Umanità Nova, n.29 del 30 agosto 2009, anno 89

Carcere e proibizionismo


Anche quest'estate, puntualmente, è esplosa la cosiddetta emergenza carceri, causata da condizioni sempre più inumane dei detenuti, aggravate dal sovraffollamento ma anche dalle quotidiane angherie a cui sono sottoposti e dai troppi suicidi, più o meno chiari, che si registrano con crescente frequenza.
Soltanto nei primi mesi di quest'anno si sono uccisi 45 detenuti, a fronte dei 48 dell'intero scorso anno.
In numerose città, dentro e fuori le carceri, si è cercato di rompere il silenzio con proteste e tumulti, nonostante l'indifferenza che circonda questo mondo separato dove sofferenza e morte sono tragicamente normali.
In questo contesto la Corte di Strasburgo in agosto ha condannato lo Stato italiano a risarcire un ex detenuto bosniaco, Izet Sulejmanovich, per la sofferta carcerazione in uno spazio di gran lunga sotto gli standard previsti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura.
Gli stessi rappresentanti dell'amministrazione carceraria hanno dovuto ammettere una situazione ormai in caduta libera "con mille detenuti in più al mese stipati in celle dove dilagano le malattie", criticando apertamente la politica governativa "del tutti dentro" che promette ulteriori 5 mila celle nel prossimo biennio. Basti dire che gli ospiti delle patrie galere sono già quasi 64 mila (e si prevede di giungere a quota 70 mila entro la fine dell'anno) dentro strutture che ne potrebbero accogliere al massimo poco più di 43 mila.
Persino le rappresentanze sindacali della polizia penitenziaria denunciano sia d'essere sotto organico (35.300 agenti) che la logica della "discarica sociale" attuata da questo governo. Tali rimostranze non attenuano però le responsabilità, sia istituzionali che individuali, per il violento clima fatto di quotidiane minacce, punizioni, soprusi e ricatti esercitati dai carcerieri verso l'umanità segregata.
In particolare, ci sembra necessario riferire le notizie provenienti da alcune situazioni (Venezia, Livorno e Rovereto) che esemplificano in modo eloquente quella che è una realtà ormai generalizzata.
A Venezia, nel carcere Santa Maria Maggiore, appena lo scorso 6 marzo si era suicidato, impiccandosi, Mohamed un tunisino ventisettenne che in precedenza già aveva tentato di togliersi la vita. Per la morte di questo detenuto ora sono sotto inchiesta il responsabile delle guardie, nonché l'ispettore in servizio nel settore in cui si trovava il detenuto e altri 4 agenti, in relazione a possibili carenze e omissioni nella sorveglianza; mentre l'attuale direttrice ha affermato di essere stata all'oscuro dell'accaduto.  
Per quale motivo, arriva a chiedersi pure il magistrato, il giovane era stato messo in quella cella buia, senza essere sorvegliato, nonostante il suo noto quanto delicato equilibrio psichico; ma soprattutto è emersa l'esistenza, da tempo denunciata da parenti e solidali, di una "cella delle punizioni", non regolamentare, stretta, buia, dall'odore nauseabondo, nella quale sarebbero stati arbitrariamente confinati anche altri reclusi "da calmare".
L'ipotesi di reato è quella di abuso di autorità contro arrestati e detenuti che, secondo l'art. 608 del codice penale, prevede la reclusione fino a trenta mesi: facile immaginare come finirà, ma almeno è stato risaputo qualche frammento della realtà carceraria anche su giornali che abitualmente riferiscono compiaciuti soltanto di arresti e condanne.
L'intera vicenda va inquadrata in una situazione che, all'interno del carcere di Santa Maria Maggiore, ha superato il limite del sopportabile: i detenuti sono circa 315 (con una leggera prevalenza di immigrati), a fronte di una capienza di appena 160. E, nel frattempo, in giugno un altro detenuto è stato trovato senza vita, stavolta italiano, Rino Gerardi: un venditore ambulante finito dentro per problemi di droga.
Lo scorso anno, sempre a Venezia, nel maggio 2008, era morta una venezuelana, Flor Castello, detenuta al sesto mese di gravidanza. Arrestata per essersi prestata a fare da "corriere umano" di droga, dopo un mese e mezzo di carcerazione, si è sentita male, ma quando è stata trasportata in ospedale era troppo tardi.
A Livorno, l'ultimo giorno di luglio, Emilio Angelini, un detenuto italiano appena trasferito da Pesaro nel famigerato carcere delle Sughere, è stato trovato impiccato. Anch'egli era recluso per reati connessi agli stupefacenti ed era stato mandato presso la sezione di osservazione psichiatrica per problemi di salute mentale e tossicodipendenza. E' il nono suicidio che avviene in soli sei anni alle Sughere, compreso il caso di Marcello Lonzi inizialmente fatto passare per suicidio ma verosimilmente causato da un pestaggio, rimasto impunito, ad opera del personale di custodia. Anche il carcere livornese è da tempo oltremisura sovraffollato: non meno di 430 detenuti a fronte di una capienza di 265 posti.  
A Rovereto infine, a fine luglio, un altro uomo viene trovato impiccato in cella presso il reparto osservazione del carcere locale; si chiamava Stefano Frapporti, muratore e mutilato di una mano per un incidente sul lavoro. Era stato fermato e malmenato da due carabinieri in borghese il giorno precedente per essere passato, in bicicletta, col rosso ad un semaforo e quindi tratto in arresto dopo che, a seguito di una perquisizione, gli era stato trovato un po' di hashish. Non gli era stato permesso -né nella caserma dei CC né in carcere- di avvisare l'avvocato oppure qualche parente. Ai famigliari non è stato mostrato il corpo, trasportato in tutta fretta dopo il funerale verso la camera di cremazione.
Sono alcune storie, tra le più recenti, che drammaticamente rappresentano solo la punta di un iceberg destinato a rimanere sommerso tra mille complicità e assuefazioni verso un sistema disciplinare che, aldilà della retorica della rieducazione, non persegue altro se non l'annientamento dei "devianti" che esso stesso produce.

redVE

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