"Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l'interesse
generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione
sociale dei cittadini attraverso: la gestione di servizi socio-sanitari
ed educativi; lo svolgimento di attività diverse -agricole,
industriali, commerciali o di servizi- finalizzate all'inserimento
lavorativo di persone svantaggiate."
Questa è la definizione di cooperativa sociale, ma potremmo
anche dire della cooperazione sociale in generale, fornitaci dalla
Legge 381 del 1991. Da essa si evince un concetto fondamentale:
è importante stimolare la promozione dell'individuo.
Ma cosa significa "promuovere"?
Personalmente, ritengo che si possa parlare di promozione umana nel
momento in cui, ad un soggetto, indipendentemente dalla sua
capacità cognitiva o fisica, dalla sua credenza, etnia,
convinzione e condizione politica, si riconosca uno stato di bisogno e
pertanto occorra creare una rete di interventi per restituire
quell'identità, quella dignità e quella sicurezza
individuali, senza le quali rischierebbe di trovarsi in uno stato di
abbandono o di subordinazione. In definitiva: intervenire per dare ad
una persona in difficoltà le medesime possibilità, che ha
un qualunque essere umano, di integrarsi, interagire, esprimersi e
vivere.
Da otto anni, lavoro in una cooperativa sociale, come educatore. E il
tema della "promozione umana" mi sta molto a cuore. Ma è bene
sapere che, dietro alle giuste e lodevoli intenzioni delle cooperative
sociali, spesso si nasconde un'incoerenza di atteggiamento verso chi le
anima. Immaginate di essere di fronte ad una fotografia, che chiunque,
nel vederla, definirebbe perfetta e semplicemente bella. Ma che,
andandovi ad interessare su come essa è stata fatta, scopriate
degli aspetti poco piacevoli, da cui capite che quello che avete
visto finora è in realtà una forzatura della
realtà. Allora, quella foto, comincerete a guardarla con altri
occhi, di chi sa che fra facciata e sostanza passa una bella differenza.
Questo è quanto scoprii della mia cooperativa sociale.
Tempo fa, un collega si dovette assentare dal lavoro, causa malattia,
per circa una settimana. Alla consegna dello stipendio, trovò
una decurtazione di 150€. Se ne parlò fra colleghi e insieme
riferimmo le perplessità al coordinatore. La risposta fu
lapidaria: "La cooperativa, per contratto nazionale, non può
pagare i primi tre giorni di malattia".
Sempre in quel periodo, ecco giungere la seconda "scornata".
La cooperativa iniziò a "farsi avanti" in alcune manifestazioni
cittadine. Ciò significò dare la propria
disponibilità a lavorare anche nei giorni di sabato o di
domenica. Ricordo che chiesi come venissero considerati, in busta paga,
questi due giorni lavorativi. Di nuovo la risposta: "Si tratta di
volontariato, non di prestazione lavorativa". Cominciava così a
farsi spazio una domanda: nella cooperativa sociale quanto conta il
lavoratore? Questi due episodi mi fecero comprendere che dietro alla
bella immagine, si celava qualcosa di diverso… a tratti disgustoso.
Mi chiesi se, quanto accadeva, fosse veramente corretto, cioè
comunemente applicato e applicabile, o se sotto le parole di chi ha
l'autorità per dirle, si nascondesse qualcosa di cui io e gli
altri dipendenti saremmo dovuti stare allo scuro.
Recuperai gli articoli del contratto nazionale in merito ai temi di
malattia e servizio extra orario. Vi trovai una verità
inconfutabile: la malattia viene riconosciuta fin dal primo giorno e i
primi tre devono essere a carico del datore di lavoro; le ore
lavorative prestate oltre l'orario delle 38 ore settimanali, se non
vengono recuperate, sono da considerarsi lavoro straordinario e il
servizio prestato nei fine settimana ha una maggiorazione del 30%.
E quindi: perché?
Perché di fronte ad un contratto chiarissimo, che non fa altro
che difendere e salvaguardare la dignità lavorativa di ogni
dipendente, la cooperativa tace, finge, copre? Dove è quella
"socialità" di cui deve farsi portatrice e promotrice, se questa
non viene garantita a chi opera nella stessa cooperativa?
Ma ora compresi i discorsi fattici più volte dal nostro presidente:
"la nostra è una cooperativa di sfondo cattolico; dobbiamo
sacrificarci per gli altri; le nostre mani devono stare sul cuore e non
sul portafoglio; siamo una famiglia e come in una famiglia i problemi
si risolvono discutendone…".
Ecco quale è la logica della cooperativa sociale: "la grande
famiglia, l'isola felice" in cui non devono esistere problemi; in cui
gli esterni devono vedere solo "amore e sacrificio"; in cui gli
ostacoli devono essere risolti nella maniera più silenziosa e
"meno sindacale" possibile; in cui l'educatore è visto come un
martire, un uomo sacrificato al bene degli altri, del prossimo, con
poco interesse verso sé stesso, perché prima deve
servire. Una cooperativa sociale diventa allora la sede di un
"volontarismo cattolico".
Nessuno, se non pochi, si accorge che, in realtà, anche
l'educatore (colui che da un senso alla cooperativa!) ha dei diritti,
che è a tutti gli effetti un lavoratore, che, certo, svolge un
ruolo che è ispirato a una certa idea di aiuto all'altro, ma che
non per questo deve essere dimenticata o coperta la sua
identità.
Se la cooperativa sociale vive di immagine, ciò che le sta
dietro importa poco: conta solo quello che gli altri possono percepire
all'evidenza. E, cosa ancora più subdola, l'obiettivo che
persegue verso i suoi dipendenti è di creare un ambiente che
porti a pensare in un modo univoco, quello "dell'apparire" e del "non
creare disturbo". Ecco perché molte volte è difficile, se
non impossibile, creare un'unità sindacale all'interno di questo
ambiente; o perché fra colleghi non si possa trovare un accordo
stabile, per conquistare quei diritti che già dovrebbero essere
fruibili, ma che, chi ha il potere, si guarda bene dal renderli tali.
Quindi poco importa se la "promozione umana" non vale anche per chi
lavora all'interno della cooperativa, costretto a vivere offeso da uno
stipendio da fame, che spesso raggiunge a malapena i 1000€.
Occorre uscire da questa logica, non accondiscendere al meccanismo dell'immagine.
Io non ho voluto "assuefarmi al gioco" e per ora sono riuscito a far rispettare il pagamento dei primi tre giorni di malattia.
Ma mi piacerebbe arrivare dove sarebbe giusto arrivare, per il benessere non solo mio, ma di tutti i colleghi.
Tuttavia, per fare questo, c'è la necessità di
riconoscere un interesse comune, poiché penso sia corretto
interpretare ogni lotta mai come fine a se stessa, ma come collettiva.
Perché è importante ricordarsi (o sapere) che la
condizione di chi lavora, non è simile a quella di chi comanda:
chi lavora condivide dinamiche, ritmi e giochi di sfruttamento,
più o meno gentili; chi comanda usa la forza lavoro degli uomini
per arricchirsi. L'essere a conoscenza di questo fatto, consentirebbe
ad ogni lavoratore di ogni realtà lavorativa, esterna o interna
a una cooperativa sociale, di rivalutarsi e riscattarsi.
Occorre, insomma, riprendere quella "coscienza del mondo del lavoro"
che sta andando perdendosi, invischiata fra le comodità, i
menefreghismi, gli eccessi e le cecità imposte da una
società capitalista.
E non è anacronistico riscoprire certi termini (capitalismo e
"coscienza del mondo del lavoro"); non è per niente un ritornare
ad un linguaggio arcaico o a concetti retrogradi. Molte parole, per
quanto desuete o poco accettate, possono essere sempre utilizzate, se
non cambiano le situazioni di fondo! E quindi perché sarebbe un
errore parlare ancora oggi di "capitalismo"?
I potenti lo nascondono dietro il termine più accettabile di
liberismo: ma sono concetti identici, paritetici. Ciò che cambia
è soltanto l'idea che ogni persona si crea nel sentirli nominare
e la loro modalità di "intervenire" sul lavoratore. Se, infatti,
è parlando di capitalismo e non di liberismo che torna alla
mente la fabbrica otto-novecentesca, col padrone che ingrassa di denaro
ad ogni ora che l'operaio gli presta con il suo lavoro, oggi (in epoca
liberista) dobbiamo essere capaci di capire che questa è
un'immagine sicuramente invecchiata. Ma la figura del "padrone
ingrassante" vive ancora! Ed oggi, pare che gli stia più a cuore
cercare il modo di fregare il lavoratore, piuttosto che derubarlo
esplicitamente. Oggi c'è un capitalismo umano… quello che con la
mano destra ti abbraccia e con la sinistra ti segna in volto. Ma anche
di questo sono in pochi ad accorgersene, perché in pochi, oggi,
hanno mantenuto una coscienza del mondo del lavoro. Che non significa
essere in possesso di chissà quale scibile, ma semplicemente
riconoscere che il lavoratore è lo sfruttato e chi cerca di
ingannarlo è lo sfruttatore. Se solo si ritornasse a
disseppellire certi termini e certe conoscenze, a renderle ancora
attuali… perché è giusto che lo siano, perché il
mondo, ahimé, non è poi così cambiato.
Se solo ogni lavoratore riuscisse a riconoscere e poi ad opporsi a un
sistema che al crescere delle comodità fa corrispondere una
crescita di sfruttamento; di prendere in mano, nella sua piccola o
grande realtà lavorativa, le redini di una situazione incerta e
scorretta e contraddirla con un secco "non ci sto"; se solo si fosse
capaci di lottare scissi da logiche di partito o sindacal-concertative;
se solo le forze dal basso si rendessero veramente conto che potrebbero
avere le energie di risalire e, insieme, di modificare lo stato di
cose… bene, allora credo che quella identità e quella
dignità personali, che spettano ad ogni lavoratore, cominceranno
ad essere rispettate; credo che ogni individuo si sentirà
unitamente coinvolto a che tutti possano avere quella "promozione" che
consentirà di sentirsi non più "forza lavoro", ma
innanzitutto uomini; credo che si avrà il coraggio di liberarsi
da logiche gerarco-autoritarie ed impostare autonomamente un servizio
per la società, che rispetti come unica "legge" quella del
bisogno umano e a questa si risponda ognuno con le proprie
capacità.
Luca Lattuada