Anche quest'estate, puntualmente, è esplosa la cosiddetta
emergenza carceri, causata da condizioni sempre più inumane dei
detenuti, aggravate dal sovraffollamento ma anche dalle quotidiane
angherie a cui sono sottoposti e dai troppi suicidi, più o meno
chiari, che si registrano con crescente frequenza.
Soltanto nei primi mesi di quest'anno si sono uccisi 45 detenuti, a fronte dei 48 dell'intero scorso anno.
In numerose città, dentro e fuori le carceri, si è
cercato di rompere il silenzio con proteste e tumulti, nonostante
l'indifferenza che circonda questo mondo separato dove sofferenza e
morte sono tragicamente normali.
In questo contesto la Corte di Strasburgo in agosto ha condannato lo
Stato italiano a risarcire un ex detenuto bosniaco, Izet Sulejmanovich,
per la sofferta carcerazione in uno spazio di gran lunga sotto gli
standard previsti dal Comitato europeo per la prevenzione della
tortura.
Gli stessi rappresentanti dell'amministrazione carceraria hanno dovuto
ammettere una situazione ormai in caduta libera "con mille detenuti in
più al mese stipati in celle dove dilagano le malattie",
criticando apertamente la politica governativa "del tutti dentro" che
promette ulteriori 5 mila celle nel prossimo biennio. Basti dire che
gli ospiti delle patrie galere sono già quasi 64 mila (e si
prevede di giungere a quota 70 mila entro la fine dell'anno) dentro
strutture che ne potrebbero accogliere al massimo poco più di 43
mila.
Persino le rappresentanze sindacali della polizia penitenziaria
denunciano sia d'essere sotto organico (35.300 agenti) che la logica
della "discarica sociale" attuata da questo governo. Tali rimostranze
non attenuano però le responsabilità, sia istituzionali
che individuali, per il violento clima fatto di quotidiane minacce,
punizioni, soprusi e ricatti esercitati dai carcerieri verso
l'umanità segregata.
In particolare, ci sembra necessario riferire le notizie provenienti da
alcune situazioni (Venezia, Livorno e Rovereto) che esemplificano in
modo eloquente quella che è una realtà ormai
generalizzata.
A Venezia, nel carcere Santa Maria Maggiore, appena lo scorso 6 marzo
si era suicidato, impiccandosi, Mohamed un tunisino ventisettenne che
in precedenza già aveva tentato di togliersi la vita. Per la
morte di questo detenuto ora sono sotto inchiesta il responsabile delle
guardie, nonché l'ispettore in servizio nel settore in cui si
trovava il detenuto e altri 4 agenti, in relazione a possibili carenze
e omissioni nella sorveglianza; mentre l'attuale direttrice ha
affermato di essere stata all'oscuro dell'accaduto.
Per quale motivo, arriva a chiedersi pure il magistrato, il giovane era
stato messo in quella cella buia, senza essere sorvegliato, nonostante
il suo noto quanto delicato equilibrio psichico; ma soprattutto
è emersa l'esistenza, da tempo denunciata da parenti e solidali,
di una "cella delle punizioni", non regolamentare, stretta, buia,
dall'odore nauseabondo, nella quale sarebbero stati arbitrariamente
confinati anche altri reclusi "da calmare".
L'ipotesi di reato è quella di abuso di autorità contro
arrestati e detenuti che, secondo l'art. 608 del codice penale, prevede
la reclusione fino a trenta mesi: facile immaginare come finirà,
ma almeno è stato risaputo qualche frammento della realtà
carceraria anche su giornali che abitualmente riferiscono compiaciuti
soltanto di arresti e condanne.
L'intera vicenda va inquadrata in una situazione che, all'interno del
carcere di Santa Maria Maggiore, ha superato il limite del
sopportabile: i detenuti sono circa 315 (con una leggera prevalenza di
immigrati), a fronte di una capienza di appena 160. E, nel frattempo,
in giugno un altro detenuto è stato trovato senza vita, stavolta
italiano, Rino Gerardi: un venditore ambulante finito dentro per
problemi di droga.
Lo scorso anno, sempre a Venezia, nel maggio 2008, era morta una
venezuelana, Flor Castello, detenuta al sesto mese di gravidanza.
Arrestata per essersi prestata a fare da "corriere umano" di droga,
dopo un mese e mezzo di carcerazione, si è sentita male, ma
quando è stata trasportata in ospedale era troppo tardi.
A Livorno, l'ultimo giorno di luglio, Emilio Angelini, un detenuto
italiano appena trasferito da Pesaro nel famigerato carcere delle
Sughere, è stato trovato impiccato. Anch'egli era recluso per
reati connessi agli stupefacenti ed era stato mandato presso la sezione
di osservazione psichiatrica per problemi di salute mentale e
tossicodipendenza. E' il nono suicidio che avviene in soli sei anni
alle Sughere, compreso il caso di Marcello Lonzi inizialmente fatto
passare per suicidio ma verosimilmente causato da un pestaggio, rimasto
impunito, ad opera del personale di custodia. Anche il carcere
livornese è da tempo oltremisura sovraffollato: non meno di 430
detenuti a fronte di una capienza di 265 posti.
A Rovereto infine, a fine luglio, un altro uomo viene trovato impiccato
in cella presso il reparto osservazione del carcere locale; si chiamava
Stefano Frapporti, muratore e mutilato di una mano per un incidente sul
lavoro. Era stato fermato e malmenato da due carabinieri in borghese il
giorno precedente per essere passato, in bicicletta, col rosso ad un
semaforo e quindi tratto in arresto dopo che, a seguito di una
perquisizione, gli era stato trovato un po' di hashish. Non gli era
stato permesso -né nella caserma dei CC né in carcere- di
avvisare l'avvocato oppure qualche parente. Ai famigliari non è
stato mostrato il corpo, trasportato in tutta fretta dopo il funerale
verso la camera di cremazione.
Sono alcune storie, tra le più recenti, che drammaticamente
rappresentano solo la punta di un iceberg destinato a rimanere sommerso
tra mille complicità e assuefazioni verso un sistema
disciplinare che, aldilà della retorica della rieducazione, non
persegue altro se non l'annientamento dei "devianti" che esso stesso
produce.
redVE