Il flusso di notizie scatenato dalla crisi post-elettorale iraniana
ha avuto una costante, quella di indicare Internet come il principale
mezzo usato dal movimento di protesta per veicolare informazioni che
altrimenti non sarebbero riuscite ad arrivare all’opinione pubblica
mondiale. Tutti insieme, mass media di destra e sinistra, hanno tessuto
l’elogio della Rete e deprecato la censura della teocrazia al potere,
compiacendosi del fatto che non sia riuscita a bloccare la
libertà di parola. Video, foto, lettere, appelli e cronache
hanno occupato (non solo in Italia) buona parte dei giornali e tutto il
web, amplificando notizie vere e false, probabili e improbabili, in un
unico enorme blob, che ha preso il posto dei servizi dei corrispondenti
ufficiali delle varie agenzie di stampa e testate impossibilitati a
svolgere liberamente il proprio lavoro.
Pochi, per non dire nessuno, dei cantori della libera Internet hanno
provato a spiegare come funziona la censura degli ayatollah, forse
perché somiglia troppo a quella operante in moltissimi altri
paesi, a cominciare dall’Italia.
In Iran ci sono pochi Provider attraverso i quali accedere alla Rete
mondiale e tutti sono costretti ad utilizzare degli elenchi, aggiornati
quotidianamente, che contengono gli indirizzi web proibiti dalle
autorità. Il sistema più usato è quello dei “proxy
server†che potremmo definire una sorta di punto di smistamento del
traffico internet. Se la richiesta che arriva ad un “proxy serverâ€
riguarda un sito presente nella “lista neraâ€, questa richiesta viene
bloccata e l’incauto navigatore viene indirizzato verso una pagina
nella quale lo si avvisa del “peccato†commesso. Uno dei trucchi
più comuni per aggirare questo sistema è quello di
indirizzare la richiesta verso un “proxy server†che sta su un computer
fuori dall’Iran e che non è compreso nell’elenco degli indirizzi
proibiti. In questo modo la richiesta passa il controllo e poi, una
volta arrivata sul computer oltre frontiera viene diretta verso uno dei
siti censurati. Ovviamente questo sistema non può funzionare per
molto tempo, dopo un po’ anche un tecnico fondamentalista noterà
che ci sono troppe richieste indirizzate verso “quel†particolare
computer oltre confine e la cosa diventerà immediatamente
sospetta. Il passo successivo è quello di inserire anche
l’indirizzo di questo computer nella lista dei “cattivi†e porre quindi
fine al giochetto.
Ma il bello di Internet è che per ogni computer bloccato in
questo modo ce ne può essere un altro che si attiva un secondo
dopo per prenderne il posto e quindi ricominciare da capo.
Va tenuto presente che, anche se con alcuni limiti, un qualsiasi
computer casalingo (di quelli che usiamo per accedere ad Internet)
può diventare un “proxy server†e contribuire a prendere in giro
i censori in sottana.
Naturalmente il gioco finirebbe del tutto se solo i governanti iraniani
decidessero di chiudere completamente l’accesso ad Internet ma,
probabilmente, il prezzo da pagare sarebbe molto più alto
rispetto a quello dovuto alla diffusione di qualche filmato.
Una riflessione più generale su questo tema dovrebbe da una
parte prendere in considerazione che, troppo spesso, molti sono pronti
a scagliarsi contro la censura in un altro paese (Iran, Cina, Cuba...)
e dimenticare quella esistente nel proprio. Un altro argomento sul
quale riflettere riguarda il rischio che la protesta si trasferisca
dalle strade ai computer, molto più facile dilettarsi nelle
tecniche anti-censura nel comodo della propria stanza e lasciare ad
altri lo scontro diretto con il potere. Infine non va sottovalutato, e
il caso Iran lo dimostra, la necessità di tenersi pronti ad
utilizzare anche vecchie tecnologie che, paradossalmente ma non troppo,
sono spesso in grado di mettere in crisi un sistema aggiornatissimo, ma
impreparato contro qualcosa che viene considerato “tecnicamente
obsoleto†e, per tornare all’esempio, molti dei materiali arrivati sui
monitor di mezzo mondo sono stati trasportati “a manoâ€, registrati
sugli ormai antidiluviani dischetti, per chi se li ricorda ancora.
Pepsy