Lo scorso 2 agosto, a Livorno, la locale Federazione anarchica ha
rivendicato la memoria dell'anarchico Filippo Filippetti con una
semplice e partecipata iniziativa presso la lapide posta dall'Anppia
per ricordarne la morte, avvenuta nella notte del 2 agosto 1922.
Filippetti, muratore e militante dell'Usi, sostenne assieme ad altri
Arditi del Popolo uno scontro a fuoco contro una spedizione fascista e
rimase mortalmente colpito. Fu una delle sette vittime causate a
Livorno dalla rappresaglia degli squadristi tricolorati contro lo
sfortunato sciopero nazionale indetto in quei giorni tragici contro le
violenze fasciste.
Le altre furono i fratelli Pietro e Pilade Gigli (il primo consigliere
comunale comunista), l'anarchico Gilberto Catarsi, il consigliere
socialista Luigi Gemignani e due popolani, Oreste Romanacci e Bruno
Giacomini. Inoltre si contarono almeno tredici feriti, tra cui quattro
donne.
A sostegno, decisivo, dei fascisti intervennero anche le forze
dell'ordine e i militari, dotati pure di autoblindo, e l'8 agosto il
ministero dell'Interno "per la tutela dell'ordine pubblico" decise il
passaggio dei poteri civili all'Autorità Militare anche per la
provincia di Livorno, oltre che per quelle di Milano, Genova, Ancona e
Parma.
Come ebbe a commentare su «Umanità Nova» dell'11
agosto seguente Errico Malatesta: "Non fu il fascismo a vincere, fu lo
Stato".
Rievocare quei giorni e quelle responsabilità politiche, seppure
lontane nel tempo, non solo serve a chiarire gli immutati ruoli storici
della destra e del potere statale, ma risulta necessario per far fronte
al continuo tentativo di rileggere tale periodo in chiave mistificata,
come riscontrabile in una recente pubblicazione apparsa nello scorso
aprile, intitolata 1921. Nascita del Partito Comunista e sviluppo del
fascismo a Livorno, a firma di Carlo Adorni.
Il volume, peraltro ricco di foto e documenti dell'epoca, altro non
è che il tentativo di raccontare quell'anno fatidico e cruento
in modo quanto meno compiacente verso lo squadrismo fascista e affatto
benevolo nei confronti dell'antifascismo labronico, nell'ennesima
operazione tendente a mettere sullo stesso piano le ragioni, le idee e
le azioni delle due parti.
A questa tendenziosità di fondo (evidente sin dalla copertina
che mostra una sfilata dei fascisti livornesi in piazza Goldoni e dalla
citazione d'apertura di R.Brasillach), legittima ma dissimulata,
l'autore ha sommato una serie di errori, omissioni e conclusioni
approssimate che vale la pena evidenziare per sottolinearne la risibile
attendibilità storica.
La prima incongruenza riguarda proprio la nascita e lo sviluppo del
Fascio livornese: quello inizialmente "diciannovista", composto
per lo più da pochi ex-combattenti su posizioni repubblicane e
anticlericali, e il secondo con rinnovato Direttivo, legato ai notabili
cittadini e ai vertici militari filo-monarchici, votato alla
controrivoluzione preventiva.
Questa involuzione reazionaria del movimento fascista non
riguardò peraltro soltanto Livorno, ma vide -soprattutto dopo le
vicende fiumane- una seconda fase in cui, attraverso lo scioglimento
dei primi Fasci, Mussolini adeguò le strutture e le tattiche
agli scopi effettivi che aveva deciso di perseguire, non più
antiborghesi ma al servizio della borghesia agraria ed
industriale.
Anche il racconto del cruciale 17° Congresso Nazionale del Partito
Socialista Italiano e della nascita del Partito Comunista d'Italia non
manca di imprecisioni. Il PCdI sorse, infatti, da una scissione
promossa dal gruppo napoletano facente capo a Amadeo (e non Amodeo!)
Bordiga, a cui si unirono il gruppo torinese de «L'Ordine
Nuovo» di A. Gramsci ed alcuni massimalisti di sinistra.
Si tace pure, riproponendo peraltro una rimozione tipica anche della
storiografia togliattiana, che Bordiga fu sino al 1926 il primo
segretario del neonato PCdI.
La difesa militante del Congresso, contro le annunciate aggressioni
fasciste, fu assicurata non soltanto dai reduci di guerra aderenti alla
Lega Proletaria, ma anche da militanti anarchici tra i quali Virgilio
Antonelli che ne fu testimone; d'altro canto solo il corrispondente del
quotidiano anarchico «Umanità Nova» (e non Nuova
come erroneamente riportato da Adorni) fu ammesso a seguire i lavori
congressuali, mentre quelli della stampa borghese dovettero rimanere
fuori dal teatro.
Ma le imprecisioni riguardanti le organizzazioni del movimento operaio
continuano. Parlando dello sciopero generale contro i licenziamenti del
15 febbraio 1921, si sostiene che "fu fagocitato dagli anarchici" in
virtù del fatto che fu lanciato dalla Camera del lavoro aderente
all'Unione Sindacale Italiana, organizzazione a cui erano iscritti non
soltanto lavoratori anarchici, ma anche sindacalisti rivoluzionari e
operai delle altre tendenze sovversive che, soprattutto dopo la
conclusione dell'Occupazione delle Fabbriche, avevano ingrossato le
fila dell'USI.
Anche quando l'autore è costretto ad occuparsi degli Arditi del
Popolo grande è la confusione e non sempre in buona fede. Se si
può comprendere l'aver scambiato una poesia militante per Inno
degli Arditi, ben più grave risulta la definizione data
dell'arditismo popolare quale "l'avanguardia, spesso terroristica ed
armata" ritenuta il "braccio armato" della Lega Proletaria
(probabilmente confondendo questa organizzazione degli ex-combattenti
con il Comitato di Difesa Proletaria, la struttura che raccoglieva le
forze antifasciste).
Tacciare di "terrorismo" gli Arditi del Popolo appare peraltro una
mistificazione politica, dato che l'azione talvolta armata svolta dagli
Arditi del Popolo fu proprio un tentativo di autodifesa dalla violenza,
questa sì terroristica, messa sistematicamente in atto dai
fascisti.
Il massacro dei fratelli Gigli e il ferimento della madre, nella loro
abitazione, compiuto a freddo dai fascisti a Livorno nell'agosto del
1922, è un esempio che non ha corrispondenti. Così come
l'esecuzione a Firenze di Spartaco Lavagnini, nella sede del Sindacato
Ferrovieri, anche se per l'Adorni il dirigente comunista "fu ucciso
durante uno scontro".
Infatti, per l'improvvisato storico, gli unici "martiri" da celebrare
sembrano essere i tre squadristi caduti nel livornese durante incidenti
di piazza provocati proprio dai fascisti: Dino Leoni, mortalmente
ferito a Cecina nel corso di una spedizione punitiva; Ugo Botti,
colpito durante una sparatoria nei pressi di piazza Cavour, abituale
luogo di ritrovo degli squadristi; il pisano Giorgio Moriani, rimasto
ucciso durante un'incursione in Borgo Cappuccini che, secondo lo stesso
prefetto Gasperini, era iniziata con la distruzione delle bandiere
rosse esposte nel quartiere.
Tra l'altro, riguardo alla morte del Botti e del Moriani, sono stati
avanzati dubbi sul fatto che fossero rimasti vittime di "fuoco amico"
nel corso degli scontri (Moriani, tra l'altro, venne colpito da un
proiettile alla nuca). La versione dei fatti presentata nel libro
ricalca invece acriticamente le tutt'altro che neutrali ricostruzioni
poliziesche e della stampa filofascista, con l'aggiunta di discutibili
"medaglioni" biografici dei tre baldi giovani in camicia nera.
A questi, inoltre, è stato aggiunto pure il ritratto di
Nazzareno A. Giovannucci, tra i fondatori del Fascio livornese,
deceduto però nel febbraio 1924 per problemi di salute
conseguenti agli incidenti connessi alla sua accanita attività
di squadrista.
D'altronde, Adorni non riesce ad essere obiettivo neppure sul ruolo
antiproletario delle forze statali, nonostante che ormai sia
storicamente accertato che i fascisti poterono contare sulla loro
attiva connivenza: circostanza peraltro ammessa in più occasioni
pure da parte fascista sino a vantarsi di aver unitamente agito per il
ristabilimento dell'ordine.
Così, nel segnalare l'esistenza de «Il Seme»,
diffuso giornale dell'Unione anarchica livornese, l'autore sembra
stupirsi che vi venisse denunciata la repressione a senso unico dalle
locali autorità di polizia.
Eppure questa non era altro che l'esatta fotografia degli eventi di
quei mesi e i libertari lo avevano sperimentato sulla propria pelle,
vedendo proprio nell'estate del 1921 le Guardie Regie coinvolte a
fianco dei fascisti sia negli scontri all'Ardenza, costati la vita agli
anarchici Baldasseroni e Nardi (entrambi anche Arditi del Popolo), che
nell'assalto al Circolo di Studi Sociali.
Non mancano altre svariate amenità antianarchiche che non vale
neppure la pena considerare, ma merita citare quella riguardante Pietro
Gori, ritenuto affiliato alla Massoneria, ovviamente senza riportare
alcuna fonte (poliziesca o anche massonica) che lo attesti
storicamente; ma ormai la storia si fa sul sentito dire e, soprattutto,
seguendo la moda della riabilitazione nostalgica del fascismo.
emmerre