicuranti di politici, economisti e giornalisti che segnalano come le cose non stiano andando più tanto male. È davvero così? In realtà, per ogni paese esistono svariate decine di indicatori che rilevano lo stato dell'economia. Negli ultimi tempi l'esercizio più praticato dai centri di previsione congiunturale è quello di scovarne almeno un paio che mostrino un andamento positivo. Non è impossibile, poiché è difficile che proprio tutto vada peggio del mese o del trimestre precedente. Su questa fragile base i media costruiscono l'ottimismo da elargire al popolo. È anch'esso, in un certo senso, un provvedimento anticrisi, dato che uno dei contributi per alleviare questo periodo negativo della congiuntura consiste proprio nell'infondere fiducia agli operatori economici affinché spendano e investano. I risultati effettivi di queste "misure" li vedremo nei prossimi 3 – 4 mesi.
Certo è che gli squilibri che stanno alla base del collasso economico sperimentato dalle principali economie mondiali non sono venuti meno. Le disuguaglianze sociali non si sono ridotte, il tasso di risparmio asiatico è ancora molto alto così come è tuttora molto basso quello degli statunitensi. Le banche, dopo le iniezioni di denaro statale, stanno sicuramente meglio ma, in compenso, i debiti pubblici si stanno gonfiando a dismisura, generando apprensione addirittura sulla solvibilità degli Stati Uniti. Se queste sono le basi della ripresa economica… beh, siamo pronti per un'altra crisi!
Uno dei segnali di risveglio delle attività, sostengono molti osservatori, è l'aumento del prezzo del petrolio, che ha superato i 70 dollari al barile. Incrementi nei costi si registrano anche per altre materie prime. Vuol dire, affermano gli ottimisti, che c'è fiducia e le imprese hanno ricominciato a fare ordini di materiale. Strano. Gli indici della produzione industriale segnalano, con riferimento allo stesso periodo dell'anno scorso, un -21,8% nel primo quadrimestre per l'Italia e -21,6% in aprile per l'Unione Europea. Sempre nell'Unione, nei primi quattro mesi del 2009, gli occupati sono diminuiti di 1 milione e 220 mila persone. Se l'attività produttiva sta ripartendo come è possibile che produzione industriale ed occupati diminuiscano? L'aumento dei prezzi delle materie prime e del petrolio in particolare, con tutta probabilità, sono dovuti allo stesso fenomeno che nel 2008 ha portato un barile di greggio a costare 147 dollari: la speculazione.
I provvedimenti presi dai governi e dalle banche centrali per contrastare l'estendersi della crisi, hanno generato enormi volumi di liquidità, capitali che gli investitori finanziari non possono lasciare improduttivi. Per un po' hanno acquistato titoli di Stato poi, anche per spuntare rendimenti maggiori, hanno ripreso ad acquistare azioni e future sulle materie prime. Lo abbiamo già sperimentato l'anno scorso quando, incautamente, qualcuno ha cercato di addossare la colpa del rialzo dei prezzi dei prodotti agricoli all'aumento delle superfici coltivate per la produzione di bio-carburanti. Come si è poi visto, erano gli operatori finanziari, hedge fund in testa, che acquistavano per concludere lucrosi affari. Finita la festa, ritirati i capitali investiti, i prezzi delle materie prime sono scesi a livelli più fisiologici (il petrolio è sceso dai 137 dollari al barile dell'estate ai 40 di dicembre). Non è da escludere che tale valzer si ripeta anche questa volta.
Quanto alla ripresa economica, purtroppo nei prossimi mesi dovremo aspettarci un peggioramento della situazione, soprattutto in Italia. Le imprese più deboli chiuderanno i battenti, aumentando il numero dei disoccupati. Questi ultimi ridurranno i consumi frenando ulteriormente la circolazione monetaria ed estendendo i riflessi recessivi anche alle aziende meno fragili. Le autorità pubbliche potranno effettuare interventi limitati, pena il rischio di declassamento del pesante debito pubblico italiano. Potremo aspettarci una inversione di tendenza non prima del momento in cui le grandi economie mondiali (Usa, Cina, Germania, Giappone) avranno ripreso un percorso di sviluppo e solo se le esportazioni italiane saranno ancora competitive.
Non vuole essere le descrizione della fine del mondo, occorrerà tempo ma, in qualche modo, si uscirà anche da questa crisi. Tuttavia sarebbe bene chiedersi in che modo e, comunque, non aspettarsi buone notizie dall'oggi al domani. Passando agli insegnamenti da trarre da quanto sperimentato fino ad oggi, è sempre più difficile negare che il capitalismo è un sistema instabile per sua natura. Tale instabilità è tanto più accentuata quanto maggiore è la disuguaglianza sociale. Per uscire da questa crisi, in fretta e con basi solide per il futuro, occorrerebbe ridurre la disuguaglianza sociale. Per non avere più crisi di questa portata occorrerebbe superare il capitalismo.

Toni Iero

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