Il corteo indetto per sabato 4 luglio dal Presidio permanente contro
il Dal Molin aveva un obiettivo ambizioso: entrare nel perimetro
dell'aereoporto dove da mesi sono iniziati i lavori della nuova base
militare. La giornata era la prima grossa iniziativa da quando le ruspe
si sono messe al lavoro: i tentativi di blocco dei cantieri mesi fa non
ebbero gran fortuna. Il sindaco di Vicenza del centro-sinistra (eletto
solo grazie ai voti dei nodalmolin) dopo un'iniziale ambiguità
ha subito calato la maschera parlando di compensazioni (una fermata
della TAV a Vicenza!), progetti alternativi ecc.
Dichiarazioni pesanti su cui gran parte del movimento vicentino è stato fin troppo silente.
I tentativi (anche questi illusori) di dialogo con la nuova
amministrazione americana per non fare la base si sono rivelati
inutili. Da qui il tentativo di rilanciare la questione della base con
un'iniziativa forte e di massa. Troppo tardi? Troppe illusioni
filo-istituzionali e errori nel corso di questi anni da parte del
Presidio? Interrogativi importanti su cui è difficile dare una
risposta semplice.
In ogni caso sabato circa 10.000 persone si sono ritrovate ancora una
volta per dire no alle basi di guerra sfidando il caldo e una paurosa
militarizzazione della città. Come per le altre volte la
manifestazione era molto composita: vicentini senza appartenenze,
pacifisti, comitati NOTAV, centri sociali (disobbedienti e autonomi),
partiti e partitini della sinistra ecc. Presenti in ordine sparso con
bandiere e diffusione della stampa anche alcune decine di anarchici.
L'unico piccolo spezzone rossonero era quello di una quindicina di
militanti dell'fdca. La stragrande maggioranza degli anarchici ha
scelto di non partecipare per marcare una distanza dalla gestione dei
disobbedienti della lotta e dalle scelte elettoraliste del presidio.
La città e in particolare l'area intorno all'aereoporto sono
stati occupati da oltre un migliaio di sbirri e carabinieri. Tutti i
pullman diretti alla manifestazione e le auto venivano fermati e
perquisiti. Ben due elicotteri hanno per tutta la giornata sorvolato a
bassa quota la zona. Il corteo dopo essere arrivato al presidio
permanente trova schierati dopo il ponte che immette sulla via che
costeggia l'aereoporto i carabinieri del battaglione tuscania in
assetto antisommossa che bloccano la strada.
A quel punto la testa del corteo costituita dai militanti dei centri
sociali (area disobbedienti ma non solo) tenta di sfondare con scudi ed
estintori il cordone dei caramba per far poi passare il corteo.
Parte la carica con ampio uso di gas urticanti e una nuova schiuma
irritante per la pelle sulle prime file. La testa del corteo risponde
con pietre e alcune bombe carta. Dopo vari minuti di fronteggiamento i
manifestanti retrocedono e i carabinieri riconquistano il ponte. Nel
frattempo la coda del corteo tenta un blitz da dietro guadando un
fiumiciattolo e tentando di arrivare alla rete: anche qui però
la sbirraglia ha la meglio. Si capisce che non c'è nessuna
possibilità di entrare nella base a meno di non voler cercare il
massacro. A questo punto le prime file di "sfondamento" si ritirano e
dopo una lunga trattativa il corteo con le donne in testa riparte con
le forze del disordine che arretrano attestandosi dentro la base.
Durante tutto il percorso da tutte le case intorno la gente sventola
bandiere nodalmolin e offre acqua ai manifestanti. La giornata si
conclude sotto una pioggia torrenziale. E' difficile fare un bilancio
oggettivo di questa giornata: il movimento contro la base ha dimostrato
di essere ancora attivo e radicato sul territorio e di godere ancora di
ampi appoggi. Del resto però ormai, anche se la voglia di
lottare non manca, la battaglia per fermare i lavori è sempre
più in salita.
Un compagno della FAI presente
I detenuti delle sezioni maschili del Centro di identificazione ed
espulsione di via Corelli, dalla mattina del 3 luglio sono in sciopero
della fame contro l'approvazione del nuovo decreto sicurezza da parte
del Parlamento italiano.
Dal giorno dopo, la Croce Rossa, prendendo a pretesto la nuova legge,
non ha distribuito più ciò che finora veniva fornito
gratuitamente ai detenuti, cioè 10 sigarette alla settimana e,
soprattutto, la ricarica telefonica settimanale di 5 euro. Ora, dicono
i crocerossini e le crocerossine, i detenuti "devono farsi aiutare dai
parenti perché quelle spese lo Stato non le sostiene
più".
Ma il fatto è che questo non è che uno dei modi con cui
essi stessi intralciano le telefonate e ogni comunicazione dei detenuti
con l'esterno e tra di loro. Essi vogliono in tutti i modi fare
sprofondare nel silenzio la situazione di Corelli e degli altri Cie,
tanto è vergognoso ciò che vi accade, e l'operato loro,
dei poliziotti e dei militari di scorta!
È necessario dare sostegno e risonanza alla lotta dei detenuti,
che è la prima risposta politica di rilievo a questa legge
infame e all'ancora più infame condizione che essa impone.
Occorre che il messaggio lanciato dai prigionieri di via Corelli
circoli e serva a unire persone di ogni Paese e colore tanto contro i
professionisti dell'allarme sociale, che contrattano coi loro compari
marocchini e libici "l'esternalizzazione dell'internamento",
cioè la costruzione di altri campi oltremare in cui confinare
clandestini, tanto contro tutto ciò che trascina la vita in
un'esistenza miserabile costruita con le arti feroci della legge, del
ricatto, della persecuzione razziale, dello sfruttamento, della guerra.
Nella nottata di domenica i reclusi di una sezione si sono rifiutati di
rientrare nelle celle e alcuni di loro hanno guadagnano il tetto del
CIE per tentare la fuga. La polizia è intervenuta e ha impedito
l'evasione, dando poi il via a una perquisizione nei corridoi della
sezione. Già nel pomeriggio la protesta aveva iniziato a
radicalizzarsi, alcuni detenuti in sciopero della fame avevano iniziato
a danneggiare la struttura di fronte ad una situazione che non
accennava a migliorare e al peggiorare delle condizioni fisiche di
alcuni scioperanti. Importante sostenere la lotta portando acqua e
bibite al CIE (l'orario di consegna dei pacchi in Corelli va dalle 15
alle 18).
Circa 100 persone si sono trovate in viale Padova a Milano per
esprimere la voce della protesta e della rivolta che veniva dal CIE di
via Corelli.
90 immigrati dal giorno prima erano in sciopero della fame per
protestare contro il pacchetto sicurezza, legge infame voluta da
una banda di criminali che di mestiere fanno i governanti al soldo di
affaristi, fascisti e golpisti. Fino alle 17 di sabato erano sui
tetti poi sono scesi e hanno cominciato a battere. Attualmente sono
ancora in sciopero.
Il tempo della pazienza è terminato: da Milano a Gradisca, da
Torino a Pantelleria non potrà esserci più un giorno di
pace. Il presidio è andato avanti fino alle 21 facendo sentire
le voci in diretta degli immigrati detenuti. Molti lavoratori immigrati
e italiani si sono avvicinati per discutere e informarsi e prendere
contatti.
In questa sede le persone che partecipavano spontaneamente hanno deciso
una manifestazione antirazzista per domenica 12 luglio con partenza
alle 16.30. Il concentramento sarà sempre al parchetto di viale
Padova angolo Via Arquà
Comitato Antirazzista Milanese
Come sempre quando le lotte cominciano a pagare, il consenso allo
stato viene meno sia nei quartieri, sia nei posti di lavoro;
quando l'autorganizzazione si fa sentire in modo attivo e rompe
le logiche logore della rappresentanza politica, si muove la
macchina poliziesca e repressiva.
Il Comitato Antirazzista Milanese nella sua breve vita (ha superato
l'anno di attività) ha dimostrato la
possibilità e l'efficacia della lotta e
dell'autorganizzazione dal basso (degli immigrati, ma non solo).
Ha dimostrato che si possono e si devono superare le vecchie e
logore logiche di appartenenza politica per unirsi invece su obiettivi
condivisi e praticabili, come quello di combattere le logiche razziste,
securitarie e militariste imposte dallo stato, e promuovere e
sostenere, ovunque sia possibile, l'autorganizzazione e la
solidarietà di classe fra gli sfruttati, fuori e contro
qualsiasi logica istituzionale.
Fabio Zerbini, compagno del Comitato Antirazzista Milanese, proprio nei
giorni in cui la lotta dei rifugiati sgomberati da Bruzzano tornava a
infiammare la piazza milanese, dopo i segnali di rivolta lanciati otto
mesi prima dagli amici di Abba, ha ricevuto dalla questura il "foglio
di via".
In precedenza si era espresso un calunnioso attacco mediatico da parte
della stampa, soprattutto il Corriere della Sera e Il Giornale,
finalizzato a preparare il terreno per questa preventiva misura di
polizia che fa parte di quell'ampio armamentario di procedimenti
con cui, da sempre, lo stato cerca di intimidire criminalizzare e
colpire interi collettivi e la loro iniziativa politica, cercando di
isolarla dai possibili movimenti di massa.
Non è estraneo neppure l'uso della "personificazione": trovare
un capo e buttarlo in pasto alla cosiddetta opinione pubblica,
soprattutto in situazioni dove i capi non ci sono e non rendono
penetrabili le solite ragioni politiche tanto care al potere.
Sicuramente il foglio di via dato a Fabio non è il primo e non
sarà l'ultimo, ma affermiamo il diritto all'intervento politico
sempre, comunque e dovunque, e per chiunque lotti per i diritti degli
esseri umani e la loro liberazione dallo sfruttamento. Inoltre,
davanti ad un'evidente accelerazione delle logiche di repressione
preventiva, alimentate dalla "crisi" che si abbatte sulle classi
subalterne, questo diventa un passaggio fondamentale per difendere
l'agibilità delle lotte di tutti e tutte. Lotte senza le quali
non c'è futuro possibile se non l'estendersi del triste scenario
già ben evidente in alcuni quartieri di Milano, dove la presenza
asfissiante di uomini armati di ogni genere ricorda molto più
teatri di guerra quali Kabul e Beirut, che non una inesistente
"società civile".
Il 9 luglio si terrà la prima udienza relativa al foglio di via che la questura milanese ha emesso contro Fabio Zerbini.
Ed è su queste basi, e con questo spirito, che chiamiamo a un
presidio unitario per giovedì 9 luglio presso il TAR in via
Conservatorio angolo Monforte, quando i giudici decideranno se
accettare o meno la richiesta di sospensiva del provvedimento.
Anto
Comitato Antirazzista Milanese
"FATA complice degli assassini in Iran": questa scritta campeggia
sul muro dello stabilimento FATA di Pianezza. Sulle cancellate nella
notte tra il 30 giugno e il primo luglio hanno fatto la loro comparsa
anche due striscioni, in italiano e in persiano. Vi si legge "Solidali
con la rivolta in Iran" e, in persiano, "Ali Khamenei = Pinochet",
"Regime dittatoriale", "Solidarietà al popolo iraniano". Sotto
una grande A cerchiata "libertà" in persiano.
Un fotografo di passaggio ha fatto qualche scatto. Li trovate qui:
http://piemonte.indymedia.org/article/5302
Nel pomeriggio in via Po si era tenuto un punto info solidale organizzato dalla FAI torinese.
La FATA, sin dal 2003, ha forti interessi in Iran, dove sta realizzando
un impianto di oltre 300 milioni di euro per la produzione di alluminio
primario a Bandar Abbas, nel sud del paese. A Teheran ha persino aperto
un ufficio, per gestire direttamente i propri affari.
Sino al 2005 amministratore delegato di FATA è stato Ignazio
Moncada. È a lui che si deve l'avvio delle relazioni d'affari
con la Repubblica Islamica. Moncada, che dopo l'acquisizione di FATA da
parte di Finmeccanica, resta con la qualifica di direttore generale,
è l'uomo giusto al posto giusto.
Inizia la sua carriera nei servizi segreti, alle dipendenze del
generale Gianadelio Maletti, uno che di affari sporchi e sporchissimi
ne ha trattati parecchi. Era l'epoca della stragi e dei tentati golpe:
Maletti governava il Sid quando in piazza Fontana una bomba di Stato
fece 16 morti.
Moncada, approdato a Torino con l'incarico di monitorare le ditte con
interessi in URSS, è uno che attraversa i più importanti
affari all'ombra della Mole, uscendo miracolosamente illeso da tutte le
tangentopoli subalpine.
Un uomo di pochi scrupoli come ogni manager che si rispetti. Uno che il
business lo fa con tutti perché i soldi non puzzano mai.
Il governo italiano con volgare ipocrisia a parole biasima la
repressione in atto in Iran, nei fatti continua a fare affari con la
Repubblica degli Ayatollah.
In questi anni il volume degli scambi tra Italia a Iran è
costantemente aumentato. Dopo le sanzioni decretate dall'ONU, dopo le
esternazioni antisemite e revisioniste di Ahmadjneiad, dopo la
questione delle centrali nucleari, il governo del nostro paese ha
duramente condannato l'Iran a parole, nei fatti ha continuato a
sostenere le industrie italiane impegnate in quel paese.
Nel 2007, con un interscambio complessivo di 5,7 miliardi di euro,
l'Italia è stata, tra i paesi dell'Unione Europea, il primo
partner commerciale dell'Iran. Le importazioni, per l'80% petrolifere,
sono state pari a 3,9 miliardi, contro esportazioni per 1,8 miliardi.
Nel giugno del 2008 si è svolto a Roma il vertice FAO cui ha
partecipato anche il presidente iraniano Ahamadjnejad. In
quell'occasione Berlusconi ha rifiutato di ricevere a palazzo Chigi il
"novello Hitler". Peccato che negli stessi giorni il "novello Hitler"
incontrasse, sempre a Roma, alcuni top manager di importanti aziende
pubbliche italiane, come l'Ansaldo e la Fata del gruppo Finmeccanica.
L'Iran è ricco di petrolio e gas, il quarto produttore di
greggio al mondo: le imprese italiane ci fanno affari da anni. I soldi
non puzzano di sangue e la politica non deve permettersi di interferire.
Anzi!
Ai nobili sostenitori del libero mercato vale la pena ricordare che
l'economia iraniana è all'80% in mano alla leadership
politico-religiosa, poiché in base all'articolo 44 della
Costituzione khomenista "industria di larga scala, commercio estero,
minerali, banche, assicurazione, energia, telecomunicazioni,
infrastrutture civili e industriali" sono di proprietà pubblica
ed amministrati dallo stato. Il rubinetto del petrolio e del gas
è in mano ai preti, così come le scelte di partnership
commerciale che tanto stanno a cuore ai capitalisti nostrani.
I ribelli persiani che in questi giorni rischiano la vita nelle strade
del loro paese valgono solo una formale dichiarazione di
"preoccupazione" del ministro degli esteri Frattini, che il 21 giugno
dice "che l'Occidente deve scegliere". Occhio e croce il governo
italiano ha già scelto. La scelta di sempre. Quella che ogni
giorno viene fatta anche sulla pelle dei lavoratori italiani: dalla
parte dei padroni e del loro affari.
Nel volantino distribuito la FAI torinese concludeva: "Noi, nel
solidarizzare con i manifestanti iraniani, non possiamo che augurarci
che la lotta, che in questi giorni ha investito anche banche e uffici
pubblici, sappia far crescere la consapevolezza che la libertà,
quella vera, non è scegliere il politico o il prete giusto ma
cacciare via tutti i preti e tutti i governi."
R. Em.