Umanità Nova, n.28 del 19 luglio 2009, anno 89

La carità e la menzogna


L'enciclica "carità nella verità" non aggiunge nulla di nuovo al tradizionale magistero sociale cattolico. Il merito dello scritto di Benedetto XVI è soprattutto quello di ordinare maggiormente i concetti portanti e ristrutturare in maniera teologicamente più rigorosa l'impianto dottrinale dal quale la chiesa parte per diffondere il proprio insegnamento, alla luce del dettato evangelico.
L'enciclica, fin dal titolo, mostra l'intenzione che guida la riflessione del papa: la carità, cioè l'attenzione agli altri che deve animare l'impegno sociale dei cattolici, ma anche la tensione politica dell'intera società, ha senso solo se illuminata dalla verità.
Un sentire solidale che non sia in conformità con la verità rischia di scivolare nel sentimentalismo e in questo modo "l'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E' il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità". La verità impedisce che la carità sia preda di un'emotività priva di contenuti e di un fideismo che ne minerebbero la vocazione universale. Per cui una pratica della carità nella verità non può darsi in una temperie culturale  relativistica come quella attuale, in quanto "l'adesione ai valori del cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale".
L'adesione ai valori del cristianesimo è una formula ben pesata: non si afferma la necessità di essere cristiani, ma di condividere i veri valori (i quali non possono che essere cristiani). Secondo Ratzinger, la nostra è una società che, per colpa dell'illuminismo prima e del socialismo poi, ha minato i valori cristiani, che soli permettevano la pratica della carità, sostituendoli con disvalori edonistici e materialistici che impediscono la solidarietà sociale. Nei Paesi economicamente più sviluppati tali concezioni hanno favorito una "mentalità antinatalista" e lo sviluppo di un progresso scientifico che mette a rischio la dignità umana. Per evitare l'attuale deriva relativistica, con il suo corollario di guerre, aborto, ingiustizie sociali, è necessario che le valutazioni morali e la ricerca scientifica crescano insieme, animate dalla carità e dalla dottrina sociale della chiesa, la quale "consente alla fede, alla teologia, alla metafisica e alle scienze di trovare il loro posto entro una collaborazione a servizio dell'uomo".
Qui Ratzinger richiama un recente cavallo di battaglia, ampiamente condiviso e rilanciato dalla CEI, da Ruini in poi: "l'allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa… Indispensabile per riuscire a pesare adeguatamente tutti i termini della questione dello sviluppo e della soluzione dei problemi socio-economici".
Il quadro teorico nel quale una reale carità può essere agita è dunque disegnato: affermazione di una morale assoluta e clericale, rifiuto conseguente del relativismo morale, richiesta di una ragione allargata alla metafisica, difesa dei diritti sindacali (spesso minati dai governi per ragioni di utilità economica) e del mercato (che deve essere regolato da solidarietà e fiducia reciproca).
Inoltre il papa propugna la pratica del dono gratuito, per interrompere il binomio mercato-Stato, che corrode la socialità a scapito di forme economiche solidali. Il pontefice si rende conto del fatto che "il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti", considera però che "sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco".
Ratzinger riserva dei buoni propositi  anche all'impresa, la quale non deve rispondere quasi esclusivamente a chi in essa investe, riducendo in questo modo la propria valenza sociale; mette in guardia dalla pratica della delocalizzazione produttiva, che "può attenuare nell'imprenditore il senso di responsabilità nei confronti dei portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l'ambiente naturale… A vantaggio degli azionisti…" Il papa invita a far sì che la gestione dell'impresa non tenga conto "degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell'impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento".
Certo che però c'è anche il fatto che la delocalizzazione "quando comporta investimenti e formazione, possa far del bene alle popolazioni del Paese che la ospita". Come si risolve allora il problema? Specificando che "non è però lecito delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo per la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale, fattore imprescindibile di sviluppo stabile".
Già da queste ultime considerazioni è possibile notare come il papa, una volta uscito dal piano teorico, non sia in grado di affrontare le questioni attraverso soluzioni che non si offrano se non come sani propositi da affidare alla coscienza dei padroni.
Il dono gratuito, l'investimento non egoistico, la delocalizzazione solo per il bene altrui sono formule compromissorie che oscillano tra il patetico e lo scontato e che non mettono mai realmente in discussione il sistema di potere sul quale l'economia internazionale si fonda.
Non esiste, infatti, l'imprenditore per vocazione, che viva del dono. Anche gli imprenditori "buoni", che integrano la busta paga sottobanco, non fanno che ridistribuire, in parte, il dovuto. Il dono certifica solo l'esistenza di un sovrappiù frutto di un furto sociale, per cui si dovrebbe parlare, semmai, di restituzione, più che di generosità.
L'idea che il sistema si possa regolare sulla carità dei ricchi a favore dei poveri non si basa solo su una svista teoretica, ma è frutto del tentativo della chiesa di avere un ruolo riconosciuto nell'ambito della concertazione sociale; quanto ai sindacati che piacciono a Ratzinger, la chiesa cerca di affermarsi come struttura di mediazione del conflitto sociale, il cui sforzo si risolve nel tentativo di convincere, a chiacchiere, i padroni a essere meno egoisti e a dare qualche briciola in più per il sostentamento dei lavoratori. Lungi dall'affrontare il problema del valore del lavoro-merce, la chiesa si limita a riaffermare la carità dei forti, benedetta dal dettato papale.
Il paradosso sta nel fatto che proprio dove Ratzinger sembra più progressista, proprio lì dove snocciola con perizia tutti i limiti di un sistema necessariamente egoistico, egli mostra tutta la propria condiscendenza verso il capitalismo, con il suo mercato che, con buona pace del papa, non può permettersi di avere un'anima.
Al di là delle stucchevoli liste di cose che non vanno bene, da risolversi tutte con la buona coscienza cristiana del capitalista o, al limite, con la mediazione socialmente inutile di un sindacalismo asservito per definizione, resta solo la palese situazione di compromesso di una chiesa che da sempre è schierata con il potere, da sempre è il potere, nella sua accezione più assiomatica e sacrale.
Per questo motivo la carità nella verità è una formula che, lungi dal procurare vantaggi agli sfruttati, è volta solo a sacralizzare maggiormente le strutture di potere provenienti, come ogni autorità, da dio.
Dietro le parole solidali e innocue nei confronti dei lavoratori, si nasconde, sempre meno mascherato, un attacco frontale alla ragione moderna, che a fatica si è liberata dalle pastoie metafisiche; il vero intento del magistero ecclesiastico, ancora una volta, è quello di allargare la ragione, anzi, di "dilatare la ragione…"
La necessità di rendere la ragione umana capace di guardare il piano di realtà senza far ricorso a superstizioni, dogmi e alla metafisica teologica e filosofica, è nata dal tentativo di smascherare quanto, dietro le promesse di illusori paradisi, si celasse la volontà del potere di dominare, di mantenere la divisione classista della società. Il limite della ragione pura è l'esperienza, sosteneva Kant, e il rifiuto dell'oggettività della metafisica non ha a che fare solo con un'esigenza filosofica, non è soltanto un bisogno intellettuale, ma si attesta come un passaggio necessario per scardinare la morale monolitica attraverso la quale il connubio chiesa-stato ha reso il dominio dei padroni inattaccabile.
La riflessione che il movimento rivoluzionario ha portato avanti è stata sempre volta a mostrare come la superstizione religiosa, con la sua carità di prammatica e il paradiso come premio per gli sfruttati, sia una componente teorico-pratica ineliminabile per la buona salute del sistema di sfruttamento dell'uomo sull'uomo. La ragione umana, una volta forzato il limite dell'esperienza, deve inchinarsi non solo al cattolicesimo, ma anche a tutte le forme magiche e sacrali che fungono da humus psicologico e culturale per il più sofisticato delirio religioso.
Una volta dilatata la ragione, per quale motivo il cristianesimo dovrebbe pretendere di essere preso in considerazione più delle altre religioni monoteiste o orientali? Perché non dare spazio anche alla magia bianca o nera o alle sette religiose di ogni tipo? L'invito all'apertura della ragione, che i cattolici pretendono riservato esclusivamente ad una nuova irruzione del magistero nel dibattito scientifico contemporaneo, deve essere assolutamente denunciato come tentativo della sragione del potere di inficiare la possibilità di una lettura laica della realtà. Solo uno sguardo laico, infatti, è in grado di analizzare in maniera lucida le dinamiche sociali, senza forzarle verso le narrazioni prescientifiche della religione cristiana.
La possibilità di una lettura equilibrata della società attuale, infatti, preserva dallo squilibrio teoretico e dalla creazione di piani schizotipici di realtà, dove ancora possano annidarsi padroni travestiti da benefattori e sacerdoti che cristianamente ne benedicano l'operato caritatevole, per poi sedersi al loro stesso tavolo.
La ragione laica dei rivoluzionari è in grado di fare a meno del paternalismo di Benedetto XVI e della morale assoluta dei suoi seguaci, per ribadire ancora una volta che l'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi, liberi da superstizioni religiose e assolutismi politici. O non sarà.

Paolo Iervese

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