Da tempo sulle colonne di Umanità Nova diversi compagni
seguono e commentano le vicende dell'economia con particolare riguardo
all'attuale crisi. Una crisi che ha caratteri epocali e, spesso, viene
paragonata alla famosa crisi del '29.
Uno dei commenti ricorrenti, non solo da parte degli antagonisti a
questo sistema, è che la crisi finirà (ma quando?) ma
l'assetto che si presenterà al suo termine non sarà
più comparabile alle esperienze degli ultimi vent'anni. Molti
analisti (anche di parte avversa a noi) hanno parlato e parlano di
"crisi del capitalismo" e di "fine del capitalismo".
Negli ultimi 20 anni (per comodità di datazione dal crollo del
muro di Berlino ad oggi) il sistema produttivo capitalistico (di
impostazione liberale) non ha avuto più alternative; la stessa
Cina ha adottato, accanto all'usuale capitalismo di stato, importanti
"riforme" indirizzando in senso liberale importanti settori ed aree
dell'economia del paese.
Oggi assistiamo ad una "statalizzazione" del capitalismo liberale che,
ancora una volta, non è in grado di autosostenersi. Il carattere
pervasivo del modo di produzione che chiamiamo capitalismo gli
conferisce un'aura sistemica che, in realtà, ha dismesso almeno
cento anni fa. Esaurita la "spinta propulsiva" del suo essere un
movimento di trasformazione reale dello stato delle cose, fatto che si
è sostanzialmente verificato a cavallo della prima guerra
mondiale, il capitalismo è da anni un sistema economico
assistito dalla fiscalità generale. Le stesse agenzie di
regolazione e investimento internazionali (FMI, BM, G8) utilizzano
ingenti fondi pubblici per far funzionare un modo di produzione che non
è affatto capace di produrre ricchezza ma, esclusivamente, di
distruggerne.
Infatti, i "grandi" economisti discutono quali siano le leve per
superare la crisi: fiscali, monetarie, spesa pubblica o un mix di
queste. Le "regolazioni" servono a far vedere che i soldi pubblici
spesi a sostegno della macchina sono "garantiti".
Quindi tutti strumenti dello stato che interviene sul mercato per farlo
funzionare nel modo ad esso (lo stato) più congegnale.
La fitta trama delle relazioni di sfruttamento tipiche del modo di
produzione capitalistico è assolutamente congeniale al sistema
di potere per riuscire a governare le popolazioni senza dover fare
ricorso (se non in termini di minaccia o di uso nelle crisi
localizzate) alla mano militare. Quando tale modalità va in
crisi e le relazioni di sfruttamento "spontanee" mostrano la corda ecco
che interviene il potere "sovrano" sia con investimenti e spesa
pubblica sia con la mano militare. Abbiamo, anche su questo aspetto,
letto molti commenti: la gravità della crisi ha una
manifestazione diretta nell'acuirsi degli aspetti repressivi e di
militarizzazione sociale.
Sembrerebbe, quella attuale, una inversione di tendenza. È,
più probabilmente, una nuova fase, nella quale i caratteri
espansivi della produzione incontrano limiti strutturali: da un punto
di vista ecologico (ma questo paradigma era già scontato negli
anni '70) e da un punto di vista della saturazione dei mercati.
I limiti dell'ecosistema, sia relativamente alle fonti energetiche sia
relativamente alla sostenibilità del modo di produzione, sono
noti. Nonostante alcune linee di ricerca (fusione nucleare, risorse
rinnovabili) diano interessanti risultati, la voracità del
capitalismo non può essere soddisfatta. Come le precedenti
"rivoluzioni industriali" sono state segnate da nuove fonti energetiche
(il carbone dei primordi, l'elettrificazione dell'800, il petrolio del
'900, il nucleare degli ultimi decenni), è lecito attendersi che
una nuova fase possa realizzarsi a fronte di significative "scoperte"
di nuove fonti energetiche.
I limiti del mercato sembravano, invece, non superati; pareva che le
tecniche di finanziarizzazione potessero espandere all'infinito la
produzione di "ricchezza". L'attuale crisi è invece tutta
interna all'eccedenza delle merci prodotte e la crisi finanziaria ne
è la conseguenza. È bene precisare che questo non
significa che sia finita la miseria; in questo caso sarebbe
definitivamente superato il capitalismo come modo di regolazione delle
relazioni sociali di sfruttamento.
Avendo la "giusta quantità" di poveri, di meno poveri, di quasi
ricchi e di ricchi che serve a garantire la piramide sociale, la
quantità di merci prodotte si è rivelata superiore di un
25% rispetto ai consumi.
Questo è avvenuto in quasi tutti i comparti: dai beni intermedi
(prodotti, macchine, servizi per la produzione di sistemi addetti a
produrre per il consumo) ai beni finali (sia nel comparto dei vicoli
che in quello dell'abbigliamento; sia nella farmaceutica che
nell'alimentare); dalle armi all'energia; dai trasporti alla logistica.
Gli unici comparti "anticiclici" che non hanno subito contrazioni (se
non indirettamente) sono quelli statali e dei servizi alle
comunità ed alle persone.
Per concludere, provvisoriamente.
È molto probabile che nel 2012-2015, date nelle quali, forse, la
crisi contemporanea sarà risolta, avremo una previsione di
ricchezza sensibilmente inferiore a quella indicata fino al 2007;
è molto probabile che le "grandi potenze" siano configurate in
modo significativamente difforme dall'attuale con ruoli emergenti non
solo per il BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) ma anche per
Venezuela, Iran e Arabia (in senso esteso); è molto probabile
che il modo di produzione subisca significative modifiche con una
maggiore attenzione ai patrimoni rispetto al corso economico. E' invece
improbabile che siano modificate le relazioni di sfruttamento: ci
saranno forse meno salariati e più schiavi o servi. La
composizione della piramide sociale potrà essere modificata ma
non il suo disegno. A meno che…
Intanto, alla fine del terzo trimestre del 2009, il quadro che si
presenta è caratterizzato dalla ripresa della speculazione
finanziaria sostenuta proprio da quegli incentivi statali che avevano
fatto gridare alla "fine del capitalismo" mentre non riparte affatto la
produzione e le previsioni occupazionali sono le più fosche con
un picco negativo – segnalano gli analisti – verso la fine del 2011.
Walter Siri