Sull'Appennino abruzzese, per ritardi storici sui quali le
autorità hanno di norma cinicamente calibrato i propri
comportamenti e chiusi entrambi gli occhi, le questioni della corretta
trattazione e dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani non hanno mai
costituito una priorità. Senonché, quello che era ancora
possibile, pochi anni or sono, per una collettività
relativamente poco numerosa (l'intera provincia di L'Aquila conta, ad
oggi, circa trecentomila abitanti, quanto un quartiere di Roma,
distribuiti però su di un territorio immensamente più
esteso) nascondere sotto il tappeto – che oggi mostra,
irreparabilmente, la consunzione fisica del paesaggio per come
ingenerata da un simile devastante approccio – tutto il pattume
prodotto, oggi, con l'esponenziale aumento del rifiuto prodotto
pro-capite, l'avvento di una nuova consapevolezza e la sopravvenienza
di una normativa meno permissiva (e penalizzante per chi non si adegua
in termini di ecotasse), le classi dirigenti locali si sono trovate
dinanzi ad un problema molto serio. In linea di massima, i tre consorzi
che, in attesa della loro confluenza in un unico soggetto provinciale,
gestiscono tuttora il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti –
Aciam (Avezzano), Asm (L'Aquila), Cogesa (Sulmona) – sono sempre stati
considerati delle camere di compensazione elettorali, attraverso le
quali accontentare, con nomine che quasi mai hanno premiato il merito e
la competenza, i "trombati" alle urne e i clientes dei signori locali
delle preferenze, in linea con le pratiche tipicamente clientelari di
un certo sud. Il risultato è stato quello di accumulare un gap
spaventoso rispetto ai molti territori che, in Italia, hanno preso sul
serio il decreto Ronchi e la raccolta differenziata. Per quest'ultima i
dati della intera provincia sono ad oggi semplicemente desolanti,
attestandosi intorno ad un misero 10%. In pratica, la raccolta
differenziata non esiste.
Eppure la necessità di dare una svolta alla gestione dei rifiuti
era presente da almeno due lustri, da quando cioè un'offensiva
giudiziaria aveva posto termine al vergognoso sversamento incontrollato
sul territorio giustificato da semplici ordinanze sindacali. Ad onta di
ciò, a testimonianza di un cronico difetto di programmazione, in
pratica le due zone che raggruppano il maggior numero di abitanti della
provincia, Marsica ed aquilano, risultano, ad oggi, sprovviste di una
discarica a norma di capienza adeguata per lo smaltimento dei rifiuti.
Caso eclatante è quello di Avezzano, dove l'esaurimento della
discarica di Santa Lucia ha colto del tutto impreparato un ceto
dirigente, che si è visto investito delle proteste della
cittadinanza derivate dall'incremento della TARSU (ingenerato dalla
necessità di far affluire il pattume a Lanciano e sino in
Molise). A riprova degli enormi interessi in gioco, uno dei primi atti
emergenziali post terremoto del 6 aprile 2009 è stato quello di
riaprire le discariche di Pizzoli (comune effettivamente colpito
dell'aquilano) e di Avezzano, appunto (che di danni ne ha avuti ben
pochi). Con scarso esito, essendo quei siti effettivamente esauriti.
L'unico progetto che il consorzio Aciam (soci gran parte dei Comuni
marsicani, alcuni aquilani nonché un privato emiliano) ha
partorito in questo torno di tempo è stato quello della
megadiscarica di Valle dei fiori di Gioia dei Marsi, ove dovrebbe
affluire tutto il pattume marsicano (e non solo) dopo essere stato
trattato presso l'appena realizzato impianto di compostaggio di Aielli.
Inutile dire che senza una effettiva raccolta differenziata
quest'ultimo impianto non potrà che stabilizzare il rifiuto,
facendogli perdere, al massimo, un 15% di umido, e separerà ben
poco. Il resto in discarica. Ma il vero problema è legato al
sito prescelto, del tutto eccentrico rispetto al luogo ove si produce
gran parte del pattume nella Marsica, e che presenta un'incredibile
serie di controindicazioni, evidenziate persino dal Comitato regionale
chiamato ad emanare la valutazione di impatto ambientale. Nel solco di
quei criteri eminentemente politico-clientelari che hanno sin qui
informato la gestione complessiva del ciclo dei rifiuti in Abruzzo, per
ragioni imperscrutabili, si è scelto un sito a quasi mille metri
di altezza, quasi irraggiungibile, sito in una zona che è
classificata al massimo grado di rischio sismico; nondimeno, è
stato rilevato anche un inquietante rischio idrogeologico per l'area
sottostante; sotto tale zona dorme un acquifero che l'ARTA abruzzese
definisce di grande importanza, non senza censurare l'alta
permeabilità della roccia che dovrebbe dividere il rifiuto
dall'acqua. Un vero disastro insomma, figlio di una gestione
anacronistica del problema, dal quale non potranno che derivare
ulteriori disastri, ambientali e non solo.
Il Martello del Fucino