Umanità Nova, n.27 del 12 luglio 2009, anno 89

Classe come «solidarietà nella lotta»


«Classe» di Andrea Cavalletti (Bollati Boringhieri, 2009) è un libro difficile e oscuro che non si sottrae ai vezzi verbali della scrittura filosofica universitaria. Pur mettendo al centro il concetto di «solidarietà», non risulta un testo solidale con il lettore. Eppure è già un avvenimento da segnalare il fatto che – dopo decenni in cui la cultura ufficiale non ha fatto altro che smantellare e perseguire ogni ideale di liberazione sociale e di egualitarismo concreto – un docente universitario e una casa editrice accademica producano un volumetto che ripropone un'analisi della società in termini di conflitto capitale-lavoro per sottoscrivere ragioni e aporie di una «coscienza di classe rivoluzionaria». Anzi, verrebbe da dire che attraverso questo libro i pensatori rivoluzionari del passato cerchino di sognare confusamente l'avvenire: «Ogni epoca sogna la seguente», scriveva Michelet.
Molti di noi oggi fanno uso del concetto di «classe» come qualcosa di irrinunciabile e insieme di poco definibile e anzi sfuggente. Una volta si parlava di «lotta di classe». Ora, nello smarrimento in cui ci troviamo, prevalgono formule più sfumate e perplesse. Nelle assemblee c'è sempre chi concorda con qualche intervento precedente aggiungendo «sì, ma da un'ottica di classe...». E c'è magari chi sùbito sussurra ironico «eh, la classe non è acqua!». Il libro di Cavalletti, nonostante lo stile tortuoso, propone una risposta semplice e originaria che figura già nella frase in copertina: «La solidarietà è l'atto che sconvolge la massa compatta trasformandola in classe rivoluzionaria, ossia, da folla, semplicemente in classe». Vediamo cosa può voler dire questa filastrocca e, soprattutto, quali conseguenze pratiche possano venire a noi nella situazione attuale.
L'economia borghese produce «reificazione della coscienza». Ossia la nostra coscienza empirica è in realtà un angusto spazio mentale in cui ciascuno razionalizza l'esistenza su base individuale. E tanto più la coscienza isolata è rinchiusa nel mondo razionale della veglia, tanto più la coscienza collettiva sprofonda nel sogno e nell'incubo. Per questo il Novecento ha potuto unire da un lato una razionalità settoriale, specialistica, parcellizzata, e dall'altro i deliri onirici collettivi, gli incubi angosciosi della storia e gli orrori inquietanti dei lager. Se il processo capitalistico genera il proletariato, la «reificazione della coscienza» dà forma alla «folla piccolo-borghese». E qui Cavalletti riprende l'analisi della piccola borghesia svolta da Walter Benjamin: «La piccola borghesia non è una classe; è in realtà soltanto una massa, e tanto più compatta quanto maggiore è la pressione alla quale è esposta, tra le due classi nemiche della borghesia e del proletariato. In questa massa è di fatto determinante il momento reattivo. [...] Così le manifestazioni della massa compatta rivelano sempre, in ogni caso, un tratto panico». Una massa suggestionabile, impaurita, reattiva, che chiede «sicurezza» e ha bisogno di identificarsi con un «capo» o un «divo». Già Freud aveva capito questa dinamica psicologica della società di massa: «Il Führer non deve far altro che possedere in forma particolarmente pura le caratteristiche tipiche di questi individui». E sono analisi che potrebbero applicarsi agevolmente all'Italia di Berlusconi e della Lega Nord.
Oggi assistiamo al compattarsi di un blocco sociale reazionario, alla sinergia tra militarizzazione e speculazione nel quadro di una nuova «democrazia autoritaria», in cui il governo della società non è più essenzialmente affidato a forme politiche, ma alla polizia e all'informazione. Proprio dall'analisi del comportamento piccolo-borghese è possibile trarre una prima lezione: occorre «smettere di essere in balia di semplici reazioni», non ha senso rincorrere scadenze dettate dal potere, non è efficace aggregarsi soltanto in «folle» di manifestanti. La «vera guerra civile» contro i padroni è invece la solidarietà nella lotta: «il costituirsi della massa dei lavoratori in classe solidale». Classe non è solo una nozione economica, vuol dire coscienza di classe, e tale coscienza trova concretezza anzitutto nella solidarietà. Per arrivarci non c'è nessun processo lineare, ma un «salto» rivoluzionario, uno strappo, un'intuizione irriducibile. Trent'anni prima di Genova 2001, Furio Jesi ha descritto un'esperienza che a Genova migliaia e migliaia di persone hanno vissuto: «Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell'alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell'ora della rivolta non si è più soli nella città» (Spartakus. Simbologia della rivolta). Per questo la filastrocca in copertina dice: «La solidarietà è l'atto che sconvolge...». A Genova la parte migliore di un'intera generazione ha intuito qualcosa che poi, irretita dalle illusioni riformiste, non ha ancora saputo realizzare.
Questo strappo, in quanto atto solidale, non può però essere sentito come un dovere o un imperativo ribellista. Occorre al contrario seguire ciò che ci soddisfa, ciò che ci esprime: «il piacere della solidarietà, l'edonismo della lotta». Senza una morale diversa da quella borghese del dovere e dell'interesse individuale, si finisce per riprodurre quel mondo che si vorrebbe trasformare radicalmente. Lo strappo della solidarietà deve giungere fino alle radici della diseguaglianza e dello sfruttamento. Ma quali siano queste radici lo potranno dire solo le lotte future e una nuova «coscienza rivoluzionaria» capace di praticare collettivamente, oggettivamente, «il rifiuto incondizionato di ogni mediazione».

RedB

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