Ad agosto il tribunale è chiuso ma i messi della giustizia, lenti ma inesorabili, continuano a portare i loro plichi.
Sei anarchici – cinque di Torino e uno di Alessandria – hanno ricevuto
avviso di garanzia nonché comunicazione di fine delle indagini
per "i delitti 81 cpv, 110, 639 comma 2 perché con più
azioni esecutive di un medesimo episodio criminoso (...) deturpavano e
imbrattavano parte di un immobile sito in via Fanti 17, facente parte
di un edificio parzialmente costruito nel 1700 e quindi ritenuto di
interesse storico, luogo dove ha sede il centro congressi dell'Unione
Industriali di Torino." Il tutto siglato dal PM Rinaudo sotto
l'intestazione della Direzione Provinciale Antimafia.
Una roba dal tono dannatamente serio. "Delitto", "disegno criminoso", "deturpare ed imbrattare" e poi anche l'antimafia.
Facciamo un passo indietro.
Era il 7 luglio. All'Aquila i padroni del mondo facevano la loro
passerella tra le rovine della città distrutta dal terremoto. La
gente in tenda circondata da uomini armati, i potenti in una
caserma/fortezza milionaria. Roba da brividi. Un G8 tra le macerie.
Metafora reale di un tempo segnato dalla ferocia e dalla forza, dalla
guerra e dalla miseria, dal banchetto di una minoranza di
ricchiepotenti sulle spalle dei più. L'arroganza nemmeno si
maschera dietro la retorica, nemmeno finge i buoni sentimenti. L'Aquila
è il simbolo inquietante di un futuro che è già
presente. Un'intera popolazione sotto controllo, mentre i soliti noti
costruiscono fortune "umanitarie". Roba sperimentata fuori, tra Somalia
e Albania e, adesso, pronta anche per noi.
A Torino, quel 7 luglio, di fronte all'ingresso dell'Unione Industriali
in via Fanti, vengono gettate mazzette di soldi in una pozza rosso
sangue. Sulla cancellata della palazzina che ospita l'organizzazione
dei padroni della città uno striscione bianco con la scritta
"G8: guerra, schiavitù, oppressione", siglato FAI. Sangue e
soldi al palazzo dei padroni, la cifra di un mondo diviso tra chi ha
troppo e chi nulla, chi comanda e chi è obbligato a chinare il
capo, ma anche il segno della lotta e della resistenza che, ogni
giorno, in ogni dove, vede gli ultimi alzare la testa.
Neanche un mese dopo scatta la vendetta. Pomodoro e soldi finti davanti
all'ingresso dell'Unione Industriali diventano "imbrattamento e
deturpamento", "delitto", "disegno criminoso". Il marciapiedi di via
Fanti si è trasformato un edificio storico del 1700!
Si rasenta il ridicolo. Peccato che quando i pagliacci recitano in toga
nelle aule di un tribunale ci sia poco da ridere. Non ci stupiamo. Il
prezzo che chiedono per chi si oppone è ben più lieve di
quello pagato dai tanti immigrati che in quest'estate d'inferno sono
stati ammazzati in mare dalle leggi razziste di questo paese. Molto
più lieve di quello invocato per i reclusi del CIE di Milano
alla sbarra per essersi ribellati nel cuore di quest'agosto feroce.
Federazione Anarchica Torinese – FAI
"Lo Stato uccide. Carlo Giuliani vive". Questa scritta è
comparsa nella notte del 20 luglio sul monumento al carabiniere ai
giardini reali a Torino.
Era il 20 luglio del 2001. Asserragliati dentro la "zona rossa", i G8
facevano la loro passerella nel cuore di Genova. I padroni del mondo
mettevano in scena la potenza di chi decide su un intero pianeta. Un
pianeta dove miliardi di persone ogni giorno fanno i conti con un
piatto vuoto, dove l'ambiente è ostaggio degli interessi di
pochi, dove la guerra ai poveri e ai migranti miete sempre più
vittime.
Fuori, per le strade, decine di migliaia di persone manifestavano
contro un "ordine" del mondo che è sfruttamento, oppressione,
sangue e fame per i più.
Tra i tanti che quel giorno hanno affrontato la violenza scatenata dallo Stato a Genova, c'era anche Carlo Giuliani.
Un carabiniere gli sparò in faccia spezzando la sua vita.
In questi 8 anni lo stato ha assolto se stesso: l'assassino di Carlo
è stato prosciolto, come i massacratori della Diaz e Bolzaneto.
Alcuni manifestanti sono invece stati condannati a pene gravissime per
quei giorni di resistenza e di rivolta.
Oggi come allora i muri gridano una verità che nessun tribunale potrà cancellare.
Lo Stato uccide. Ogni giorno.
M. M.
La solidarietà ai prigionieri del CIE di Torino da fastidio.
Molto fastidio. Le lotte che hanno infiammato il ferragosto all'ombra
della Mole si sono sopite ma il fuoco cova dietro le sbarre. Sei mesi
al CIE, poi la deportazione, poi ancora, per forza, il viaggio, i
mercanti di uomini, la vita alla roulette russa dei poveri. E magari,
alla fine, una nuova prigione, perché, dal 2 agosto, la
clandestinità è reato.
Allora non bastano le gabbie, bisogna tagliare anche i fragili ponti di
solidarietà, impedire il contatto, foss'anche un semplice saluto
in una sera d'estate.
Domenica 23 agosto. Al CIE di corso Brunelleschi si raduna una
cinquantina di compagni per un presidio di solidarietà. La
questura prepara un'accoglienza da grandi occasioni, bloccando la
strada alle auto e schierando l'antisommossa. Sull'isolato opposto una
quindicina di leghisti manifesta in solidarietà alla CAMST, la
ditta che ha in appalto la gestione del CIE. La settimana precedente i
reclusi avevano trovato un bello scarafaggio nella minestra fornita
dalla CAMST. Sulla sede della ditta compaiono numerose scritte di
denuncia.
Nonostante lo schieramento di forze del disordine, gli antirazzisti scrivono la loro sul muro di cinta del CIE.
Venerdì 28 agosto. Al CIE ronzano i mosconi. Una, due, tre
pattuglie di polizia, un paio di macchine della Digos. Impossibile
avvicinarsi, gridare, battere i ferri, qualche petardo. Un po' di
rumore per far sentire a chi è in gabbia che fuori non è
il deserto.
Un gruppetto di antirazzisti deciso a farsi sentire non si perde
d'animo. Attraversa veloce il prato del corso, si pianta davanti al
muro e grida. Libertà, libertà, libertà. Dentro
sentono e rispondono in tanti. La polizia si affanna a chiedere
documenti, minacciare, bloccare.
Ma... Sull'altro lato del CIE, in via Mazzarello, partono i fuochi
d'artificio, una scintilla solidale nella notte delle gabbie.
Pattuglie, controlli e uomini armati non sono bastati.
Dentro gridano forte.
m. m.