Umanità Nova, n.25 del 28 giugno 2009, anno 89

Guerre d’Asia


La situazione del Pakistan si va facendo ogni giorno più difficile. Specchio di questa progressiva instabilità è la capitale Islamabad che, dopo gli attentati suicidi delle ultime settimane, viene descritta da tutti i media come una città disseminata di barriere in cemento, posti di blocco e presidi dell'esercito in ogni strada. Il Presidente Zardari, vedova dell'ex primo ministro Benazir Bhutto, uccisa il 27 dicembre del 2007 da un commando di taliban pakistani sembra in diretto contatto con Al Qaeda, non esce nemmeno dal palazzo presidenziale ed è la miglior immagine di un paese sull'orlo del caos.
Zardari, ai tempi del governo della moglie noto come "mister 10%" per il suo ruolo nell'assegnazione dei fondi pubblici e nel pilotaggio degli appalti, è stato eletto poco più di un anno fa sull'onda dell'emozione per l'assassinio della moglie. Oggi il suo partito, il PPP, pallido erede del partito nazionalista progressista fondato dal suocero Ali Bhutto nel 1972 dopo la sconfitta del Pakistan nella guerra contro l'India per il Bagla Desh, è ai minimi storici. L'incapacità di gestire la guerra contro i taliban pakistani, la scandalosa sorte di almeno un milione di abitanti della zona di guerra oggi profughi in improvvisate tendopoli, la crisi economica in cui è precipitato il paese e il clima di terrore diffuso, hanno fatto del primo governo elettivo dopo la dittatura del generale Musharraf iniziata nel 1999, un disastroso fallimento.
La guerra tra l'esercito pakistano e i taliban, vecchi alleati dal tempo dell'invasione russa dell'Afganistan, è concentrata nei territori della frontiera di nord ovest e in quelli delle aree tribali, zone del paese dove da sempre l'unica autorità riconosciuta è quella dei capi villaggio e dei mullah. Ai tempi dell'appoggio pakistano agli insorgenti islamisti dell'Afganistan e al governo taliban del paese questa vicinanza è stata utilizzata in modo spregiudicato per dirigere il contrasto alle mire sovietiche nell'area e all'egemonia indiana sul governo impiantato dagli americani a Kabul dopo l'11 settembre e la breve guerra di invasione dell'Afganistan. Oggi proprio i rapporti strettissimi tra i pashtun afgani e quelli pakistani rendono impossibile i tentativi di normalizzazione della zona da parte del governo di Islamabad.
Inoltre i partiti islamisti del Pakistan appoggiano in modo discreto l'offensiva taliban in modo da mettere in sempre maggiore difficoltà Zardari e con lui l'élite occidentalizzante del paese. I governi delle aree tribali e quello della provincia di nord ovest non esistono più e la criminalità politica e comune gestisce il territorio. Nella sola Peshawar, capoluogo della provincia, ci sono stati 180 sequestri di persona nei soli primi tre mesi dell'anno; le industrie locali hanno chiuso per mancanza di sicurezza e la luce elettrica è garantita per sole tre ore al giorno. Ad aggravare la situazione bisogna aggiungere che anche l'enorme (per quanto poco abitata) provincia del Belucistan nel sud del paese è in buona parte fuori controllo. Il movimento autonomista dei beluci, popolazione locale indoeuropea di ceppo diverso da quella dominante in Pakistan, controlla più del dieci per cento del territorio e ha sposato una linea islamica simile a quella taliban.
A Karachi, città simbolo del paese, porto sull'Oceano Indiano e residenza di milioni di discendenti dei profughi fuggiti dall'India dopo la partition del 1947, gli scontri tra gruppi etnici e fazioni islamiche hanno fatto 36 morti nel solo mese di maggio. Per finire si segnala la penetrazione del movimento taliban in Punjab, cuore politico ed economico del paese abitato da più di 100 dei 170 milioni di pakistani.
Il reclutamento taliban avviene soprattutto tra i giovani delle classi agricole subalterne e tra i milioni di giovani disoccupati che affollano le periferie delle metropoli. L'età media degli attentori suicidi è di sedici anni. Un'ondata di islamizzazione radicale nelle bidonville popolate da giovanissimi che cingono i quartieri bene ed occidentalizzanti delle città e le ville-fattorie dell'élite occidentalizzante del paese si è abbattuta sul Pakistan ed ha dalla sua il tempo e l'età della popolazione.
L'amministrazione Obama ha posto la propria attenzione in modo sempre più stretto sul Pakistan. Dopo che il 27 marzo il neo presidente aveva annunciato l'invio di 17 mila soldati in Afganistan, la segretaria di stato Clinton ha messo l'accento sugli aiuti al Pakistan e sulla necessità di utilizzare sempre più i soldati europei  nel vicino asiatico in modo da liberare risorse per Islamabad. Il problema americano è che USA, Europa e Giappone sono finora riusciti a mettere assieme circa sette miliardi di dollari quando l'inviato americano per l'area ha calcolato che ce ne vorrebbero almeno cinquanta per evitare il collasso del Pakistan.
L'attuale crisi è nata dalla resa negoziata da governatore della provincia di nord ovest con i gruppi taliban della valle dello Swat. La resa consisteva nell'accettazione dell'applicazione della legge islamica in salsa deobandista (i deobandisti sono una scuola fondamentalista islamica indiana di ispirazione simile a quella wahabita della penisola arabica) e il ritiro dell'esercito dalle aree del conflitto. La resa è avvenuta perchè 12mila soldati non erano riusciti ad avere la meglio su 3mila guerriglieri capaci di essere "come il pesce nell'acqua" e di praticare l'obiettivo distruggendo scuole femminili, ospedali che accettavano il lavoro di infermiere donne, e le case dei "falsi credenti" (ossia di coloro che non accettavano la versione taliban della religione islamica). Gli scontri erano stati veri con migliaia di morti tra la popolazione civile e mezzo milione di profughi. Dopo la resa nello Swat i taliban, coordinando tra loro decine di gruppi locali, hanno continuato ad avanzare occupando uno dopo l'altro i distretti di Buner, Shangla e Dir da dove hanno potuto bloccare le strade per le principali città della provincia e l'autostrada che permette di raggiungere Islamabad. A questo punto il governo, sotto la sferza di Washington e dei donatori occidentali ha ripreso l'offensiva costringendo i taliban a serrarsi sulle montagne ma non riuscendo assolutamente ad avanzare in un territorio montagnoso e pieno di nascondigli per le forze locali che, a differenza degli ufficiali di Islamabad, lo conoscono a menadito.
I gruppi locali ispirati dai taliban sono calcolati in circa quaranta e la loro espansione è vertiginosa. La struttura orizzontale, con un coordinamento molto liquido, non permette loro la programmazione di offensive generali di grande livello ma li rende invincibili localmente. Inoltre nelle aree di insediamento questi gruppi hanno un consenso vero tra le popolazioni locali e sono in grado di terrorizzare adeguatamente i refrattari o gli oppositori.
Il generale Musharaf, alleato per lungo tempo e profondo conoscitore dei pashtun pakistani, ha evitato tra il 2001 e il 2008 di colpire i taliban, concentrando i propri sforzi su Al Qaeda. Non solo, ma ha anche incoraggiato la formazione di milizie pashtun di orientamento taliban in Pakistan, e la crescita dei partiti islamici estremisti in Punjab, come strumenti utili alla ripresa del conflitto contro l'India per il Kashmir e ad evitare che Dehli ottenesse l'egemonia sull'Afganistan. Tra il 2004 e il 2008 periodicamente Musharraf ha scatenato campagne inconcludenti contro le milizie formatesi a partire dal 2003 nelle aree tribali del Pakistan. Ogni campagna è stata conclusa con tregue che prevedevano anche l'aiuto più o meno nascosto dei servizi segreti del paese all'organizzazione militare, in cambio di servigi resi dai gruppi locali nella guerra a bassa intensità con l'India. Nel 2007 questi gruppi si sono coalizzati nella Tehreek-e-Taliban Pakistan (di seguito Ttp) guidata da Baitullah Mehsud, originario del Waziristan e probabile organizzatore dell'omicidio di Benazir Bhutto.
Allo stesso tempo Musharraf e i servizi segreti hanno favorito la costituzione di gruppi estremisti islamici nelle città del paese, finanziati dai sauditi e appoggiati alle scuole coraniche Deobandi. L'azione di questi gruppi è culminata con l'occupazione della Moschea Rossa e con la richiesta di applicazione della legge coranica ad Islamabad. L'esercito all'epoca ritenne di non intervenire ma, sei mesi dopo, Musharraf si è trovato di fronte a una vera e propria insurrezione durata tre giorni e condotta da squadre miste di taliban pashtun, indipendentisti kashmiri e combattenti di Al Qaeda. In quell'occasione i morti sono stati centinaia e i sopravvissuti sono diventati il nucleo centrale del movimento armato islamista nelle città pakistane. L'esercito dopo aver affrontato l'insurrezione ha di nuovo saldato i suoi rapporti con i gruppi che l'avevano condotta allo scopo di utilizzarli nuovamente come combattenti nella guerra a bassa intensità con l'India.
Le elezioni del febbraio 2008 avrebbero dovuto rappresentare un momento di svolta rispetto a questa situazione di stallo dove i presunti contendenti alla luce del sole sono in realtà alleati (sia pur a corrente alternata) nelle ombre della politica pakistana. I partiti islamisti ufficiali sono stati schiantati e le due organizzazioni vittoriose sono state il Partiro della Bhutto e il Partito nazionale Awami, partiro laico vincitore nelle province periferiche come la frontiera del nord ovest ed il Belucistan. Questo voto avrebbe potuto rappresentare uno stimolo ad adottare politiche di sicurezza e di rapporto con i vicini laiche e dettate dagli interessi della popolazione sfiancata da più di sessantanni di guerra (ora calda, ora fredda) permanente. In realtà, invece, le élite occidentalizzanti non hanno mosso un dito per contrastare gli interessi dell'esercito, vera casta padrona del Pakistan e per inaugurare una stagione di riforme sociali necessarie a dotare i settori laici del paese del consenso delle classi agricole ridotte in miseria e degli abitanti delle periferie disperate. D'altra parte i massimi esponenti dei due partiti principali: il PPP e la Lega musulmana di Nawaz Sharif sono latifondisti feudali che controllano direttamente i terreni della parte più fertile del paese: quella attorno al corso dell'Indo.
Così l'assenza di qualsiasi percezione della questione sociale e l'incapacità di contrastare la casta militare, interessata soprattutto alla continuazione della tensione con l'India, hanno portato all'attuale disastro, con un'offensiva senza capo né coda che ha prodotto un milione di sfollati e nessun risulato serio nella lotta contro i taliban, un ceto medio sfiduciato e le classi subalterne sempre più attirate dalla sirena dell'islamismo radicale.  D'altra parte una delle ragioni del successo dei radicali islamici consiste nella parziale redistribuzione delle terre messa in atto nei distretti da loro controllati e dalla diffusione di forme (per quanto religiosamente orientate) di istruzione in un paese dove 20 milioni di giovani sotto i 17 anni non vanno a scuola.
Il Pakistan è una polveriera pronta a saltare in aria e la miccia è già stata accesa.

Giacomo Catrame

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