«Classe» di Andrea Cavalletti (Bollati Boringhieri,
2009) è un libro difficile e oscuro che non si sottrae ai vezzi
verbali della scrittura filosofica universitaria. Pur mettendo al
centro il concetto di «solidarietà», non risulta un
testo solidale con il lettore. Eppure è già un
avvenimento da segnalare il fatto che – dopo decenni in cui la cultura
ufficiale non ha fatto altro che smantellare e perseguire ogni ideale
di liberazione sociale e di egualitarismo concreto – un docente
universitario e una casa editrice accademica producano un volumetto che
ripropone un'analisi della società in termini di conflitto
capitale-lavoro per sottoscrivere ragioni e aporie di una
«coscienza di classe rivoluzionaria». Anzi, verrebbe da
dire che attraverso questo libro i pensatori rivoluzionari del passato
cerchino di sognare confusamente l'avvenire: «Ogni epoca sogna la
seguente», scriveva Michelet.
Molti di noi oggi fanno uso del concetto di «classe» come
qualcosa di irrinunciabile e insieme di poco definibile e anzi
sfuggente. Una volta si parlava di «lotta di classe». Ora,
nello smarrimento in cui ci troviamo, prevalgono formule più
sfumate e perplesse. Nelle assemblee c'è sempre chi concorda con
qualche intervento precedente aggiungendo «sì, ma da
un'ottica di classe...». E c'è magari chi sùbito
sussurra ironico «eh, la classe non è acqua!». Il
libro di Cavalletti, nonostante lo stile tortuoso, propone una risposta
semplice e originaria che figura già nella frase in copertina:
«La solidarietà è l'atto che sconvolge la massa
compatta trasformandola in classe rivoluzionaria, ossia, da folla,
semplicemente in classe». Vediamo cosa può voler dire
questa filastrocca e, soprattutto, quali conseguenze pratiche possano
venire a noi nella situazione attuale.
L'economia borghese produce «reificazione della coscienza».
Ossia la nostra coscienza empirica è in realtà un angusto
spazio mentale in cui ciascuno razionalizza l'esistenza su base
individuale. E tanto più la coscienza isolata è rinchiusa
nel mondo razionale della veglia, tanto più la coscienza
collettiva sprofonda nel sogno e nell'incubo. Per questo il Novecento
ha potuto unire da un lato una razionalità settoriale,
specialistica, parcellizzata, e dall'altro i deliri onirici collettivi,
gli incubi angosciosi della storia e gli orrori inquietanti dei lager.
Se il processo capitalistico genera il proletariato, la
«reificazione della coscienza» dà forma alla
«folla piccolo-borghese». E qui Cavalletti riprende
l'analisi della piccola borghesia svolta da Walter Benjamin: «La
piccola borghesia non è una classe; è in realtà
soltanto una massa, e tanto più compatta quanto maggiore
è la pressione alla quale è esposta, tra le due classi
nemiche della borghesia e del proletariato. In questa massa è di
fatto determinante il momento reattivo. [...] Così le
manifestazioni della massa compatta rivelano sempre, in ogni caso, un
tratto panico». Una massa suggestionabile, impaurita, reattiva,
che chiede «sicurezza» e ha bisogno di identificarsi con un
«capo» o un «divo». Già Freud aveva
capito questa dinamica psicologica della società di massa:
«Il Führer non deve far altro che possedere in forma
particolarmente pura le caratteristiche tipiche di questi
individui». E sono analisi che potrebbero applicarsi agevolmente
all'Italia di Berlusconi e della Lega Nord.
Oggi assistiamo al compattarsi di un blocco sociale reazionario, alla
sinergia tra militarizzazione e speculazione nel quadro di una nuova
«democrazia autoritaria», in cui il governo della
società non è più essenzialmente affidato a forme
politiche, ma alla polizia e all'informazione. Proprio dall'analisi del
comportamento piccolo-borghese è possibile trarre una prima
lezione: occorre «smettere di essere in balia di semplici
reazioni», non ha senso rincorrere scadenze dettate dal potere,
non è efficace aggregarsi soltanto in «folle» di
manifestanti. La «vera guerra civile» contro i padroni
è invece la solidarietà nella lotta: «il
costituirsi della massa dei lavoratori in classe solidale».
Classe non è solo una nozione economica, vuol dire coscienza di
classe, e tale coscienza trova concretezza anzitutto nella
solidarietà. Per arrivarci non c'è nessun processo
lineare, ma un «salto» rivoluzionario, uno strappo,
un'intuizione irriducibile. Trent'anni prima di Genova 2001, Furio Jesi
ha descritto un'esperienza che a Genova migliaia e migliaia di persone
hanno vissuto: «Ci si appropria di una città fuggendo o
avanzando nell'alternarsi delle cariche, molto più che giocando
da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una
ragazza. Nell'ora della rivolta non si è più soli nella
città» (Spartakus. Simbologia della rivolta). Per questo
la filastrocca in copertina dice: «La solidarietà è
l'atto che sconvolge...». A Genova la parte migliore di un'intera
generazione ha intuito qualcosa che poi, irretita dalle illusioni
riformiste, non ha ancora saputo realizzare.
Questo strappo, in quanto atto solidale, non può però
essere sentito come un dovere o un imperativo ribellista. Occorre al
contrario seguire ciò che ci soddisfa, ciò che ci
esprime: «il piacere della solidarietà, l'edonismo della
lotta». Senza una morale diversa da quella borghese del dovere e
dell'interesse individuale, si finisce per riprodurre quel mondo che si
vorrebbe trasformare radicalmente. Lo strappo della solidarietà
deve giungere fino alle radici della diseguaglianza e dello
sfruttamento. Ma quali siano queste radici lo potranno dire solo le
lotte future e una nuova «coscienza rivoluzionaria» capace
di praticare collettivamente, oggettivamente, «il rifiuto
incondizionato di ogni mediazione».
RedB