Umanità Nova, n.31 del 13 settembre 2009, anno 89

Cooperative antisociali


"Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini attraverso: la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi; lo svolgimento di attività diverse -agricole, industriali, commerciali o di servizi- finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate."
Questa è la definizione di cooperativa sociale, ma potremmo anche dire della cooperazione sociale in generale, fornitaci dalla Legge 381 del 1991. Da essa si evince un concetto fondamentale: è importante stimolare la promozione dell'individuo.
Ma cosa significa "promuovere"?
Personalmente, ritengo che si possa parlare di promozione umana nel momento in cui, ad un soggetto, indipendentemente dalla sua capacità cognitiva o fisica, dalla sua credenza, etnia, convinzione e condizione politica, si riconosca uno stato di bisogno e pertanto occorra creare una rete di interventi per restituire quell'identità, quella dignità e quella sicurezza individuali, senza le quali rischierebbe di trovarsi in uno stato di abbandono o di subordinazione. In definitiva: intervenire per dare ad una persona in difficoltà le medesime possibilità, che ha un qualunque essere umano, di integrarsi, interagire, esprimersi e vivere.
Da otto anni, lavoro in una cooperativa sociale, come educatore. E il tema della "promozione umana" mi sta molto a cuore. Ma è bene sapere che, dietro alle giuste e lodevoli intenzioni delle cooperative sociali, spesso si nasconde un'incoerenza di atteggiamento verso chi le anima. Immaginate di essere di fronte ad una fotografia, che chiunque, nel vederla, definirebbe perfetta e semplicemente bella. Ma che, andandovi ad interessare su come essa è stata fatta, scopriate degli aspetti poco piacevoli, da cui  capite che quello che avete visto finora è in realtà una forzatura della realtà. Allora, quella foto, comincerete a guardarla con altri occhi, di chi sa che fra facciata e sostanza passa una bella differenza.
Questo è quanto scoprii della mia cooperativa sociale.

Tempo fa, un collega si dovette assentare dal lavoro, causa malattia, per circa una settimana. Alla consegna dello stipendio, trovò una decurtazione di 150€. Se ne parlò fra colleghi e insieme riferimmo le perplessità al coordinatore. La risposta fu lapidaria: "La cooperativa, per contratto nazionale, non può pagare i primi tre giorni di malattia".
Sempre in quel periodo, ecco giungere la seconda "scornata".
La cooperativa iniziò a "farsi avanti" in alcune manifestazioni cittadine. Ciò significò dare la propria disponibilità a lavorare anche nei giorni di sabato o di domenica. Ricordo che chiesi come venissero considerati, in busta paga, questi due giorni lavorativi. Di nuovo la risposta: "Si tratta di volontariato, non di prestazione lavorativa". Cominciava così a farsi spazio una domanda: nella cooperativa sociale quanto conta il lavoratore? Questi due episodi mi fecero comprendere che dietro alla bella immagine, si celava qualcosa di diverso… a tratti disgustoso.
Mi chiesi se, quanto accadeva, fosse veramente corretto, cioè comunemente applicato e applicabile, o se sotto le parole di chi ha l'autorità per dirle, si nascondesse qualcosa di cui io e gli altri dipendenti saremmo dovuti stare allo scuro.
Recuperai gli articoli del contratto nazionale in merito ai temi di malattia e servizio extra orario. Vi trovai una verità inconfutabile: la malattia viene riconosciuta fin dal primo giorno e i primi tre devono essere a carico del datore di lavoro; le ore lavorative prestate oltre l'orario delle 38 ore settimanali, se non vengono recuperate, sono da considerarsi lavoro straordinario e il servizio prestato nei fine settimana ha una maggiorazione del 30%.
E quindi: perché?
Perché di fronte ad un contratto chiarissimo, che non fa altro che difendere e salvaguardare la dignità lavorativa di ogni dipendente, la cooperativa tace, finge, copre? Dove è quella "socialità" di cui deve farsi portatrice e promotrice, se questa non viene garantita a chi opera nella stessa cooperativa?
Ma ora compresi i discorsi fattici più volte dal nostro presidente:
"la nostra è una cooperativa di sfondo cattolico; dobbiamo sacrificarci per gli altri; le nostre mani devono stare sul cuore e non sul portafoglio; siamo una famiglia e come in una famiglia i problemi si risolvono discutendone…".
Ecco quale è la logica della cooperativa sociale: "la grande famiglia, l'isola felice" in cui non devono esistere problemi; in cui gli esterni devono vedere solo "amore e sacrificio"; in cui gli ostacoli devono essere risolti nella maniera più silenziosa e "meno sindacale" possibile; in cui l'educatore è visto come un martire, un uomo sacrificato al bene degli altri, del prossimo, con poco interesse verso sé stesso, perché prima deve servire. Una cooperativa sociale diventa allora la sede di un "volontarismo cattolico".
Nessuno, se non pochi, si accorge che, in realtà, anche l'educatore (colui che da un senso alla cooperativa!) ha dei diritti, che è a tutti gli effetti un lavoratore, che, certo, svolge un ruolo che è ispirato a una certa idea di aiuto all'altro, ma che non per questo deve essere dimenticata o coperta la sua identità.
Se la cooperativa sociale vive di immagine, ciò che le sta dietro importa poco: conta solo quello che gli altri possono percepire all'evidenza. E, cosa ancora più subdola, l'obiettivo che persegue verso i suoi dipendenti è di creare un ambiente che porti a pensare in un modo univoco, quello "dell'apparire" e del "non creare disturbo". Ecco perché molte volte è difficile, se non impossibile, creare un'unità sindacale all'interno di questo ambiente; o perché fra colleghi non si possa trovare un accordo stabile, per conquistare quei diritti che già dovrebbero essere fruibili, ma che, chi ha il potere, si guarda bene dal renderli tali.
Quindi poco importa se la "promozione umana" non vale anche per chi lavora all'interno della cooperativa, costretto a vivere offeso da uno stipendio da fame, che spesso raggiunge a malapena i 1000€.
Occorre uscire da questa logica, non accondiscendere al meccanismo dell'immagine.
Io non ho voluto "assuefarmi al gioco" e per ora sono riuscito a far rispettare il pagamento dei primi tre giorni di malattia.
Ma mi piacerebbe arrivare dove sarebbe giusto arrivare, per il benessere non solo mio, ma di tutti i colleghi.
Tuttavia, per fare questo, c'è la necessità di riconoscere un interesse comune, poiché penso sia corretto interpretare ogni lotta mai come fine a se stessa, ma come collettiva. Perché è importante ricordarsi (o sapere) che la condizione di chi lavora, non è simile a quella di chi comanda: chi lavora condivide dinamiche, ritmi e giochi di sfruttamento, più o meno gentili; chi comanda usa la forza lavoro degli uomini per arricchirsi. L'essere a conoscenza di questo fatto, consentirebbe ad ogni lavoratore di ogni realtà lavorativa, esterna o interna a una cooperativa sociale, di rivalutarsi e riscattarsi.  
Occorre, insomma, riprendere quella "coscienza del mondo del lavoro" che sta andando perdendosi, invischiata fra le comodità, i menefreghismi, gli eccessi e le cecità imposte da una società capitalista.
E non è anacronistico riscoprire certi termini (capitalismo e "coscienza del mondo del lavoro"); non è per niente un ritornare ad un linguaggio arcaico o a concetti retrogradi. Molte parole, per quanto desuete o poco accettate, possono essere sempre utilizzate, se non cambiano le situazioni di fondo! E quindi perché sarebbe un errore parlare ancora oggi di "capitalismo"?
I potenti lo nascondono dietro il termine più accettabile di liberismo: ma sono concetti identici, paritetici. Ciò che cambia è soltanto l'idea che ogni persona si crea nel sentirli nominare e la loro modalità di "intervenire" sul lavoratore. Se, infatti, è parlando di capitalismo e non di liberismo che torna alla mente la fabbrica otto-novecentesca, col padrone che ingrassa di denaro ad ogni ora che l'operaio gli presta con il suo lavoro, oggi (in epoca liberista) dobbiamo essere capaci di capire che questa è un'immagine sicuramente invecchiata. Ma la figura del "padrone ingrassante" vive ancora! Ed oggi, pare che gli stia più a cuore cercare il modo di fregare il lavoratore, piuttosto che derubarlo esplicitamente. Oggi c'è un capitalismo umano… quello che con la mano destra ti abbraccia e con la sinistra ti segna in volto. Ma anche di questo sono in pochi ad accorgersene, perché in pochi, oggi, hanno mantenuto una coscienza del mondo del lavoro. Che non significa essere in possesso di chissà quale scibile, ma semplicemente riconoscere che il lavoratore è lo sfruttato e chi cerca di ingannarlo è lo sfruttatore. Se solo si ritornasse a disseppellire certi termini e certe conoscenze, a renderle ancora attuali… perché è giusto che lo siano, perché il mondo, ahimé, non è poi così cambiato.
Se solo ogni lavoratore riuscisse a riconoscere e poi ad opporsi a un sistema che al crescere delle comodità fa corrispondere una crescita di sfruttamento; di prendere in mano, nella sua piccola o grande realtà lavorativa, le redini di una situazione incerta e scorretta e contraddirla con un secco "non ci sto"; se solo si fosse capaci di lottare scissi da logiche di partito o sindacal-concertative; se solo le forze dal basso si rendessero veramente conto che potrebbero avere le energie di risalire e, insieme, di modificare lo stato di cose… bene, allora credo che quella identità e quella dignità personali, che spettano ad ogni lavoratore, cominceranno ad essere rispettate; credo che ogni individuo si sentirà unitamente coinvolto a che tutti possano avere quella "promozione" che consentirà di sentirsi non più "forza lavoro", ma innanzitutto uomini; credo che si avrà il coraggio di liberarsi da logiche gerarco-autoritarie ed impostare autonomamente un servizio per la società, che rispetti come unica "legge" quella del bisogno umano e a questa si risponda ognuno con le proprie capacità.

Luca Lattuada

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