Mercoledì 9 settembre. Gli anarchici della FAI torinese danno
vita ad un punto info sui CIE in via Po. Nei CIE – Centri di
Identificazione ed Espulsione - quella appena trascorsa è stata
una lunga estate calda e l'autunno che si affaccia potrebbe non essere
da meno.
Da sempre nei CIE – ieri CPT - soprusi, pestaggi, cure negate, sedativi
nel cibo sono pane quotidiano. La resistenza e le lotte degli immigrati
rinchiusi nei CIE hanno segnato l'ultimo decennio. Negli ultimi mesi,
durante il dibattito sulle nuove norme, si sono moltiplicati gli
episodi di resistenza. Una resistenza spesso disperata fatta di braccia
tagliate, bocche cucite, lamette o pile ingoiate. Qualcuno l'ha fatta
finita appendendosi nei bagni. È successo il 7 maggio al CIE di
Ponte Galeria a Roma. Si chiamava Nabruka Nimuni, era tunisina, il
giorno che si è ammazzata era quello della sua deportazione.
In agosto, quando sono cominciati a fioccare i provvedimenti di
estensione a sei mesi della detenzione, nei CIE di Milano, Roma, Bari,
Gradisca, Bologna, Torino, Modena ci sono stati scioperi della fame,
materassi bruciati, suppellettili distrutte, attacchi alla polizia,
proteste sul tetto. Polizia, militari e crocerossini rispondono a suon
di botte.
A Torino l'ultimo episodio è del 9 settembre. Una quindicina di
immigrati, in coda per la terapia, protestano vivacemente per la lunga
attesa. Gli alpini, è la prima volta da quando sono di
"servizio" nel CIE, rispondono con un violento pestaggio. Un operatore
umanitario della CRI porta loro i manganelli perché possano
lavorare meglio.
Venerdì 11 settembre. In prefettura a Torino è il giorno
dell'apertura delle buste per l'appalto per la gestione dei CIE nei
prossimi tre anni. La data è sul bando esposto in prefettura,
dove si specifica che la seduta è pubblica. Alle 10 in punto sei
anarchici si presentano all'ingresso della Prefettura in piazza
Castello. All'ingresso li attendono due funzionari della Digos che
negano loro l'ingresso, asserendo che l'apertura delle buste è
stata rimandata. Il responsabile della prefettura conferma. Sarà
vero?
Domenica 13 settembre. Sotto le mura del CIE, petardi, fumogeni, slogan
solidali per far sentire a chi è dentro la solidarietà
alla loro lotta.
M. M.
Venerdì 11 settembre. Per i profughi e i rifugiati somali,
eritrei ed abissini che, da quasi un anno, occupano l'ex clinica S.
Paolo di corso Peschiera, è il giorno del "trasferimento". Circa
duecento hanno accettato di andare nella ex caserma di via Asti, un
altro centinaio – quelli bisognosi di protezione – sono destinati ad
una struttura della CRI a Settimo. Le operazioni vanno avanti per
l'intera mattinata, mentre fuori c'è un folto presidio di
antirazzisti e solidali.
Una trentina, che non si erano iscritti, restano fuori ma verranno alla
fine sistemati anche loro. Tutto a posto, tutti contenti. Forse.
Qualche rifugiato di via Asti fa sapere che l'ex caserma non è
esattamente un albergo: le cucine per il momento non funzionano.
La polizia sigilla l'ex clinica con assi da cantiere e piazza una
camionetta all'angolo con la via. Già, perché la partita
è ben lungi dall'essersi chiusa. Nel retro della ex clinica
c'è una casa di appartamenti che un tempo ospitava gli
infermieri, dove si sono insediati numerosi rifugiati, facendone la
loro dimora. L'hanno chiamata "casa bianca" e non hanno nessuna
intenzione di andarsene. Per la prima volta da quando sono in Italia
hanno un posto decente dove vivere, lo hanno conquistato con la lotta e
non intendono mollare.
La polizia non interviene ma fa sapere che è questione di
giorni. L'avvocato della proprietà, l'ex deputato socialista
Filippo Fiandrotti, ha una posizione ambigua circa la
possibilità di non chiedere lo sgombero immediato.
I profughi di "casa bianca" non intendono mollare. Tra loro c'è
anche una ragazza al settimo mese, che esibisce con orgoglio il suo
pancione, decisa a far nascere suo figlio in una vera casa.
M. M.
Alla fine di agosto filtrava la notizia che un gruppo fascista
locale stava organizzando un incontro a Udine per il 12 settembre con
lo pseudostorico negazionista David Irving. Pronta era la reazione del
gruppo libertario Antifascisti/e friulani/e e studenti e studentesse
antifascisti/e che denunciava pubblicamente l'iniziativa suscitando
scalpore mediatico sulla stampa locale. Non si facevano attendere le
rituali dichiarazioni di condanna da parte del Sindaco di
centrosinistra Honsell e dell'antifascismo ufficiale, prese di
posizione piene di pathos ma rigorosamente relegate al piano verbale,
mentre alcuni figuri della destra locale invocavano la "libertà
di espressione" anche per la propaganda neonazista di Irving.
Seguiva una pantomima degna di un film giallo con smentite da parte dei
fascisti, che dichiaravano di aver rinviato l'incontro a gennaio,
oscure lettere anonime, manovre diversive da parte della Questura...
All'avvicinarsi della data del 12 settembre, anche sulla base di alcune
segnalazioni che sembravano indicare che l'incontro fosse stato
segretamente confermato ma dirottato nella vicina cittadina di
Tolmezzo, gli Antifascisti/e friulani/e rilanciavano l'allarme
convocando anche un presidio in quella località. La risposta
dell'antifascismo istituzionale era pari a zero, mentre i fascisti
continuavano a dichiarare di aver rinviato l'incontro.
Solo la sera dell'11 trapelava la notizia che l'incontro si sarebbe
effettivamente tenuto l'indomani ma in località che sarebbe
stata tenuta rigorosamente segreta fino all'ultimo momento.
A questo punto l'USI di Udine convocava un secondo presidio in
città nel quale confluivano le varie anime del movimento
libertario e molti altri antifascisti.
Buona era la presenza nei due presidi, ma solo a cose fatte si veniva a
sapere che l'incontro con Irving aveva comunque potuto tenersi: a porte
chiuse, nella massima segretezza, in un hotel alla periferia di Udine,
grazie alla sapiente regia della Questura.
Se rimane l'amarezza di non essere riusciti ad impedire la vergognosa
iniziativa costituisce almeno una vittoria aver obbligato Irving e i
fascisti a nascondersi per poterla realizzare.
M
Cosenza è stracolma di immondizia, lo vedono tutti, lo vede tutta la città.
È da diversi anni che le tute gialle della Vallecrati lottano
per vedere garantiti i loro diritti di lavoratori, sempre calpestati da
i vari amministratori succedutisi e dal consorzio tutto. Vallecrati
è una società misto pubblico-privato, composta da 44
sindaci che ne detengono il 51% e da 4 soci privati che hanno il
restante 49%.
La crisi dell'azienda in cui lavoriamo, la Vallecrati, colpisce non
tanto gli organi dirigenti della spa, ma la città e soprattutto
noi operai. La città vede, commenta ma, al momento, sembra non
rispondere.
Allo stesso tempo i politici ci buttano fango addosso tacciandoci
delinquenti e fannulloni, loro che hanno voluto il carrozzone
Vallecrati, Hanno sperperato tutti i fondi, tra cui quelli sulla
raccolta differenziata, di fatto mai partita. Protestiamo perché
non vogliono pagare le schifezze fatte da chi gestisce l'azienda,
chiediamo gli stipendi arretrati (tre mensilità e
quattordicesima) ma soprattutto il futuro.
Siamo in 400, guadagniamo meno di 1000 euro al mese e la maggior parte
di noi è padre di famiglia. Oltre a questa protesta altri
lavoratori nella giornata del 4 settembre scorso hanno occupato
l'Autostrada Salerno-Reggio. Intanto la città di Cosenza viene
invasa dalla spazzatura e alcuni cassonetti prendono fuoco.
"Siamo stati tacciati di tutto, l'ultima è di aver intimidito le
ditte private di non raccogliere i rifiuti, naturalmente operazioni
giornalistiche per distogliere l'opinione pubblica dal vero problema
che abbiamo: il lavoro.
Abbiamo attuato questa protesta autonomamente, ci siamo autodeterminati
e agiremo giorno dopo giorno a seconda delle scelte che nei piani alti
decideranno sulla pelle e sul nostro futuro. Non placheremo la lotta
nemmeno di fronte al pagamento delle mensilità arretrate, la
nostra lotta è per il futuro, vogliamo garanzie scritte non le
solite chiacchiere, vogliamo continuare a lavorare per le nostre
città, garantire il decoro a tutti i cittadini e a noi stessi,
che siamo, prima di tutto, cittadini oltre che operatori ecologici che
lavoriamo da anni in condizioni precarie, le mascherine non sappiamo
cosa sono, i guanti e le buste riusciamo ad averle con estrema
difficoltà, i mezzi a volte sono del tutto inadeguati. Ad ogni
nostra richiesta la risposta è sempre uguale: non ci sono i
soldi."
Pur trattandosi di un lavoro dequalificato, poco retribuito, le tute
gialle, così come molti meridionali, abituati ad accettare come
una fortuna quella che è di fatto una sciagura, tengono oramai
da più di una settimana. Il palazzo della provincia occupato si
trova di fronte al carcere di via Popilia e la prima solidarietà
arriva proprio dal cortile e dalle celle dove di notte si vedono le
fiammelle degli accendini, come nei concerti allo stadio. I primi
giorni passano con blocchi estemporanei della 107 adiacente. Intanto
monta il presidio nel cortile del palazzo della provincia, con la
presenza fissa di una parte degli operai pronti a dare il cambio ai
colleghi che vanno a casa dopo la notte passata sul tetto. Commozione,
rabbia, applausi, in uno dei quotidiani cortei, gli operai della
Vallecrati, s'incrocia con quello dei precari della scuola,
c'è chi va dalla prefettura al comune e chi fa il tragitto al
contrario.
La sede legale della Vallecrati, diventata un fortino protetto dalle
forze dell'ordine in assetto anti-sommossa, anche se mancano gli operai
che decidono di aspettare le notizie dal tetto occupato.
In questa storia di palleggi tra Spa, sindaci e privati, in questa
storiaccia di saccheggio dei fondi pubblici per fini privati, in questa
triste vicenda di potentati politici che hanno ingrassato la gallina
Vallecrati per poi sgozzarla, a rimetterci sono solo gli operai;
il 17 settembre, verrà chiesto il fallimento in tribunale. La
lotta continua.
Oreste