L'enciclica "carità nella verità" non aggiunge nulla
di nuovo al tradizionale magistero sociale cattolico. Il merito dello
scritto di Benedetto XVI è soprattutto quello di ordinare
maggiormente i concetti portanti e ristrutturare in maniera
teologicamente più rigorosa l'impianto dottrinale dal quale la
chiesa parte per diffondere il proprio insegnamento, alla luce del
dettato evangelico.
L'enciclica, fin dal titolo, mostra l'intenzione che guida la
riflessione del papa: la carità, cioè l'attenzione agli
altri che deve animare l'impegno sociale dei cattolici, ma anche la
tensione politica dell'intera società, ha senso solo se
illuminata dalla verità.
Un sentire solidale che non sia in conformità con la
verità rischia di scivolare nel sentimentalismo e in questo modo
"l'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E' il
fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità". La
verità impedisce che la carità sia preda di
un'emotività priva di contenuti e di un fideismo che ne
minerebbero la vocazione universale. Per cui una pratica della
carità nella verità non può darsi in una temperie
culturale relativistica come quella attuale, in quanto
"l'adesione ai valori del cristianesimo è elemento non solo
utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società
e di un vero sviluppo umano integrale".
L'adesione ai valori del cristianesimo è una formula ben pesata:
non si afferma la necessità di essere cristiani, ma di
condividere i veri valori (i quali non possono che essere cristiani).
Secondo Ratzinger, la nostra è una società che, per colpa
dell'illuminismo prima e del socialismo poi, ha minato i valori
cristiani, che soli permettevano la pratica della carità,
sostituendoli con disvalori edonistici e materialistici che impediscono
la solidarietà sociale. Nei Paesi economicamente più
sviluppati tali concezioni hanno favorito una "mentalità
antinatalista" e lo sviluppo di un progresso scientifico che mette a
rischio la dignità umana. Per evitare l'attuale deriva
relativistica, con il suo corollario di guerre, aborto, ingiustizie
sociali, è necessario che le valutazioni morali e la ricerca
scientifica crescano insieme, animate dalla carità e dalla
dottrina sociale della chiesa, la quale "consente alla fede, alla
teologia, alla metafisica e alle scienze di trovare il loro posto entro
una collaborazione a servizio dell'uomo".
Qui Ratzinger richiama un recente cavallo di battaglia, ampiamente
condiviso e rilanciato dalla CEI, da Ruini in poi: "l'allargamento del
nostro concetto di ragione e dell'uso di essa… Indispensabile per
riuscire a pesare adeguatamente tutti i termini della questione dello
sviluppo e della soluzione dei problemi socio-economici".
Il quadro teorico nel quale una reale carità può essere
agita è dunque disegnato: affermazione di una morale assoluta e
clericale, rifiuto conseguente del relativismo morale, richiesta di una
ragione allargata alla metafisica, difesa dei diritti sindacali (spesso
minati dai governi per ragioni di utilità economica) e del
mercato (che deve essere regolato da solidarietà e fiducia
reciproca).
Inoltre il papa propugna la pratica del dono gratuito, per interrompere
il binomio mercato-Stato, che corrode la socialità a scapito di
forme economiche solidali. Il pontefice si rende conto del fatto che
"il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre
per legge atteggiamenti gratuiti", considera però che "sia il
mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono
reciproco".
Ratzinger riserva dei buoni propositi anche all'impresa, la quale
non deve rispondere quasi esclusivamente a chi in essa investe,
riducendo in questo modo la propria valenza sociale; mette in guardia
dalla pratica della delocalizzazione produttiva, che "può
attenuare nell'imprenditore il senso di responsabilità nei
confronti dei portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori,
i consumatori, l'ambiente naturale… A vantaggio degli azionisti…" Il
papa invita a far sì che la gestione dell'impresa non tenga
conto "degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve farsi
carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla
vita dell'impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari
fattori di produzione, la comunità di riferimento".
Certo che però c'è anche il fatto che la delocalizzazione
"quando comporta investimenti e formazione, possa far del bene alle
popolazioni del Paese che la ospita". Come si risolve allora il
problema? Specificando che "non è però lecito
delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o
peggio per sfruttamento, senza apportare alla società locale un
vero contributo per la nascita di un robusto sistema produttivo e
sociale, fattore imprescindibile di sviluppo stabile".
Già da queste ultime considerazioni è possibile notare
come il papa, una volta uscito dal piano teorico, non sia in grado di
affrontare le questioni attraverso soluzioni che non si offrano se non
come sani propositi da affidare alla coscienza dei padroni.
Il dono gratuito, l'investimento non egoistico, la delocalizzazione
solo per il bene altrui sono formule compromissorie che oscillano tra
il patetico e lo scontato e che non mettono mai realmente in
discussione il sistema di potere sul quale l'economia internazionale si
fonda.
Non esiste, infatti, l'imprenditore per vocazione, che viva del dono.
Anche gli imprenditori "buoni", che integrano la busta paga sottobanco,
non fanno che ridistribuire, in parte, il dovuto. Il dono certifica
solo l'esistenza di un sovrappiù frutto di un furto sociale, per
cui si dovrebbe parlare, semmai, di restituzione, più che di
generosità.
L'idea che il sistema si possa regolare sulla carità dei ricchi
a favore dei poveri non si basa solo su una svista teoretica, ma
è frutto del tentativo della chiesa di avere un ruolo
riconosciuto nell'ambito della concertazione sociale; quanto ai
sindacati che piacciono a Ratzinger, la chiesa cerca di affermarsi come
struttura di mediazione del conflitto sociale, il cui sforzo si risolve
nel tentativo di convincere, a chiacchiere, i padroni a essere meno
egoisti e a dare qualche briciola in più per il sostentamento
dei lavoratori. Lungi dall'affrontare il problema del valore del
lavoro-merce, la chiesa si limita a riaffermare la carità dei
forti, benedetta dal dettato papale.
Il paradosso sta nel fatto che proprio dove Ratzinger sembra più
progressista, proprio lì dove snocciola con perizia tutti i
limiti di un sistema necessariamente egoistico, egli mostra tutta la
propria condiscendenza verso il capitalismo, con il suo mercato che,
con buona pace del papa, non può permettersi di avere un'anima.
Al di là delle stucchevoli liste di cose che non vanno bene, da
risolversi tutte con la buona coscienza cristiana del capitalista o, al
limite, con la mediazione socialmente inutile di un sindacalismo
asservito per definizione, resta solo la palese situazione di
compromesso di una chiesa che da sempre è schierata con il
potere, da sempre è il potere, nella sua accezione più
assiomatica e sacrale.
Per questo motivo la carità nella verità è una
formula che, lungi dal procurare vantaggi agli sfruttati, è
volta solo a sacralizzare maggiormente le strutture di potere
provenienti, come ogni autorità, da dio.
Dietro le parole solidali e innocue nei confronti dei lavoratori, si
nasconde, sempre meno mascherato, un attacco frontale alla ragione
moderna, che a fatica si è liberata dalle pastoie metafisiche;
il vero intento del magistero ecclesiastico, ancora una volta, è
quello di allargare la ragione, anzi, di "dilatare la ragione…"
La necessità di rendere la ragione umana capace di guardare il
piano di realtà senza far ricorso a superstizioni, dogmi e alla
metafisica teologica e filosofica, è nata dal tentativo di
smascherare quanto, dietro le promesse di illusori paradisi, si celasse
la volontà del potere di dominare, di mantenere la divisione
classista della società. Il limite della ragione pura è
l'esperienza, sosteneva Kant, e il rifiuto dell'oggettività
della metafisica non ha a che fare solo con un'esigenza filosofica, non
è soltanto un bisogno intellettuale, ma si attesta come un
passaggio necessario per scardinare la morale monolitica attraverso la
quale il connubio chiesa-stato ha reso il dominio dei padroni
inattaccabile.
La riflessione che il movimento rivoluzionario ha portato avanti
è stata sempre volta a mostrare come la superstizione religiosa,
con la sua carità di prammatica e il paradiso come premio per
gli sfruttati, sia una componente teorico-pratica ineliminabile per la
buona salute del sistema di sfruttamento dell'uomo sull'uomo. La
ragione umana, una volta forzato il limite dell'esperienza, deve
inchinarsi non solo al cattolicesimo, ma anche a tutte le forme magiche
e sacrali che fungono da humus psicologico e culturale per il
più sofisticato delirio religioso.
Una volta dilatata la ragione, per quale motivo il cristianesimo
dovrebbe pretendere di essere preso in considerazione più delle
altre religioni monoteiste o orientali? Perché non dare spazio
anche alla magia bianca o nera o alle sette religiose di ogni tipo?
L'invito all'apertura della ragione, che i cattolici pretendono
riservato esclusivamente ad una nuova irruzione del magistero nel
dibattito scientifico contemporaneo, deve essere assolutamente
denunciato come tentativo della sragione del potere di inficiare la
possibilità di una lettura laica della realtà. Solo uno
sguardo laico, infatti, è in grado di analizzare in maniera
lucida le dinamiche sociali, senza forzarle verso le narrazioni
prescientifiche della religione cristiana.
La possibilità di una lettura equilibrata della società
attuale, infatti, preserva dallo squilibrio teoretico e dalla creazione
di piani schizotipici di realtà, dove ancora possano annidarsi
padroni travestiti da benefattori e sacerdoti che cristianamente ne
benedicano l'operato caritatevole, per poi sedersi al loro stesso
tavolo.
La ragione laica dei rivoluzionari è in grado di fare a meno del
paternalismo di Benedetto XVI e della morale assoluta dei suoi seguaci,
per ribadire ancora una volta che l'emancipazione dei lavoratori
sarà opera dei lavoratori stessi, liberi da superstizioni
religiose e assolutismi politici. O non sarà.
Paolo Iervese