Umanità Nova, n.29 del 30 agosto 2009, anno 89

Una storia al negativo


Lo scorso 2 agosto, a Livorno, la locale Federazione anarchica ha rivendicato la memoria dell'anarchico Filippo Filippetti con una semplice e partecipata iniziativa presso la lapide posta dall'Anppia per ricordarne la morte, avvenuta nella notte del 2 agosto 1922.
Filippetti, muratore e militante dell'Usi, sostenne assieme ad altri Arditi del Popolo uno scontro a fuoco contro una spedizione fascista e rimase mortalmente colpito. Fu una delle sette vittime causate a Livorno dalla rappresaglia degli squadristi tricolorati contro lo sfortunato sciopero nazionale indetto in quei giorni tragici contro le violenze fasciste.
Le altre furono i fratelli Pietro e Pilade Gigli (il primo consigliere comunale comunista), l'anarchico Gilberto Catarsi, il consigliere socialista Luigi Gemignani e due popolani, Oreste Romanacci e Bruno Giacomini. Inoltre si contarono almeno tredici feriti, tra cui quattro donne.
A sostegno, decisivo, dei fascisti intervennero anche le forze dell'ordine e i militari, dotati pure di autoblindo, e l'8 agosto il ministero dell'Interno "per la tutela dell'ordine pubblico" decise il passaggio dei poteri civili all'Autorità Militare anche per la provincia di Livorno, oltre che per quelle di Milano, Genova, Ancona e Parma.
Come ebbe a commentare su «Umanità Nova» dell'11 agosto seguente Errico Malatesta: "Non fu il fascismo a vincere, fu lo Stato".
Rievocare quei giorni e quelle responsabilità politiche, seppure lontane nel tempo, non solo serve a chiarire gli immutati ruoli storici della destra e del potere statale, ma risulta necessario per far fronte al continuo tentativo di rileggere tale periodo in chiave mistificata, come riscontrabile in una recente pubblicazione apparsa nello scorso aprile, intitolata 1921. Nascita del Partito Comunista e sviluppo del fascismo a Livorno, a firma di Carlo Adorni.
Il volume, peraltro ricco di foto e documenti dell'epoca, altro non è che il tentativo di raccontare quell'anno fatidico e cruento in modo quanto meno compiacente verso lo squadrismo fascista e affatto benevolo nei confronti dell'antifascismo labronico, nell'ennesima operazione tendente a mettere sullo stesso piano le ragioni, le idee e le azioni delle due parti.
A questa tendenziosità di fondo (evidente sin dalla copertina che mostra una sfilata dei fascisti livornesi in piazza Goldoni e dalla citazione d'apertura di R.Brasillach), legittima ma dissimulata, l'autore ha sommato una serie di errori, omissioni e conclusioni approssimate che vale la pena evidenziare per sottolinearne la risibile attendibilità storica.
La prima incongruenza riguarda proprio la nascita e lo sviluppo del Fascio livornese: quello  inizialmente "diciannovista", composto per lo più da pochi ex-combattenti su posizioni repubblicane e anticlericali, e il secondo con rinnovato Direttivo, legato ai notabili cittadini e ai vertici militari filo-monarchici, votato alla controrivoluzione preventiva.
Questa involuzione reazionaria del movimento fascista non riguardò peraltro soltanto Livorno, ma vide -soprattutto dopo le vicende fiumane- una seconda fase in cui, attraverso lo scioglimento dei primi Fasci, Mussolini adeguò le strutture e le tattiche agli scopi effettivi che aveva deciso di perseguire, non più antiborghesi ma al servizio della borghesia agraria ed industriale.    
Anche il racconto del cruciale 17° Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano e della nascita del Partito Comunista d'Italia non manca di imprecisioni. Il PCdI sorse, infatti, da una scissione promossa dal gruppo napoletano facente capo a Amadeo (e non Amodeo!) Bordiga, a cui si unirono il gruppo torinese de «L'Ordine Nuovo» di A. Gramsci ed alcuni massimalisti di sinistra.
Si tace pure, riproponendo peraltro una rimozione tipica anche della storiografia togliattiana, che Bordiga fu sino al 1926 il primo segretario del neonato PCdI.
La difesa militante del Congresso, contro le annunciate aggressioni fasciste, fu assicurata non soltanto dai reduci di guerra aderenti alla Lega Proletaria, ma anche da militanti anarchici tra i quali Virgilio Antonelli che ne fu testimone; d'altro canto solo il corrispondente del quotidiano anarchico «Umanità Nova» (e non Nuova come erroneamente riportato da Adorni) fu ammesso a seguire i lavori congressuali, mentre quelli della stampa borghese dovettero rimanere fuori dal teatro.
Ma le imprecisioni riguardanti le organizzazioni del movimento operaio continuano. Parlando dello sciopero generale contro i licenziamenti del 15 febbraio 1921, si sostiene che "fu fagocitato dagli anarchici" in virtù del fatto che fu lanciato dalla Camera del lavoro aderente all'Unione Sindacale Italiana, organizzazione a cui erano iscritti non soltanto lavoratori anarchici, ma anche sindacalisti rivoluzionari e operai delle altre tendenze sovversive che, soprattutto dopo la conclusione dell'Occupazione delle Fabbriche, avevano ingrossato le fila dell'USI.  
Anche quando l'autore è costretto ad occuparsi degli Arditi del Popolo grande è la confusione e non sempre in buona fede. Se si può comprendere l'aver scambiato una poesia militante per Inno degli Arditi, ben più grave risulta la definizione data dell'arditismo popolare quale "l'avanguardia, spesso terroristica ed armata" ritenuta il "braccio armato" della Lega Proletaria (probabilmente confondendo questa organizzazione degli ex-combattenti con il Comitato di Difesa Proletaria, la struttura che raccoglieva le forze antifasciste).
Tacciare di "terrorismo" gli Arditi del Popolo appare peraltro una mistificazione politica, dato che l'azione talvolta armata svolta dagli Arditi del Popolo fu proprio un tentativo di autodifesa dalla violenza, questa sì terroristica, messa sistematicamente in atto dai fascisti.
Il massacro dei fratelli Gigli e il ferimento della madre, nella loro abitazione, compiuto a freddo dai fascisti a Livorno nell'agosto del 1922, è un esempio che non ha corrispondenti. Così come l'esecuzione a Firenze di Spartaco Lavagnini, nella sede del Sindacato Ferrovieri, anche se per l'Adorni il dirigente comunista "fu ucciso durante uno scontro".
Infatti, per l'improvvisato storico, gli unici "martiri" da celebrare sembrano essere i tre squadristi caduti nel livornese durante incidenti di piazza provocati proprio dai fascisti: Dino Leoni, mortalmente ferito a Cecina nel corso di una spedizione punitiva; Ugo Botti, colpito durante una sparatoria nei pressi di piazza Cavour, abituale luogo di ritrovo degli squadristi; il pisano Giorgio Moriani, rimasto ucciso durante un'incursione in Borgo Cappuccini che, secondo lo stesso prefetto Gasperini, era iniziata con la distruzione delle bandiere rosse esposte nel quartiere.
Tra l'altro, riguardo alla morte del Botti e del Moriani, sono stati avanzati dubbi sul fatto che fossero rimasti vittime di "fuoco amico" nel corso degli scontri (Moriani, tra l'altro, venne colpito da un proiettile alla nuca). La versione dei fatti presentata nel libro ricalca invece acriticamente le tutt'altro che neutrali ricostruzioni poliziesche e della stampa filofascista, con l'aggiunta di discutibili "medaglioni" biografici dei tre baldi giovani in camicia nera.
A questi, inoltre, è stato aggiunto pure il ritratto di Nazzareno A. Giovannucci, tra i fondatori del Fascio livornese, deceduto però nel febbraio 1924 per problemi di salute conseguenti agli incidenti connessi alla sua accanita attività di squadrista.   
D'altronde, Adorni non riesce ad essere obiettivo neppure sul ruolo antiproletario delle forze statali, nonostante che ormai sia storicamente accertato che i fascisti poterono contare sulla loro attiva connivenza: circostanza peraltro ammessa in più occasioni pure da parte fascista sino a vantarsi di aver unitamente agito per il ristabilimento dell'ordine.
Così, nel segnalare l'esistenza de «Il Seme», diffuso giornale dell'Unione anarchica livornese, l'autore sembra stupirsi che vi venisse denunciata la repressione a senso unico dalle locali autorità di polizia.
Eppure questa non era altro che l'esatta fotografia degli eventi di quei mesi e i libertari lo avevano sperimentato sulla propria pelle, vedendo proprio nell'estate del 1921 le Guardie Regie coinvolte a fianco dei fascisti sia negli scontri all'Ardenza, costati la vita agli anarchici Baldasseroni e Nardi (entrambi anche Arditi del Popolo), che nell'assalto al Circolo di Studi Sociali.
Non mancano altre svariate amenità antianarchiche che non vale neppure la pena considerare, ma merita citare quella riguardante Pietro Gori, ritenuto affiliato alla Massoneria, ovviamente senza riportare alcuna fonte (poliziesca o anche massonica) che lo attesti storicamente; ma ormai la storia si fa sul sentito dire e, soprattutto, seguendo la moda della riabilitazione nostalgica del fascismo.

emmerre

home | sommario | comunicati | archivio | link | contatti